Causa del contratto
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La causa è un elemento essenziale del negozio giuridico e la sua assenza determina nullità dell'atto. La dottrina ha proposto più d'una formula definitoria. Le teorie sulla causa si possono ordinare in due orientamenti: uno soggettivistico ed uno oggettivistico.
[modifica] Le teorie soggettivistiche
L'approccio soggettivistico alla causa è il più risalente, trovando le sue origini già nel Trattato di Pothier. Secondo questa dottrina la causa è la somma degli scopi perseguiti dalle parti (o, se preferite, la causa è data dalle ragioni che muovono le parti a contrarre): se il venditore ha lo scopo di conseguire il prezzo e l'acquirente quello di avere la cosa, la causa della vendita risiederà nei reciproci scopi di avere la cosa ed il prezzo.
Questo modo di argomentare appare soddisfacente finché si considerano i negozi a prestazioni corrispettive, ma si svela inadeguato non appena si cerca d'indagare la causa di altri negozi. Uno dei primi problemi che la dottrina si trovò ad affrontare fu quello della causa della donazione: qual è lo scopo che persegue il donante? Non trovando un interesse che non sia quello - tautologico - di voler arricchire la controparte (cioè, appunto di fargli un dono) pensò di giustificare la donazione in forza dell'animus donandi. La conclusione è, ovviamente, inadeguata, ma sembrò sufficiente ad esaurire ogni dibattito.
Nondimeno, con uno strumento concettuale così difettoso, i problemi non potevano non presentarsi di continuo. La dottrina non tardò ad accorgersi che, al di fuori della tranquillizzante categoria dei contratti corrispettivi, moltissimi negozi erano riconosciuti validi pur tacendo lo scopo perseguito dalla parte. Nacque, così, la categoria dei negozi astratti la quale aveva il compito di accogliere tutti quegli atti validi pur senza l'expressio causae. Nel manuale di diritto privato di A. Trabucchi, in una nota, si indica addirittura la procura quale negozio astratto. Ed infatti, ragionando secondo il modulo ora descritto, la procura è valida senza che il rappresentante debba indicare lo scopo che persegue col conferimento del potere (id est: non svela per quale ragione è stato conferito il potere). Ed allora: i negozi astratti possono definirsi come quei negozi ammessi a tutela pur senza l'indicazione dello scopo perseguito dalla parte. Si noti che uno scopo concreto esisterà pur sempre, siccome gli atti senza un fine appartegono al regno della patologia psichiatrica e non già a quello degli uomini nel pieno possesso dello loro facoltà mentali (affermazione questa da intendere con una certa ironia); solo che questo scopo l'ordinamento non chiede venga indicato nell'atto ai fini della sua validità. È bene, allora, sottolineare che, con questa categoria, si suole indicare quei negozi ove la causa non si richiede sia menzionata nell'atto, ma ciò non vuol anche significare che la parte vi dia vita senza uno scopo concreto. I negozi astratti sono sì mossi da una causa, ma questa rimane taciuta.
Chiaro, a questo punto, che la categoria in disamina è un pò come un contenitore in cui porre tutto ciò che non riusciamo a classificare. Ecco per quale ragione, in ogni manuale, si trovano esempi differenti di negozi astratti.
Nel quarto volume del Trattato di Massimo Bianca (dedicato all'obbligazione) si afferma, ad esempio, che l'espromissione è un negozio parzialmente astratto in quanto valida pur senza l'integrale indicazione dello scopo perseguito dall'espromittente: egli indica nell'intento di volersi assumere il rapporto di valuta la causa del negozio medesimo, ma, attesa la validità dell'espromissione pur in assenza del riferimento alla provvista, essa è valida senza l'indicazione di un ulteriore scopo che dia conto della ragione dello spostamento di ricchezza (assumersi un debito è un modo di spostare un valore economico): da qui la parziale astrattezza causale. Qualche autore ha affermato (L.Barassi, in Enc. giuridica italiana, 1900) che fors'anche persino la donazione dovrebbe stimarsi quale negozio astratto, considerato che l'atto è fondato sul solo intento di dare, in assenza di ogni scopo ulteriore.
Le tesi ora esposte impongono anche di distinguere la causa dai motivi, in quanto, se la causa è lo scopo delle parti, essa è ontologicamente eguale ai motivi, da questa distinguendosi solo quantitativamente: vale a dire che siffatta causa sarebbe data da motivi nobili. La dottrina propose vari criteri per operare la distinzione. Secondo alcuni, la causa sarebbe data da quei motivi che non mutano al mutare dell'identità del contraente; secondo altri, la causa andrebbe colta nell'ultimo motivo (ultimo in senso logico) informatore la volontà.
[modifica] Le tesi oggettivistiche
Molto più rigoroso è l'approccio della dottrina oggettivistica. Possono ricondursi a questo orientamento tutti gli autori che impiegano il termine "funzione" (salvo, però G.B. Ferri il quale, affermando che la causa è la "funzione economico-individuale", travolge, di fatto, l'approccio obiettivistico cui pure dichiara di aderire). Secondo questa visione della causa, l'indagine deve compiersi assumendo una posizione di terzietà: quella, appunto, dell'ordinamento. La causa diviene allora per alcuni la funzione (obiettiva) economico-sociale del negozio (E. Betti); per altri la funzione (sempre obiettiva) giuridica dell'atto (S. Pugliatti). Questa tesi è da preferire. Per funzione giuridica deve intendersi la "sintesi degli effetti giuridici essenziali" (da altri denominata "minima unità effettuale": P. Perlingieri). Appare chiaro, a questo punto, che se la causa è la "sintesi degli effetti giuridici essenziali" non esiste nessun negozio degno di questo nome che non abbia almeno l'attitudine a produrre degli effetti. E, se possiede tale attitudine, è sempre possibile offrire una descrizione sintetica degli effetti medesimi; e, se esiste sempre tale sintesi degli effetti essenziali, allora una causa, piena, appagante per l'interprete, esiste di necessità. Ergo: per la tesi ora descritta la categoria dei negozi astratti non ha nessuno spazio operativo. In altri termini: non esistono negozi astratti.
Appare, inoltre, confutata la tesi di chi pretende di distinguere tra causa e tipo. Il tipo, secondo gli autori citati, non è un elemento del contratto ma solo il nome della descrizione normativa di un negozio; la causa, a sua volta, in quanto espressione sul piano dell'ordinamento dello scopo pratico del concreto negozio, non può mai essere in contraddizione con lo scopo medesimo. Ne consegue che non ha alcun senso rivendicare la necessità di cercare la causa "in concreto" in quanto o la causa è propria di ogni singolo negozio oppure non è. In realtà, le ipotesi ove negozi apparentemente conformi a schemi tipici sembrano perseguire scopi differenti (e spesso illeciti) meglio si spiegano osservando che, per la modificazione dello scopo pratico, sono stati alterati anche gli effetti essenziali espressi da quello scopo, sì che il negozio apparentemente tipico è stato irrimediabilmente trasformato in un altro negozio, sovente atipico, e per il quale non v'è alcuna difficoltà a riconoscere l'illiceità della causa.
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