Utente:Moloch981/Sandbox3
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Rienzi
[modifica] Curiosità
Un divertente e autoironico resoconto della prima di Dresda dell'opera è stato redatto dallo stesso Wagner, in alcune pagine della sua autobiografia, Mein Leben:
Lo stato d'animo con cui andai incontro alla prima esecuzione del mio lavoro non posso paragonarlo con nulla ch'io abbia prima o poi esperimentato in questo genere. [...] Il mattino del 20 ottobre 1842, benché mi fossi proposto di non andar più a seccare nessuno dei miei cantanti, incontrai tuttavia l'interprete, alquanto monotono, ma perfettamente decoroso, d'una delle minori parti di basso della mia opera, l'impettito e filisteo signor Risse. Era una giornata di sole un po' fredda, ma splendidamente serena, dopo un lungo periodo di maltempo, quando il degno uomo mi rimase come inchiodato davanti a salutarmi, e non metteva fuori una parola, ma solo mi guardava in faccia, per accertarsi, come mi spiegò finalmente con singolare emozione, che aspetto avesse un uomo nel giorno in cui andava incontro a un così brillante destino. Io sorrisi e pensai che, insomma, qualcosa di buono in me doveva pur esserci e promisi a Risse di venire il giorno dopo con lui alla Città di Amburgo a vuotare un bicchiere di quel vino squisito ch'egli mi decantava tartagliando.
Nelle analoghe occasioni che si presentarono in seguito durante la mia vita non ho mai più provato nulla di paragonabile alle sensazioni con cui assistei alla prima rappresentazione del Rienzi. L'affanno, anche troppo giustificato, per l'esito del lavoro mi si è sempre imposto con tanta gravità in tutte le altre prime della mia carriera, che non sono mai riuscito a provare qualche godimento, o anche solo ad osservare le reazioni del pubblico. Ciò che provai molti anni dopo, in circostanze eccezionali, alla prova generale del Tristano e Isotta era di natura talmente diversa dalle impressioni risentite alla prima del Rienzi, che anch'esso, per altri motivi, non può assolutamente essere messo in paragone. — Quanto al successo, era sicuro in anticipo. Che il pubblico si dichiarasse tanto apertamente in mio favore come realmente avvenne, fu un caso straordinario, poiché il pubblico di città come Dresda non si trova mai in grado di giudicare validamente un'opera di qualche importanza alla sua prima esecuzione, e perciò verso i lavori di autori sconosciuti si mantenne sempre in uno stato di irresoluta freddezza. Ma in questo caso erano stati forzati ad un'eccezione, dato che il numeroso personale del teatro e dell'orchestra aveva già da tempo diffuso in città voci così favorevoli alla mia opera, che l'intera popolazione attendeva con tensione febbrile il promesso miracolo. Presi posto con Minna [la prima moglie di Wagner], mia sorella Klara e la famiglia Heine, in una barcaccia, e se voglio richiamarmi il mio stato durante quella sera, non posso rammentarmelo altrimenti che provvisto di tutte le caratteristiche d'un sogno. Vera e propria gioia o emozione non ne provavo; alla mia opera mi sentivo totalmente estraneo; ma la fitta folla di spettatori mi dava un'autentica angoscia, tanto che non osavo posare lo sguardo sulla massa del pubblico e ne sentivo la vicinanza proprio come un fenomeno naturale — qualcosa come un incessante temporale — contro il quale cercavo riparo nell'angolo più nascosto del palco. Non mi resi mai conto dell'applauso; e quando anch'io fui evocato rumorosamente alla fine d'ogni atto, toccò ogni volta all'amico Heine di spiegarmelo energicamente e sbattermi sulla ribalta. Invece cresceva in me l'affanno per una preoccupazione capitale; notavo infatti che già alla fine del second'atto era così tardi come se si fosse eseguito, poniamo, il Freischütz tutto intero: ora terminava il terz'atto, ed erano innegabilmente le dieci, cosicché lo spettacolo era già durato la bellezza di quattro ore. Caddi allora nella più completa disperazione; che anche dopo quest'atto fossi stato vivamente chiamato alla ribalta, lo ritenni per un cortese congedo del pubblico, che dichiarava di averne assolutamente abbastanza per questa sera ed ora avrebbe abbandonato in massa il teatro. Poiché rimanevano ancora due atti, io mi diedi per certo che non saremmo arrivati alla fine e dissi il mea culpa per non aver mostrato a tempo debito maggior perspicacia riguardo ai tagli richiestimi: per questo mi vedevo ora esposto al caso inaudito di non riuscire a far condurre a termine un'opera, che in sé e per sé piaceva straordinariamente, unicamente a causa della sua ridicola lunghezza. Che i cantanti rimanessero ben disposti, e specialmente Tichatschek [il tenore che interpretava la parte di Rienzi] si facesse tanto più vivace e appassionato quanto più lo spettacolo andava innanzi, questo lo ritenevo un loro affettuoso stratagemma per nascondermi l'inevitabile scandalo. Lo stupore di vedere ancora sempre il pubblico al gran completo, anche nell'ultimo atto — verso mezzanotte —, m'indusse in una grande perplessità; non credevo né ai miei occhi né alle mie orecchie, e mi pareva che fosse una visione tutto ciò che s'era svolto in quella sera. Era mezzanotte passata quando dovetti seguire per l'ultima volta i miei fidi cantori incontro alle tonanti acclamazioni del pubblico.
Ciò che confermò il mio pessimismo circa le conseguenze dell'inaudita lunghezza dell'opera fu l'umore dei miei stessi parenti, coi quali m'incontrai ancora brevemente dopo lo spettacolo. La famiglia di Friedrich Brockhaus [cognato di Wagner] era venuta da Lipsia con alcuni conoscenti e ci avevano invitati al loro albergo con l'intenzione di festeggiare il successo per mezzo d'una lieta cenetta notturna e brindare alle mie fortune. Ma là trovammo già chiuse cucina e cantina e tutti quanti erano talmente sfiniti, ch'io non sentii altro se non esclamazioni sul fatto inaudito d'un'opera che durava dalle sei di sera fino a mezzanotte. Non si fecero altre osservazioni, e ci separammo completamente intontiti dal sonno. — Il giorno dopo per tempo, alle otto, mi recai nell'ufficio dei copisti, per disporre le abbreviazioni che ora mi parevano indispensabili nelle varie parti per l'eventualità che si venisse a una seconda esecuzione. Se nell'estate scorsa avevo disputato ogni battuta al buon direttore del coro Fischer, dimostrandogliene la necessità imprescindibile, ora mi tartassava una cieca furia cancellatrice. Nulla mi sembrava più necessario nella mia partitura; ciò che ilpubblico s'era dovuto subire la sera prima non mi pareva ora che un deserto di assurdità sonore, che tutte si potevano omettere, fino all'ultima, senza turbare minimamente l'insieme o renderlo incomprensibile, mentre a me non importava più nient'altro, se non di ricondurre nell'ambito di limiti tollerabili il mio ammasso di mostruosità. Ordinando ai copisti i tagli più spregiudicati, speravo di poter prevenire la catastrofe, poiché m'immaginavo che il direttore generale, d'accordo col teatro e con la cittadinanza, mi avrebbe significato in quel giorno stesso che una rappresentazione come quella del mio Ultimo dei tribuni si poteva ben intraprendere una volta, proprio per la curiosità della cosa, ma non c'era da pensar di ripeterla. [...] Soltanto nel pomeriggio ritornai dai copisti per assicurarmi che tutto fosse stato eseguito secondo i miei ordini; ed ecco appresi che c'era passato anche Tichatschek, s'era fatto mostrare i tagli da me ordinati e ne aveva proibita l'esecuzione. Anche il maestro del coro Fischer voleva parlarmi a questo proposito; i lavori erano sospesi; una gran confusione era in vista; io non capivo cosa volesse dire tutto questo, e temevo il peggio se si fosse ancora ritardato quel penoso lavoro. Alla sera, finalmente, feci visita a Tichatschek in teatro; senza lasciargli aprir bocca, gli chiesi con furia perché avesse interrotto il lavoro dei copisti. Con voce mezzo soffocata, mi rispose breve e dispettoso: — Non mi lascio cancellar niente... è troppo divino —. Rimasi interdetto, e mi sentii di colpo come incantato; non c'era preoccupazione che tenesse, di fronte a una testimonianza così eccezionale del mio successo.
(Richard Wagner, La mia vita, trad. di Massimo Mila, Torino 1982, pp. 170-173)