Prodotto tipico
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Negli ultimi dieci-quindici anni, più o meno tutte le province italiane hanno registrato un eccezionale sviluppo d’interesse attorno ai cosiddetti “prodotti tipici”; contemporaneamente si è sviluppato un crescente utilizzo della campagna a fini ricreativi, turistici (e d’immagine).
Attorno alle produzioni tipiche, si sono riscoperte e sono poi “rifiorite” molte comunità locali e si sono innescate dinamiche nuove di sviluppo rurale, ad una prima lettura del tutto “virtuose” e congrue rispetto al fine della compatibilità dello sviluppo della campagna e delle aree interne del paese. Oggi, i prodotti tipici sono divenuti un vero e proprio “fenomeno”, un ingrediente richiestissimo per i media televisivi, le riviste, eventi di vario genere, turismo enogastronomico, sagre, ecc…: si tratta quindi di storie contemporanee di successo, per lo più ovviamente rivolte al grande pubblico della città. In realtà, i prodotti delle campagne sono segni che ci parlano di situazioni sociali, economiche, politiche: riflettono le profonde mutazioni del secolo appena concluso e rimandano all’evoluzione del costume legato al cibo e alla tavola, all’industria alimentare, alla comunicazione nel mondo del consumo. In pochi anni si è passati dalla geografia della fame al cheeseburger mordi e fuggi; dal “pane grosso” al cracker e poi allo snobistico pane locale; dalla competenza artigiana e contadina nell’intero ciclo di produzione e trasformazione alimentare alla dipendenza dal sistema pubblicitario. Il prodotto e il cibo sono decontestualizzati e destagionalizzati: si mangia qualunque cosa in qualunque luogo e lo si può mangiare ogni mese dell’anno. Sono così scomparsi tanti ingredienti di base della cucina tradizionale e si sono imposti alimenti prima sconosciuti, dai nomi esotici e che evocano sogno, evasione, emulazione sociale. E’ il momento culminante di un comportamento alimentare condizionato dall’iconografia che lo accompagna, dal marketing, dalla confezione, dove l’involucro prevale sul contenuto e dove il messaggio pubblicitario allo stesso tempo esalta il “nuovo” e sollecita la nostalgia per l’“antico”, come paragone di autenticità.
Poi, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’incredibile crescita di un nuovo atteggiamento, di consumo e di interesse, verso le produzioni della campagna, verso la tipicità e la naturalità. Un po’ per la nostalgia, la necessità di recuperare una qualche radice, per la paura degli scandali legati ad emergenze sanitarie ed ambientali. E un po’ come riflesso per le denunce dei movimenti ecologisti e per l’attività di educazione alimentare e educazione del gusto promosse da tante associazioni.
In questa riscoperta attuale, le tipicità locali possono certamente vantare molti punti di forza: la qualità delle produzioni, la presenza di imprese nuove e dinamiche, il richiamo ai valori paesaggistici ed ambientali, una evidente integrazione tra la comunità ed i processi di lavorazione. Sono il risultato dei tanti e differenti processi di coevoluzione tra le diversità ambientali e le diversità tecniche e professionali operate dall’agricoltore-contadino.
Da molti, questo ritorno d’interesse per il pollo del contadino, il formaggio di fossa e il fagiolo del Pratomagno, viene salutato come la salvezza per l’agricoltura italiana. In realtà, il fenomeno inizia a mostrare anche i suoi punti di debolezza: la fragilità delle risorse riproposte, a volte la loro difficile identificazione, le problematiche legate all’età ed alle carenze professionali dei produttori, il rischio facile delle contraffazioni, delle imitazioni, il rarefarsi delle aree originarie di produzione.
Ancora soltanto dieci anni fa, erano causa di rottura e novità argomenti come “la qualità del territorio, produrre meno ma produrre meglio, la biodiversità contro l’omologazione…”. Ed oggi invece iniziamo a domandarci “verso dove stiamo andando?”, perché dietro l’indiscutibile successo delle produzioni tipiche sembrano emergere numerose contraddizioni e ambiguità: quanto siamo consapevoli dei nuovi modelli di consumo commerciale e culturale del mondo rurale? Qual è l’esperienza dei produttori – e dei piccoli in particolare – all’avanzare di questi fenomeni? E possiamo ancora parlare di sviluppo rurale sostenibile?
E chi ha in mano questi processi? Chi controlla la sostituzione del mercato locale con quello commerciale e industriale? E c’è la percezione del rischio della scomparsa del fagiolo di.. o del pollo di.. da parte dei produttori? E l’agricoltore contadino ha la percezione del loro valore complessivo del suo lavoro, che è sociale e culturale oltre che economico? Curiosamente, sono migliaia di giovani cittadini a dar vita nel mondo ad un movimento che trova la sua identità nella terra, nel territorio, nel recupero di un’agricoltura anche tradizionale.
In effetti, in tante situazioni, l’agricoltore è come una voce fuori campo, una presenza invisibile nell’iper produzione di stereotipie del tipico. E soprattutto, si percepisce la sensazione di un generale folclorismo, dove il consumatore a volte manifesta la sua precarietà ansiosa e a volte si perde nell’elitarismo (che è quasi un’altra faccia della medaglia: la scomparsa delle produzioni e lo snobismo che le insegue).