Biblioteca Italiana
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La Biblioteca Italiana fu un periodico letterario voluto e finanziato dai primi governanti austriaci della Lombardia, Bellegarde e Saurau, dopo la soppressione del Regno d'Italia del Beauharnais. Esso rappresentò la prima sede della famosa polemica classici-romantici e causò la nascita de Il Conciliatore. Fallì, quindi, il suo scopo di diffondere fra le classi colte la simpatia per l'Austria e venne soppresso.
[modifica] Contesto
L’8 febbraio 1814 Eugenio, Viceré del Regno d'Italia sconfisse il feldmaresciallo austriaco Bellegarde alla battaglia del Mincio e lo costrinse, il 16 aprile, alla Convenzione di Schiarino-Rizzino, che stabiliva la linea del cessate il fuoco fuori dalla Lombardia. Covocò, quindi, per il successivo 17 aprile a Milano il Senato del Regno d'Italia per ottenere la nomina a Re.
Al Senato, tuttavia, il tentativo venne tradito dalla meglio nobiltà milanese (Carlo Verri, Confalonieri, il generale Pino, Manzoni, Porro Lambertenghi fra gli altri). Il 20 aprile la folla aizzata dai traditori invadeva il Senato. Poi passava a San Fedele e massacrava il ministro Prina, che si era opposto alla congiura insieme al Melzi d'Eril.
Il 21 aprile, addirittura, il Consiglio Comunale di Milano, riunitosi d'urgenza, nominò un Comitato di Reggenza Provvisoria, composta da sette membri: il fior fiore dei cospiratori. Come primo atto, il Comitato inviò delegati al Bellegarde perché mandasse truppe ad occupare la città. Il 22 aprile 1814 i Collegi elettorali, convocati dal podestà Durini, abolirono il Senato.
Il progetto di Eugenio era compromesso. L’indipendenza del Regno d'Italia finita: il 23 aprile Eugenio firmò a Mantova la capitolazione. Con un esercito al completo e senza essere stato sconfitto dagli Austriaci.
Il 7 aprile 1815 veniva annunciata la costituzione degli “stati austriaci in Italia” in un nuovo Regno Lombardo-Veneto, di cui il Bellegarde venne nominato luogotenente del Viceré (ancora da nominare).
[modifica] La politica culturale nel Lombardo-Veneto
La Milano degli anni di Bellegarde era una città importante e vitale. Il 10 agosto 1814 vi giunse dalla Francia Stendhal (dopo brevi visite nel 1800, 1811 e 1813): vi avrebbe soggiornato (con frequenti interruzioni), fino al 1821. Il 18 agosto veniva rappresentata con grande successo “Francesca da Rimini”, tragedia del Pellico.
Proprio a Milano erano attivi praticamente tutti i letterati del canone italiano di quegli anni (Foscolo e Grossi, Monti e Giordani, Porta, Scalvini, Romagnosi) ed era pronta un’altra ricca nidiata (Manzoni, Borsieri, Breme, Pellico, Berchet). Tale monopolio meneghino di tutti i talenti nazionali era stato permesso dalla elezione della città a capitale del Regno d'Italia. E, infatti, non si ripeté mai più.
Ovvio che gli Austriaci ne fossero informati: il Bellegarde non poteva esimersi dal tentare una qualche politica culturale. Cominciò tradizionalmente, ripristinando, il 1 agosto 1814 la Compagnia di Gesù. Più tardi (1 marzo 1816) impose l’austriaco conte di Gaisruck ad arcivescovo di Milano.
Ma non poteva certo bastare. Il governo invasore, faute de legitimité, doveva almeno tentare di guadagnare alla propria causa quegli scrittori che più si erano mostrati avversi al dominio francese. Meglio, poi, se si fossero lasciati convincere delle “paterne intenzioni” dei nuovi signori tedeschi. In ogni caso si sarebbe potuto cercare di imbrigliarli in un sistema di cultura cortigiana, retta dalle sovvenzioni statali.
Cultura cortigiana, appunto, non un sintomo di apertura “liberale”. Anche se, finché gli riuscì, il feldmaresciallo giocò sull’equivoco. Come dimostrato dalla pubblicazione, in quei primi tempi, di una raccolta (anonima ma dedicata al Bellegarde) intitolata “Serie di Vite e Ritratti de' famosi personaggi degli ultimi tempi”, di tono piuttosto liberale (ad esempio si parla molto del Bolivar).
In effetti (come ricorderà più tardi il Foscolo) sin da prima del tramonto di Napoleone , l’Austria aveva preso a largheggiare nella promessa di “liberi istituti”, cercando di “attrarre a sé l'opinione pubblica italiana col miraggio di quella stessa libertà che l'Napoleone aveva finito col soffocare in Italia”. Ma né Bellegarde né il Saurau né l’Imperatore avevano alcuna intenzione di mantenerle.
[modifica] Il progetto di un periodico letterario governativo
Bisogna riconoscere che il feldmaresciallo fece un certo sforzo: trattò Foscolo con grande cortesia e gli propose l'idea di fondare e dirigere un periodico, che, naturalmente, avrebbe dovuto diffondere fra le classi colte la simpatia per l'Austria. Foscolo accettò di scrivere il disegno e il programma del periodico, che venne redatto e, perfino, approvato dal Saurau. Nel mentre sopraggiunse l’obbligo, per tutti gli ufficiali dell’esercito del Regno d'Italia, di giurare fedeltà all'Austria e uno dei più brillanti intellettuali italiani scelse l’esilio.
Si trattò di un bello smacco, ma Bellegarde non demorse e fu più fortunato al secondo tentativo: si rivolse al Monti che accettò solo di fungere da ‘nominale coadiutore’ dell’Acerbi, il quale accettò, infine, la edizione del desiderato periodico mensile, battezzato: "Biblioteca Italiana".
[modifica] Completa dipendenza dalle casse statali
Bellegarde e Saurau presero una ulteriore precauzione, garantendosi che la vita del periodico dipendesse dalle sovvenzioni statali: alla nascita, infatti, invitò prefetti (imperial regi delegati) e commissari vari a sottoscrivere un abbonamento, ciò che essi fecero in 800. Ciò permise all’Acerbi di pubblicare copie per lo stabiliante numero di 1600. Ciò mentre nessuno degli altri giornali pubblicati in Italia (a Milano lo Spettatore, I Dialoghi della Morte, due giornali medici, un giornale medico a Padova, due giornali a Firenze, due a Napoli ed uno ”da qualche altra parte”) vendeva più di 400 copie.
[modifica] La censura
Una vivace cronaca di quei giorni venne riferita dallo Hobhouse (a Milano con Lord Byron) che ebbe lunghi colloqui con l’Acerbi. Non si poteva parlare, vviamente, di politica, né di fisica “se riferita a materie religiose” (quindi erano vietati riferimenti al sistema galileiano, erano bandite le commedie (in quanto potessero riferirsi alla vita dei potenti, o direttamente del potere). Era bandita l’indagine storica, se non favorevole al governo occupante: proibiti, quindi, Gibbon e Hume (ma, anche ed ovviamente, Voltaire e Locke.
Di letteratura occorreva scegliere fior da fiore: Alfieri era proibito, un giovanissimo Pellico si vide censurare molti passaggi della ‘Francesca da Rimini’, ma lo stesso Monti, prima di pubblicare una edizione di Virgilio e Cornelio Nepote dovette chiedere il consenso del Concilio Aulico di Vienna. Quando il conte Perticari, cognato del Monti, gli inviò la sua ‘Canzone alla Morte of Pandolfo Collenucio’, esaltato come vittima della tirannide, Acerbi dovette prima subire la censura di un consigliere di stato, che ne cassò molti passaggi, salvo vederselo approvare dal Saurau. Quest’ultimo era un fior di reazionario e l’autorizzazione venne vissuta, riferisce l’Hobhouse, come “un gesto di grande liberalità”.
Restava era la letteratura ‘non impegnata’, anche se l’Acerbi lamentava che “come editore della Biblioteca, aveva grande difficoltà nella scelta degli articoli: obbligato a scegliere il meglio del brutto”. Ciò nonostante che l’Acerbi fosse il primo editore di giornale a pagare gli articoli pubblicati (“40 franchi alla pagina”, riferisce l’Hobhouse).
[modifica] Breve vita del periodico
Si doveva trattare, quindi, di un luogo di dibattito letterario ma subito i “cattivi suditti” ne fecero un uso politico. Nel primo numero del 29 gennaio 1816 l’Acerbi pubblicò, infatti, un articolo della de Staël sulla maniera e la utilità delle traduzioni.
Esso ebbe un effetto dirompente, dando il via alla polemica classici-romantici. Con i giovani intellettuali (Borsieri, Breme, Berchet) schierati con il rinnovamento romantico, l’esaltazione dell’eroismo e, cosa assai pericolosa, della stirpe. In aperto contrasto con l’atteggiamento neo-classico del Monti, prediletto dai censori Austriaci, e del meno allineato Giordani.
[modifica] Nascita, per opposizione, de ‘Il Conciliatore’
Ne sarebbe nato un ginepraio, con l’uscita dei romantici che davano vita (dal 3 settembre 1819) al bisettimanale Il Conciliatore, massacrato dalla censura austriaca e costretto a chiudere di lì pochi mesi. La sua principale colpa fu, sicuramente, di avere dei ricchi finanziatori privati, ciò che lo rendeva indipendente dalle casse del governatore. Ciò che violava un postulato essenziale della cultura cortigiana che Francesco II desiderava tollerare. La redazione e i suoi finanziatori (il meglio della nobiltà lombarda, dal Confalonieri al Lambertenghi) si sarebbe presto ritrovata nella Carboneria e, di lì, in esilio o allo Spilberg.
[modifica] Fallimento della politica culturale austriaca
L’evidente fallimento della politica culturale del Saurau e del Bellegarde è tanto più evidente se si considera che, proprio sotto il suo governatorato, Manzoni componeva la poesia “Il proclama di Rimini” (che sarà poi diffusa solo nell'aprile 1848, assieme a “Marzo 1821”), dedicandola all’alter-ego di Eugenio, Gioacchino Murat. Il ripensamento del partito degli “Italici” che si era opposto al tentativo del Beauharnais dovette essere, poi, generale, se è vero che il 20 aprile 1816 veniva diffusa manoscritta la “Prineide”, operetta “politica” in cui compariva il fantasma del povero ministro Prina: l’autore, il Tommaso Grossi espiò con due giorni di prigione (24-26 gennaio 1817).
Per il Bellegarde poco valeva, quindi, che le pubblicazioni della Biblioteca Italiana continuassero sino al 1925. L’ostilità del ceto dirigente lombardo non era matura, ma già appariva spessa, diffusa. E avrebbe impedito il coagularsi di un vero consenso politico attorno agli Asburgo, consentendo, alla lunga, il necessario riscatto.
In definitiva, il fallimento della politica culturale austriaca lasciava il governo imperiale a reggersi unicamente sulla propria forza militare e sulla remissività delle popolazione. Qualcosa di simile al brutale avvertimento di Francesco II, il 7 maggio 1814, agli ambasciatori milanesi del Comitato di reggenza: “voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista”. Non centro per legittimità o convinzione.
