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Utente:Damnic - Wikipedia

Utente:Damnic

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Giacomo Puccini e la topa di Capannori


Giacomo Puccini ha vissuto nel tempo in cui la topa era ancora sul campanile della chiesa di San Quirico e Giuditta. Capannori era un piccolo centro della piana lucchese famoso per essere il “paese della topa”, quindi tutti a Lucca ne avevano sentito parlare. E Puccini ne conosceva bene anche la forma e il significato. Mi piace immaginare il grande maestro che passa in carrozza per Capannori, si ferma sul piazzale antistante la chiesa, alza gli occhi verso il campanile, guarda curioso quella brutta faccia con i due grossi labbroni che si aprono e si chiudono al rintocco delle ore ed osserva pensieroso l’intera immagine che rappresenta la morte col falcione in mano ed avverte inesorabile: “Nescis qua hora veniam”! Cosa avrà pensato? Quale sarà stata la sua prima reazione istintiva? Lascio la risposta a voi intenditori, a voi che avete pazientemente sviscerato tutti i meandri dell’animo e del carattere dell’insigne maestro. Io, al suo posto, avrei aperto entrambe le mani e avrei subito richiuso i medi e gli anulari, tenendoli ben fermi con i pollici. Poi mi sarei anche toccato. E’ stato Franco Ravenni a dirmi per la prima volta dell’esistenza di una lettera di Puccini nella quale era citata la topa di Capannori. Era venuto a trovarmi in ufficio per discutere di questioni di vario genere. Prima di lasciarmi, mi ha chiesto se potevo sostituirlo in un incontro del giorno successivo presso la sede di Forza Italia, avendo egli già programmato di recarsi con la famiglia in montagna per il fine settimana. Con lui sarebbe partita anche la sorella Gabriella. Dopo avergli assicurato la mia presenza alla riunione, ho pensato di regalargli una copia del mio ultimo libro “Il seminarista”. Gliene ho consegnato due, una per lui e l’altra per Gabriella. - Così avete qualcosa da leggere e non vi annoiate. Vedendo i libri, gli è venuta in mente la lettera del maestro. - Chiama mia sorella - mi ha detto. - Lei conosce una lettera di Puccini in cui si parla della topa di Capannori. Potrebbe servirti per il libro. Si riferiva al libro sulla topa di Capannori, a questo. Franco ne era a conoscenza, perché ne avevo già dato notizia alla stampa locale, che l’aveva pubblicata in cronaca di Lucca, in occasione della presentazione all’hotel Alexander dell’altro mio libro “I racconti dell’infanzia di Damnic”. Non avrei mai immaginato che anche il maestro Puccini si fosse in qualche modo interessato della topa di Capannori. - Non ci posso credere! - ho esclamato. - Potresti fare addirittura uno scoop! - ha aggiunto Franco. - Credo che la lettera sia inedita e potresti essere il primo a pubblicarla. - Magari! E che dice la lettera? - Questo proprio non lo so. Devi sentire Gabriella. Appena mi è capitato di incontrare Gabriella Ravenni, che tra l’altro è direttrice della Fondazione Puccini, le ho subito chiesto della lettera del maestro e lei me ne ha confermato l’esistenza. - “Devi mettere un cartello come la topa di Capannori!”, così mi sembra che abbia scritto Puccini - ha spiegato Gabriella - in una lettera inviata al cognato. - Sai - ha aggiunto sorridendo, - quando ci è capitato di leggerla per la prima volta, non si è mica capito a cosa volesse riferirsi! Nessuno di noi sapeva ancora della topa di Capannori! - Dov’è che il cognato avrebbe dovuto mettere il cartello? - Davanti alla porta della casa del maestro, quella in corte San Lorenzo. In sostanza Puccini gli chiedeva di apporre un cartello ben visibile, appunto come la topa di Capannori, così sarebbe stato più facile affittare la casa, visto che lui ormai viveva a Milano già da un pezzo e la casa di Lucca era ancora sfitta. - Puoi farmela avere una copia della lettera? - Certamente! La cerco e appena la trovo ti chiamo. Nel frattempo è venuto a trovarmi Oriano De Ranieri, giornalista della Nazione e autore di un interessante libro sul maestro lucchese intitolato “Giacomo Puccini: luoghi e sentimenti”. Dopo avermi chiesto, come fanno ogni mattina i giornalisti della stampa locale, se avevo notizie da far riportare in cronaca di Lucca, il discorso è scivolato, non ricordo come, sulla topa di Capannori. - Lo sai - ha detto Oriano - che anche Giacomo Puccini parla della topa di Capannori in una sua lettera? - Sì, lo so. Ma tu come fai a saperlo? - Tra i documenti che ho usato per il mio libro c’era anche quella lettera. - E perché nel libro non l’hai menzionata? - Perché lo spazio era limitato. - Penso che tu abbia fatto un errore a non riportare una cosa così simpatica. - Penso anch’io, ma ormai è pubblicato. - Meglio! Così potrò inserirla nel mio libro. - Siamo tutti in attesa di leggere il tuo libro sulla topa. - Puoi farmi avere una copia di quella lettera? Dovrebbe portarmela Gabriella Ravenni, ma se me la fai avere prima, mi fai un piacere. - La cerco oggi stesso e domattina te la porto. Oriano è stato di parola e l’indomani ho avuto la lettera del maestro. Ma c’è stata una simpatica sorpresa. Ho cominciato a leggere. “Milano, 28 dicembre 1898. Puccini alla sorella Ramelde - Pescia”. - Perché è indirizzata alla sorella? - mi son subito chiesto. - Non doveva essere indirizzata al cognato? Strano che la Gabriella non sia stata precisa! Mah! Andiamo avanti. “Cara Ramelde, tu festi il Natale a letto? Io quasi. Siamo tutti un po’ raffreddati. Ora spero sarai guarita e con te Tetto. Qui è venuto il freddo ora. Io lavoro e vado avanti un po’ lentamente ma questo è il solito mio modo. Milano m’è diventata d’un uggioso tale da farmi avere i nervi sempre o quasi. Per me la campagna è un bisogno, è un’urgenza come quando scappa forte e c’è gente e non si può fare! Vorrei essere a Torre, (perché Torre per me è l’ideale), tu non dividi: è meglio così perché me lo tengo per me tutto. Vorrei esserci solo di persone civili (almeno mi credo tale) senza Ginori, Caarabbia, Tordello, Boccia, baccello, il Sor Ugenio, (quello ci vuole per il furtarello che tiene sveglia l’intelligenza al proprietario e acuisce vieppiù il giro pesca della tranquillità poverella del paese benedetto dalla natura). Ora devi sapere che sono quasi le tre di notte, tutto tace e dorme. Ho scritto dieci lettere e gli occhi mi si chiudono come trappole di topi, svelte svelte. Scrivo perché voglio veder coperto il foglio di questo carattere nervoso e irregolare come i miei pensieri. E’ proprio vero dal carattere si conosce il carattere. Che massima profonda! Anzi, meglio, che massimina profonda... Ah, quella era profonda, davvero come la topa di Capannori”. - Eccola finalmente la frase che riguarda la topa di Capannori! Però non è quella di cui mi aveva parlato la Gabriella! Sarà scritta più avanti. Ho proseguito nella lettura. “Salutami il fagianaio scoppialatore al vento, poveraccio! E’ crudeltà la mia ma alle tre di notte è permesso diventare crudeli, quasi Tommasi. Quest’estate andrò all’Abetone, se non cambio idea come cambio spesso carattere. A marzo vorrei andare a Torre. Secondo il lavoro che è il primo mio pensiero, perché se il lavoro non riesce terso come un cristallo, io posso cader di quarto come fece Sesto Caio Baccelli che, bevendo un quinto, si trovò che, invece di andare a Roma dove regnava allora Pio Nono, si ritrovò invece a Diecimo. Addio, auguri a tutti, aff. G. Puccini. Saluti e auguri a Dide e Otilia.” Ma qui non c’è nessun accenno al cartello grande come la topa di Capannori! La cosa non mi quadra. La Gabriella è una profonda conoscitrice del maestro, una delle più grandi, e se mi ha parlato di un cartello, sono sicuro che non se l’è sognato. Vuoi vedere che esiste una seconda lettera? La mia tesi non era sbagliata. Dopo qualche giorno, infatti, Gabriella Ravenni mi ha fermato in via Santa Giustina e mi ha consegnato la copia di entrambe le lettere. - Sì. Ne ho trovato anche un’altra che parla della topa di Capannori! - ha detto. - Purtroppo, però, non puoi fare nessuno scoop. Le lettere non sono inedite, sono già state pubblicate nel 1973 da Arnaldo Marchetti nel libro "Puccini com'era", edizione Curci, Milano. Peccato per lo scoop! Comunque l’ho ringraziata di cuore e ho letto immediatamente la seconda lettera, quella intestata al cognato. “Milano, 7 gennaio 1899. Puccini al cognato Raffaello Franceschini - Lucca” “Caro Raffaello, sono le due di notte. Lavoro ma n’ho poga voglia. Penso a Punta Grande, e mi consolo. Ramelde è ciottoro? Passerà, te lo di’o io. Son nervi, dice ‘arola. Domani è domeni’a. Al tocco vien Carignani a prendermi. Si va un pogo in giro, ma questa Milano mi fa vomitare, non la posso soffrire, ma ci sto pogo perché a marzo porto via le palle. Lunedì alle 12,30 parto per cinque o sei giorni e vado a Parigi (nespole, dici te). E’ proprio per mi’ sfogo perché non c’è bisogno che parta. Ho voglia d’un po’ d’aria. Tu andresti sulle mura e io vado a Parigi. Ritornerò per Lyon, Marseille, Montecarlo, dove voglio tentare il fante (porto poghi bigèi, poghi bene, perché me mi trombano pogo). C’è la rèprise di Bohème l’11 all’Opèra-Comique e io ci vado per mio gusto. Faccio bene o faccio male? Parigi mi piace, miga Milano! Non di’o miga che Milano non sia miga e che non abbia miga (vedi Ussero, Cerù, Pisa) ma non son cose per te, non le ‘apisci. Le ‘apirà colei che ha le gomita ripiene di grasso e dice che son gonfie... Saranno, poveraccia! Sia per non detto. Ho ricevuto ora una letterona della Cavallo da Marsiglia, entusiasmata di Bohème che ha avuto uno dei soliti schifosi trionfi al Grand Théatre. Ora con quel... culotto, quasi quasi... ‘mbè vedremo. Tutti dormono e io sono lìllare e gaio. C’è un caldino qui. Sono in maniche di camicia. Domani incigno un vestito. Martedì alle 6 di mattina sono a Parigi. Tornerò dopo 3 giorni di permanenza. Occupati della casa (affitto) e smetti la burletta. Perdio, di tanti che la volevano, sono spariti tutti? Fa’ fare un cartello come la topa di Capannori”. - Eccolo qui il cartello! Quindi ho finito di leggere. “Salutami la malata che a quest’ora sarà guarita e se no, gliel’auguro che avvenga subito. Forse prendo una bandita qui nelle vicinanze di Milano (300 lirette all’anno) almeno potrò nell’inverno farmi un po’ di moto. Scrivimi Paris, 12 Rue de Lisbonne, chez Ricordi. Saluti a tutti, tuo aff. G. Puccini. P.S. Dimmi: Caselli è vivo o morto? Informati e riferiscimi”. La frase sulla topa della prima lettera mi è piaciuta di più.

(dal romanzo “La topa di Capannori” di Domenico Riccio)

Le sorche dei cuoiai

(scritto in collaborazione col Ser mastro artigiano Claudio ne’ Cerasomma da Lucca)

In piazza della Misericordia si fermò per la solita bevuta alla fontana della Pupporona, così detta per la bella statua di Naiade col seno scoperto. Poi si avvicinò alla chiesa di San Salvatore e si fermò a guardare l'architrave della porta destra della facciata. L'architrave della porta di fianco, sul quale è raffigurato il miracolo di San Nicola ed è opera del Biduino, lo aveva già ammirato in altra occasione. Spostandosi per osservare meglio la rappresentazione della leggenda dello scifo d'oro, notò svariate solcature verticali sui marmi degli stipiti delle porte. - I soliti vandali! - esclamò, rivolto anche ad un volontario della Misericordia che era seduto sui gradini della chiesa. Il ragazzo, che poi disse di chiamarsi Claudio e divenne suo amico, gli spiegò invece che quelle non erano opere di irresponsabili. - Si tratta - disse - delle famose "sorche dei cuoiai". Se ci fa caso, vedrà che le ritrova davanti a quasi tutte le chiese della città. - Sorche dei cuoiai? - ripeté Damnic incuriosito. - E cosa sono? Un tempo - raccontò Claudio - quando la gente si recava a messa ed aveva qualcosa da farsi rammendare, la lasciava ai cuoiai davanti alla chiesa e la ritirava all'uscita. Durante la messa, questi lavoravano con grossi aghi e per rifare la punta li passavano sul marmo e così formavano le "sorche". (tratto da “La topa di Capannori”)

Ma cerchiamo di capire meglio. Nell’alto medioevo i cuoiai avevano botteghe ed esercitavano l’arte nella contrada di Sant’Andrea, a differenza dei pellai che erano in Pelleria (inteso come quartiere, perché l’attività veniva esercitata soprattutto in via delle Conce). Ma il 25 Agosto 1382 la Repubblica approvò i nuovi ordini sull’industria della cuoieria, stabilendo che questa doveva essere esercitata "se non in contrada S. Tomeo in li luoghi dove anticamente è usato di farsi" e che anche le botteghe dei cuoiai dovevano essere comprese dentro detti termini, "dalla ruga che vae da san Giorgio a sancta Giustina in suso verso sancto Tomeo" (che sta per San Tommaso) e quindi in via delle Conce in Pelleria, La via delle Conce in quei tempi era una calla, ovvero una via d’acqua costruita artificialmente da una diramazione presso l’attuale zona di S. Frediano (v. Lucca, il paesaggio e l’architettura dell’acqua e L’acqua fonte di attività produttive di Gilberto Bedini). Le attività di trattamento del pellame venivano svolte in locali posti al piano terra in grandi vasche di pietra, forse ancora oggi esistenti. In particolare nel fondaco, che fa angolo fra via S. Tommaso e via delle Conce. I pellai erano in stretto contatto con i cuoiai. E non si può escludere che nelle zone adiacenti esistessero laboratori di cuoio dorato e argentato usato per libri, mobili ed altro. E’ invece certo che essi erano obbligati ad esercitare la loro attività all’interno delle mura, pena addirittura l’impiccagione. Ma l’’esercizio dei cuoiai si estendeva anche al di fuori dei laboratori. Ed era normale vederli sostare all’ingresso delle numerose chiese della città, specie nei giorni di festa, quando maggiore era l’afflusso di gente. Chi si recava in chiesa gia sapeva che avrebbe trovato almeno un cuoiaio davanti all’ingresso e ne approfittava per farsi fare riparazioni su capi in pelle. Finita la messa, ritirava i capi rammendati e pagava il corrispettivo pattuito. Va considerato che nel medioevo le pelli avevano un ruolo essenziale nella vita quotidiana. Non esistendo le materie sintetiche di oggi, venivano utilizzate per le borse, gli zaini, le sacche, i capi di abbigliamento, le calzature e soprattutto per le sellature di cavalli e muli, ma anche per i filamenti da traino e le coperture dei carri; e l’elenco potrebbe continuare. I cuoiai, principalmente per le riparazioni su cuoio e pelle, utilizzavano aghi molto lunghi e spessorati , molto più lunghi di quelli che venivano usati dai tappezzieri per ricucire le matrasse (materassi). I testi non riportano questa usanza di lavorare davanti alle chiese, ma la cosa è stata tramandata verbalmente e non può certo finire nel dimenticatoio. E quegli aghi, per penetrare le pelli, dovevano mantenere la punta sempre bene affilata. Per questo motivo essa veniva strusciata ripetutamente sul marmo di un pilastro e l’operazione di sfregamento ha prodotto nel tempo delle vere sorche (o solche), ovvero delle solcature più o meno profonde e comunque evidenti nel marmo stesso. Davanti a quasi tutte le chiese di Lucca, di lato ad ogni ingresso, possiamo dunque ancora oggi vedere sugli stipiti di marmo e sui blocchi adiacenti quelle che sono diventate le sorche dei cuoiai. Le quali, però, non si notano sui marmi del duomo di San Martino (per la verità una l’ho riscontrata di persona, ma una sola). E forse il motivo sta in ciò che è scritto su una lapide fatta apporre sulla facciata da papa Alessandro II nel 1070, in occasione dell’inaugurazione della cattedrale completamente ristrutturata, che in sostanza dice: "Chi tocca il duomo sarà scomunicato" (vedi testo integrale, dettato in esametri latini direttamente dal papa, nel pezzo di questo libro intitolato Papa Alessandro II, vescovo di Lucca). Nelle intenzioni del pontefice la minaccia d’anatema era naturalmente rivolta a coloro che avrebbero osato distruggere o anche modificare la struttura del tempio, ma i cuoiai, per estensione o per paura, visti i tempi, avranno forse pensato che la scomunica potesse arrivare anche per una semplice scalfitura e non l’hanno toccato.

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