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Vittorio Emanuele Giuntella (Roma, 1913-1996), dopo l'8 settembre 1943, tenente degli Alpini, fu uno degli ufficiali italiani che rifiutarono di servire i nazifascisti e fu internato in lager della Polonia e della Germania (Sanboster, Bergen-Belsen, Deblin).
Ha speso tutto il resto della sua esistenza, oltre che nel lavoro, nella testimonianza della pagina nera della storia dell' umanità, da lui vissuta in prima persona. Fondamentali le riflessioni sulle fedi di fronte al totalitarismo.
Storico, docente di storia dell'eta' dell'illuminismo all'Universita' di Roma, costantemente impegnato per i diritti umani, e' stato tra i piu' autorevoli rappresentanti dell'Opera Nomadi.
I suoi studi si incentrano sul '700 e sulle vicende della seconda guerra mondiale, della deportazione e della Resistenza; fondamentale e' il suo volume Il nazismo e i Lager, Studium, Roma 1979.
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«Gli ebrei erano molto pochi; a Lipsia, nel settembre del 1943, alla nostra tradotta di carri bestiame si era affiancata un’altra tradotta, piena di donne e bambini. Noi eravamo militari e non ci sembrava strano esser fatti prigionieri dai tedeschi; ma rimanemmo molto scossi a vedere donne e bambini che non potevano che essere ebrei. Non riuscimmo a parlare, cosa che invece accadde poi nel secondo campo a Deblin Irena, dove aldilà del nostro reticolato c’era un muro, aldilà del quale c’erano delle ebree che si dicevano superstiti (per il momento) al massacro del ghetto di Varsavia. Parlando in francese, cercavamo di tranquillizzarle, dicendo che sarebbe finita la guerra, anche perché in Italia non avevamo saputo nulla dei lager nazisti e non sapevamo nulla della persecuzione degli ebrei (e questo era molto grave); e queste ci raccontavano che cosa era successo nel ghetto di Varsavia.
Quando fummo trasferiti in un altro lager, ormai i sovietici erano assai vicini; due o tre mesi dopo ci trasferirono, e mentre eravamo alla stazione di Varsavia sentimmo delle esplosioni molto forti; i polacchi - che sono terribilmente antisemiti - venivano a portare qualcosa da mangiare, e i tedeschi sparavano. La nostra salvezza negli ultimi giorni furono alcuni ufficiali francesi, che erano stati evacuati con noi; con gli italiani, infatti, avrebbero potuto fare quello che volevano (ed infatti arrivò l’ordine di farci fuori tutti quanti, come sapemmo dopo). Infine arrivammo a Bergen Belsen, dove due mesi prima era morta Anna Frank e dove si continuava a morire; incontrammo un piccolo gruppo di ebrei di Rodi, che si consideravano cittadini italiani. ...»
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