Ignavi
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
I cosiddetti ignavi sono una categoria di peccatori incontrati da Dante Alighieri nell'Antinferno, durante la narrazione del suo ipotetico viaggio nel regno dell'oltretomba.
Essi sono aspramente descritti nel Canto III dell'Inferno.
Questi dannati sono coloro che durante la loro vita non agirono mai né nel bene né nel male, senza mai osare avere una idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre.
Dante li inserisce qui perché li giudica indegni di meritare sia le gioie del Paradiso, sia le pene dell'Inferno, a causa proprio del loro non essersi schierati né a favore del bene, né a favore del male. Sono costretti a girare per l'eternità attorno a una insegna - non descritta, forse di una vana bandiera - punti da vespe e mosconi. Il loro sangue, unito alle loro lacrime, si mescola al fango dell'Inferno, come se questi dannati fossero dei cadaveri, morti viventi sepolti vivi, col corpo straziato dai vermi.
Non è a caso se Dante definisce queste anime come quelle di peccatori "che mai fur vivi". Il disprezzo del poeta verso questa categoria di peccatori è massimo e completo. Tanto accanimento si spiega, dal punto di vista teologico, perché la scelta fra Bene e Male, deve obbligatoriamente essere fatta, secondo la religione cattolica. Dal punto di vista sociale, inoltre, nel Medio Evo lo schieramento politico e la vita attiva all'interno del Comune erano quasi sempre considerate tappe fondamentali ed inevitabili nella vita di un cittadino. Se l'uomo è un essere sociale, chi si sottrae ai suoi doveri verso la società non è degno, secondo la riflessione dantesca, di stima ed ammirazione.
Dante, in una terzina, cita anonimamente, fra le schiere degli ignavi, l'anima di un personaggio che, in vita, per viltà ed ignavia "fece gran rifiuto". Gran parte degli studiosi suoi contemporanei identifica questo personaggio con Papa Celestino V, che, giunto al Soglio Pontificio dopo una vita di eremitaggio, rinunciò dopo pochi mesi alla sua carica, consentendo quindi l'ascesa al potere di Bonifacio VIII, Pontefice che Dante fermamente disprezzava. Già dal secolo successivo, questa interpretazione cadde in disgrazia presso i critici, e da allora l'anima di colui che "fece gran rifiuto" genera un non indifferente problema interpretativo. Sono molte le altre interpretazioni possibili, infatti, circa l'identità di questa anima: ivi compresa la possibilità di identificarla coll'anima di Ponzio Pilato, il prefetto romano che, secondo i Vangeli rifiutò di salvare la vita a Cristo nei momenti successivi la sua cattura, o con Esaù, che rifiutò la sua primogenitura barattandola con un piatto di lenticchie. Secondo alcuni è poco probabile che sia uno di questi ultimi perché Dante, comunque, non poteva riconoscerli, non avendoli mai visti.