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Vergina - Wikipedia

Vergina

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L'entrata del museo del Grande Tumulo a Vergina
L'entrata del museo del Grande Tumulo a Vergina

Verginao Verghina, (in greco Βεργίνα) è un paesino del nord della Grecia, nella prefettura di Imathia, nella regione o periferia della Macedonia Centrale. Si trova a circa 12 km dal capoluogo della prefettura Veria, a 75 km da Tessalonica, capoluogo della regione ed a 515 Km da Atene, sulle pendici del Monte Pieria (2193 m). Ha una popolazione di circa 2000 abitanti. Presso Vergina sorge uno dei maggiori siti archeologici della Grecia.

Verghina, al giorno d’oggi, è uno dei più importanti luoghi archeologici della Grecia. Prende il nome da una leggendaria regina morta suicida nel fiume Aliamone dove si era gettata per non cadere nelle mani dei turchi. Il paesino è diventato famoso nell’autunno del 1977 con la scoperta della tomba di Filippo II, cosa che ha dimostrato, senza sorta di dubbio, che la prima capitale della Macedonia antica è da identificare proprio in Verghina. Secondo la mitologia, Archelao, figlio di Temeno, dopo essere stato cacciato da Argo, si recò in Macedonia per aiutare il re Cisseo ad affrontare i suoi nemici, ma, giunto a destinazione, il re cercò di assassinarlo. Archelao, a questo punto, uccise Cisseo e scappò seguendo, secondo l’oracolo, una carpa. Ove la carpa (carpa = Aix-aigòs) si fermò, egli fondò la città di Aigaì; essa fu la prima capitale dei macedoni fino al trasferimento a Pella. Pertanto, secondo l’usanza, i re macedoni continuarono ad essere seppelliti nella prima capitale, fatto su cui si è basata la teoria dell’identificazione di Verghina con Aigaì. Dal I secolo d.C. la città venne abbandonata; da allora, il nome “Aigaì” non apparve più e fu sostituito con “Palatitsia”, nome che compare la prima volta nel XIV secolo, ed ha probabilmente a che fare con le rovine dei palazzi adiacenti.

L’area della necropoli, situata tra i villaggi Palatitsia e Verghina, si estende per più di un chilometro quadrato e comprende più di trecento tumuli, tutti situati verso sud. Il loro diametro può variare da m. 15 ai 20 mentre l’altezza da m. 0,50 a 1,00, ma ve ne possono essere alcuni che superano queste misure in larghezza o in altezza. Le ricerche archeologiche hanno mostrato che il tumulo più antico risale all’Età del ferro ( 1000-700 a.C. ) e quello più recente è del periodo ellenistico. Le tombe macedoni sono in genere formate da camera a volta, facciata architettonica con porta monumentale, corridoio e tumulo. Questo tipo di impostazione strutturale è simile a quella dei tholoi micenei, come anche i corredi funerari che sono stati trovati a Sindos, alla foce del Vardar, ad est di Verghina, conservano in età arcaica il rituale della maschera d’oro. Questi dati, unitamente alle continue esaltazioni e ai riferimenti alle discendenze argive da parte della famiglia reale macedone, ci danno la certezza che la popolazione dorica, dopo aver sostanzialmente accettato gran parte delle strutture e usanze civili di Micene, le abbia mantenute in uso anche in Macedonia.

In corrispondenza del luogo identificato come Palatitsia, a 2 km dal villaggio di Verghina, nel 1855, l’archeologo francese Lèon Heuzey, intraprese i primi scavi verso la parte orientale. Successivamente vennero condotti altri scavi, dando la possibilità di delineare in maniera precisa la pianta del complesso architettonico del palazzo imperiale. Manolis Andronikos, nel 1949, riuscì ad ottenere un incarico per Veria, che comprendeva anche l’area di Verghina. Egli esplorò nel 1952 il “grande tumulo”, un’altura che già dal secolo precedente attirò l’attenzione per il suo carattere artificiale. Si tenne conto dei frammenti di steli funerarie rinvenute in quel punto; queste, insieme all’abbondante cumulo di terra e pietrame, sarebbero state ammassate sulle tombe reali da Antigono Gonata con lo scopo di difenderle in seguito al saccheggio di Aigaì da parte dei Galati al servizio di Pirro avvenuto intorno al 273 a.C. . Gli scavi proseguirono nel resto dell’area cimiteriale fino al 1961. Il 30 agosto del 1977 riprese l’esplorazione del tumulo direzione sud-ovest, dove venne rinvenuta la tomba di Filippo II, vicino ad altre due tombe reali, quella detta “di Persephone” e quella, probabilmente, di Alessandro IV; ma fu la prima a destare maggiore interesse, sia per l’alto valore storico che per la sua conformazione.

La tomba di Filippo II è costituita da due stanze, anticamera e camera principale, entrambi coperte da volte a botte ed alte m. 5.30; nella prima, che misura m. 3.36 x 4.46, quindi rettangolare, vennero deposte le ceneri di Cleopatra, moglie più giovane del sovrano, assassinata subito dopo la sua morte. La seconda stanza, quella riservata a Filippo, è quadrata e risulta di m. 4.46 di lato. Sommando queste misure allo spessore dei tre muri da m. 0.56, e che insieme misurano m.1.68, si ottiene la lunghezza di m. 9.50. Questo vuol dire che la tomba in questione è la più lunga e la più alta tra quelle scoperte finora in Macedonia. La parte esterna delle volte non venne lasciata scoperta, come era solito fare per questo genere di opere in area macedone, ma venne interamente coperta da uno strato di stucco dello spessore di dieci centimetri. L’ingresso, monumentale, è sormontato da un fregio dorico al di sopra del quale si trova, protetto da una cornice in rilievo, una scena di caccia che misura m. 5.56 di larghezza e m. 1.16 di altezza. In questo fregio, un paesaggio montuoso fa da sfondo a cinque scene scandite da alberi di specie diverse; i tronchi senza foglie, i vestiti pesanti ed i cappelli di alcuni cacciatori, sembrano propri di un clima invernale. Davanti al luogo dell’azione vi è un ampio piano di terra e sia il paesaggio che l’ambiente sono perfettamente definiti. Con un cavallo dipinto in bianco è indicato con chiarezza il sovrano, Filippo, che si viene a trovare davanti alla lotta tra uomini e animali, con esplicita funzione di rivolgere lo sguardo verso il lato destro della scena; egli sovrasta un leone e lo sta per colpire a morte. Invece, il giovane erede Alessandro, è inquadrato tra due alberi ed è identificabile dalla corona di alloro. E’ da rilevare il sorprendente studio dei cavalieri, dei cani (ve ne sono rappresentate ben nove razze) e degli alberi, così come gli effetti di volume che costituiscono il culmine di una ricerca classica in uno spazio plastico. Nel primo albero troviamo un elemento che Nikias, autore dell’opera, aveva già adottato nella sua “Allegoria di Nemea”: un piccolo quadro votivo appeso e contornato da nastri a formare un gioco del quadro nel quadro. Accanto è presente un pilastro visto di spigolo, lì situato a rappresentare l’intervento umano nella consacrazione dell’ambiente naturale, quest’ultimo comunque messo in evidenza come primo e fondamentale stadio per la rappresentazione della scena. Dalla disposizione delle figure si può ritenere che l’attenzione di Nikias non fosse volta a definire una narrazione continua rispettosa del susseguirsi cronologico delle azioni, ma piuttosto all’unità visiva della composizione, dove le figure stesse, seppur in taluni casi solo leggermente, si vanno armonicamente a sovrapporre. La costante preoccupazione del pittore testimoniata dalle fonti, era quella di dare il giusto risalto alle figure rispetto al fondo, e doveva riflettere lo studio di un corretto rapporto chiaroscurale tra gli elementi della scena. La luce, diluita e azzurrina, rende evanescenti le montagne sullo sfondo, e si diffonde tra le quinte di roccia; la stessa luce si fa più contrastata e si diffonde verso il primo piano della scena sciogliendosi nel paesaggio senza che se ne possa riconoscere una fonte determinata. Il calcolo meticoloso di un passaggio continuo della luce dal fondo lattescente ai primi piani, condizionò la tecnica di esecuzione dell’affresco, dove l’intonaco fu bagnato ripetutamente in corso d’opera, verosimilmente per ritornare su ciò che era stato già fatto e per graduare più sensibilmente e con maggiore precisione le sfumature, sfumature che vengono sottolineate dalla scelta del colore: il bianco del fondo e di uno dei cavalli, i toni caldi del giallo-arancio, rosso, bruno, viola pallido e porpora per le figure in primo piano, e quelli freddi più bassi, verde ed ombra azzurra, fino agli accenti cupi delle rocce. L’artista non si limita così all’uso dei quattro colori che facevano parte dell’antica tradizione pittorica (azzurro, nero, ocra e rosso). Nikias rinuncia, quindi, allo splendor, il riflesso lampeggiante introdotto in pittura poco tempo prima probabilmente da Euphranor, dove la luce proveniva da un punto fortemente determinato. La tomba venne fatta costruire sicuramente da Alessandro intorno al 336 a.C., anno della morte del padre, ed è probabile che fu egli stesso a scegliere Nikias per l’esecuzione del fregio. Il pittore ateniese si inserì in uno degli ambienti culturali più vivi dell’antichità, in gran parte influenzato da Aristotele, che fu chiamato da Filippo per educare il figlio. Ma quasi certamente fu l’artista ad influenzare in parte il filosofo che, nell’elaborazione del “De Sensu”, parla di pittori che “vogliono rappresentare qualcosa che appare attraverso l’aria, o l’acqua” ; il testo evoca proprio la trasparenza atmosferica, la densità corposa dell’elemento in cui sono immersi gli oggetti.

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