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Battaglia di Adua - Wikipedia

Battaglia di Adua

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La battaglia di Adua, che pose termine alle operazioni militari della campagna d'Africa Orientale, ebbe luogo il primo marzo 1896 tra le forze italiane, comandate dal tenente generale Oreste Baratieri, e l'esercito abissino del negus Menelik II. Gli italiani subirono una pesante sconfitta, che arrestò per molti anni le loro ambizioni coloniali sul corno d'Africa.

Indice

[modifica] Antefatti

Per gli antefatti politici e militari, si veda la voce campagna d'Africa Orientale

[modifica] Svolgimento della battaglia

Il generale Oreste Baratieri disponeva in totale di 36.000 uomini, tra italiani ed Ascari. Una metà la lasciò a presidio di Massaua, Asmara e delle altre piazzeforti della Colonia Eritrea, di cui era governatore; organizzò i restanti 18.000 in un corpo di operazione, strutturato su 4 brigate, che comandò personalmente nella marcia verso l'interno.

Le 4 brigate, per un totale di 17.700 uomini, potevano contare su 56 pezzi d’artiglieria. Una brigata sotto il comando del gen. Matteo Francesco Albertone era composta da ufficiali italiani e da truppe di ascari (fanteria indigena, dal termine arabo ˁaskar, “soldato”) reclutati in Eritrea. Le rimanenti 3 brigate erano composte da effettivi italiani sotto il comando dei generali di brigata Vittorio Dabormida, Giuseppe Ellena e Giuseppe Arimondi. Mentre queste contavano su truppe d’élite - bersaglieri, alpini e Cacciatori - un’ampia parte dei soldati era composta da coscritti malamente addestrati e senza alcuna esperienza, da poco trasformati da reggimenti metropolitani in battaglioni destinati al servizio in terra africana.

Come afferma Chris Proutky:

«Costoro [gli Italiani] avevano carte geografiche inadeguate, armi antiquate, scarsi e inefficienti strumentazioni per le comunicazioni e scadenti scarponi inadatti per il terreno roccioso. (I nuovi fucili Remington non erano stati assegnati perché Baratieri, costretto ad operare in regime di stretta economia di bilancio, volle esaurire le vecchie cartucce che non erano adatte ai Remington). Il morale era terribilmente basso perché i veterani erano malati i nuovi arrivati troppo inesperti per coltivare un qualche “spirito di corpo”. Inoltre vi era una penuria di muli e di selle».

Le stime per le forze etiopiche al commando di Menelik sono di 80.000 uomini come minimo e 150.000 come massimo: cinque o sei volte quindi le forze italiane. Le forze erano divise fra l’imperatore Menelik, l’imperatrice Taytu, Ras Wale, Ras Mengesha Atikem, Ras Mengesha Yohannes, Ras Alula Engida, Ras Mikael di Wollo, Ras Makonnen, Fitawrari Gebeyyehu e il Negus Tekle Haymanot di Gojjam. Inoltre gli eserciti etiopici erano accompagnati da un numero pari di contadini che fornivano le armi, secondo la secolare tradizione etiopica. Gran parte di questo esercito era composto da fucilieri, una significativa percentuale dei quali nella riserva di Menelik; tuttavia l’esercito era composto anche da un ampio numero di cavalieri e da lancieri senza armi da fuoco.

La notte del 29 febbraio e la prima mattinata del 1 marzo, tre brigate italiane avanzarono separatamente verso Adua lungo le strette piste di montagna, mentre la quarta brigata rimase nei suoi accampamenti. David Levering Lewis afferma che il piano della battaglia italiano

«Prevedeva che tre colonne marciassero in formazione parallela verso la cima di tre montagne - Dabormida al comando della destra, Albertone alla sinistra e Arimondi al centro – con una forza di riserva al comando di Ellena che seguiva Arimondi. Il fuoco incrociato d’appoggio di ogni colonna avrebbe dovuto falciare il nemico.La brigata di Albertone avrebbe dato il passo alle altre. Essa era in posizione sulla sommità chiamata Kidane Meret, cosa che avrebbe fornito agli italiani la possibilità di dominare il terreno in cui si sarebbero scontrati con gli etiopici.

Tuttavia le tre brigate italiane erano giunte separatamente alla fine della loro marcia notturna e si erano sparpagliate dopo l’attraversamento di numerosi chilometri di terreno molto accidentato. Le loro mappe lacunose indussero il gen. Albertone a scambiare per errore una montagna per Kidane Meret e quando un esploratore gli rivelò il suo errore, Albertone avanzò direttamente contro la posizione tenuta da Ras Alula. Mentre il gen. Barattieri ne era inconsapevole, l’imperatore Menelik sapeva che le truppe del suo nemico avevano esaurito la capacità dei contadini del luogo di aiutarle e aveva programmato di irrompere nell’accampamento italiano il giorno seguente (2 marzo). L’imperatore s’era svegliato presto per le sue preghiere ed invocare l’ausilio divino quando spie di Ras Alula, il suo principale consigliere militare, gli portò le notizie circa l’avanzata degli Italiani. L’imperatore convocò gli eserciti separate dei suoi nobili e, con l’imperatrice Taytu che lo seguiva, ordinò alle sue forze di avanzare a loro volta. Il Negus Tekle Haymanot comandava l’ala destra, Ras Alula la sinistra e I Ras Makonnen e Mengesha il centro, con Ras Mikael alla testa della cavalleria d’élite oromo, mentre l’imperatore e la moglie rimasero con la riserva. Le forze etiopiche si posizionarono sulle colline che guardavano la vallata di Adua, in perfetta posizione per accogliere gli italiani che erano esposti e vulnerabili al fuoco incrociato dei nemici.

La brigata di ascari di Albertone fu la prima a incontrare l’assalto etiopico alle 6,00 del mattino, presso Kidane Meret, dove gli Etiopici erano riusciti a montare la loro artiglieria. I suoi ascari, ampiamente superiori per numero, tennero le loro posizioni per due ore, finché Albertone non fu fatto prigioniero e, sotto la pressione etiopica, quanti sopravvissero cercarono rifugio nelle fila della brigata di Arimondi. Essa fu costretta ad arretrare sotto i colpi degli etiopici che ripetutamente caricarono la posizione italiana per tre ore con una forza gradualmente evanescente fintanto che Menelik lanciò nella mischia la sua riserva di 25.000 Shewani e sommerse i difensori italiani. Due compagnie di bersaglieri che erano arrivate in quel medesimo momento non ebbero la possibilità di portare alcun aiuto e furono annichilite.

La brigata italiana del gen. Dabormida s’era messa in movimento per sostenere Albertone ma non fu in grado di raggiungerlo in tempo. Tagliato fuori dal restante dell’esercito italiano, Dabormida cominciò un arretramento, pur combattendo, verso le retrovie italiane. Tuttavia Dabormida diresse la sua forza inavvertitamente - per colpa di mappe grossolanamente inesatte e l'inaffidabilità, se non il tradimento, delle sue guide - in una stretta vallata in cui la cavalleria Oromo massacrò la sua brigata al grido di «Ebalgume! Ebalgume!» ("Falcia! Falcia!"). I resti umani del gen. Dabormida non furono mai ritrovati, sebbene suo fratello avesse Saputo da un’anziana donna che viveva nell’area che ella aveva offerto acqua a un ufficiale italiano ferito a morte, "un capo, un uomo grosso con occhiali e orologio e stellette dorate". Le rimanenti due brigate, sotto Baratieri, furono aggirate e fatte a pezzi sui declivi del Monte Belah. A mezzogiorno, I sopravvissuti dell’esercito italiano erano in piena ritirata e la battaglia era finita.

[modifica] Conseguenze

Gli italiani ebbero circa 7.000 morti, 1.500 feriti e 3.000 prigionieri nella battaglia e di conseguenza arretrarono in Eritrea, mentre le perdite etiopiche furono stimate a circa 4.000-5.000 uomini e 8.000 feriti. Nel loro rifugiarsi in Eritrea, gli italiani abbandonarono tutta la loro artiglieria e 11.000 fucili, come pure la maggior parte dei loro trasporti. Come Paul B. Henze annota: "L’esercito di Baratieri era stato completamente annichilito mentre quello di Menelik era intatto come forza combattente e guadagnò migliaia di fucili e la numerosa attrezzatura che gli italiani in fuga avevano abbandonato". I 3.000 prigionieri italiani, incluso il gen. Albertone, sembra siano stati trattati bene per quanto era compatibile con il momento di gravi difficoltà, malgrado 200 circa di essi morissero per le loro ferite nel corso della prigionia. Tuttavia 800 ascari catturati, considerati traditori dagli etiopici, ebbero amputate la mano destra e il piede sinistro. Non v’è alcuna seria prova che alcuni italiani fossero evirati e le voci sono forse da ricollegare alla confusione generata dall’atroce trattamento subito dagli ascari prigionieri.

Baratieri fu deposto dal comando e più tardi imputato di aver preparato un piano d’attacco "ingiustificabile" e per aver abbandonato le sue truppe sul terreno. Fu assolto da queste accuse ma fu descritto dai giudici della corte marziale come "del tutto inadatto" per il suo commando. Il governo Crispi cadde e fu sostituito da una nuova amministrazione che adottò una politica che scansò ulteriore avventure coloniali.

Un interrogativo irrisolto è quello del perché l’imperatore Menelik abbia mancato di sfruttare la sua vittoria e abbia consentito agli italiani in rotta di rifugiarsi in Eritrea. Varie risposte sono state fornite. Al momento, Menelik denunciò una scarsità di cavalleria per infliggere il colpo di grazia ai soldati italiani in fuga ma Chris Proutky pensa piuttosto a una "una carenza di nerbo da parte di Menelik" Lewis crede che "è assai probabile che il totale annichilimento delle forze di Baratieri e una conquista dell’Eritrea avrebbe comportato da parte italiana la necessità di trasformare una guerra coloniale in una crociata nazionale" con tutto ciò che di negativo questa decisione avrebbe potuto comportare per l’Etiopia.

Come esito diretto della battaglia, l’Italia firmò il Trattato di Addis Abeba, riconoscendo l’Etiopia come Stato indipendente. L’umiliazione gravò sull’Italia per almeno 40 anni, fino al 1935, quando durante la Seconda Guerra Italo-Abissina, l’Italia avviò la rapida conquista dell’Etiopia.

[modifica] Significato

«Il confronto fra Italia ed Etiopia ad Adua fu un momento cruciale della storia etiopica» scrive Henze, che paragona questa vittoria alla vittoria navale giapponese sulla Russia a Tsushima. «Malgrado ciò appaia chiaro solo a pochi storici del tempo, queste sconfitte furono l’inizio del declino dell’Europa come centro motore della politica mondiale».

Su un tono similare, lo storico etiopico Bahru Zewde osserva che «pochi eventi nel periodo moderno hanno portato l’Etiopia all’attenzione del mondo come la vittoria di Adua». Tuttavia Bahru Zewde pone la sua enfasi su altri elementi di quel trionfo: «La dimensione razziale fu quella che conferì ad Adua un significato particolare. Fu una vittoria di neri contro i bianchi. Adua anticipò così di almeno una decade ciò che rappresentò per I bianchi la vittoria giapponese sulla Russia nel 1905».

Tale disfatta di una potenza coloniale e il riconoscimento che ne seguì della sovranità africana divenne un punto di riferimento per i successivi nazionalisti africani nel corso delle loro lotte per la decolonizzazione.

Per molti italiani la data 1/3/1896 ha avuto a quell'epoca un effetto analogo a quello dell'attuale 11 settembre. La giovane nazione europea aveva già subito l'onta di Lissa nel 1866. Crispi che tanto aveva spinto la nazione verso questa impresa coloniale si dimise da capo del governo.

[modifica] Voci correlate

[modifica] Collegamenti esterni

La battaglia di Adua su Warfare - arte militare, storia e cultura strategica

[modifica] Bibliografia

  • Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 1, Roma-Bari 1976 (=Milano 1992), ISBN 88-04-46946-3
  • G.E.H. Berkley, The Campaign of Adowa and the rise of Menelik, Londra, Constable, 1901.

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