Simposio e pratiche simposiali
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Presso i greci e i romani, la parte del banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, cantavano canti conviviali (skólia), e passavano il tempo in trattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni ecc.). Dal banchetto conviviale greco, divenuto palestra di sapienza, nacque un genere letterario che ebbe cultori specialmente fra i socratici (Platone e Senofonte su tutti). La successiva letteratura conviviale prese a modello quei primi esempi e trasformò il genere in vero e proprio dialogo; esso fu usato in età ellenistica per opere di erudizione (Plutarco, Ateneo, Macrobio), mentre ebbe carattere parodistico e caricaturale con Luciano e con Petronio.
[modifica] Uomini a banchetto
Il simposio era il convegno dei cittadini maschi adulti al banchetto e agli intrattenimenti che lo animavano, e cioè la conversazione arguta e colta, la musica del flauto, la compagnia di bei giovani e ragazze compiacenti, i giochi e gli spettacoli. La baldoria che ne seguiva era un'importante componente nella vita della polis greca. Qualcuno ha definito la polis come un club per soli uomini e, se in questa definizione c'è del vero, il simposio ne era la dimostrazione. Il banchetto si teneva in un'ala separata della casa, nella quale non era consentito l'accesso alle donne sposate.
Gli invitati spesso giungevano portando con sé un paniere che conteneva parte delle vivande, e venivano fatti accomodare su letti addossati alle pareti delle stanze. Davanti ai letti vi erano bassi tavolini apparecchiati con vino, carne e altre pietanze. Vi erano giovani donne, appositamente convocate, che suonavano il flauto e danzavano: le etere. Giovani coppieri mescolavano il vino all'acqua entro grandi crateri, spesso all' esterno delle stanze del simposio, e versavano il liquido entro speciali brocche da vino, le oinochoai, e da queste in tazze per bere: l'elegante e prestigiosa kylix, lo skyphos, la kotyle, e più raramente il kantharos, la tazza dagli alti manici spesso usata nei rituali di Dioniso. Oltre a bere, i convitati si dedicavano al gioco del kottabos; questo consisteva nello scagliare le ultime gocce di vino rimaste nella tazza contro un bersaglio di bronzo che reggeva dei piattelli in equilibrio precario: quando la goccia andava a segno, i piattelli cadevano gli uni sugli altri con un sonoro clangore.
Per i Greci il vino il dono di Dioniso, divinità giunta da remote terre asiatiche, ed era l’essenza stessa della civiltà; l’ebbrezza che esso causava era vista come una compensazione degli affanni della vita, a patto di farne un uso giudizioso. I Greci, infatti, non bevevano mai vino puro e avevano piena coscienza dei rischi che comportava un suo smodato. Sul retro di molte kylikes di età arcaica compaiono spesso dei grandi occhi spalancati; è stato dimostrato che, sollevando la tazza alle labbra e inclinandola per bere, gli invitati venivano a indossare quasi una maschera che indubbiamente ricorda il volto della Gorgone, una delle più selvagge e feroci creature del mito.
