Domenico Tiburzi
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Domenico Tiburzi (detto "Domenichino") fu il più famoso brigante della Maremma, divenuto una leggenda tra gli abitanti della provincia di Grosseto.
Tiburzi rappresenta l'esempio più evidente di una criminalità nata come risposta alle ingiustizie della società. Dai grandi proprietari pretendeva la "tassa del brigantaggio" e in cambio garantiva protezione. Tiburzi divenne un eroe popolare, il brigante buono e soccorrevole che uccideva "perché fosse rispettato il comando di non uccidere". Eliminò, infatti, molti briganti che si erano distinti per la loro prepotenza e cattiveria, quando capì che non sarebbe riuscito con la persuasione a ridurli a più miti comportamenti. Egli distingueva bene la legge dalla giustizia e lui stesso si era nominato protettore della giustizia anche contro la legge e in quell'epoca la legge la facevano i Savoia.
Nacque a Cellere il 28 maggio 1836 da Nicola e Lucia Attili. A sedici anni fu incluso in un elenco di ricercati per furto; a diciannove subì un processo per lo stesso reato, ma venne assolto. A ventisette venne arrestato per aggressione e ferimento, poi rimesso in libertà per "desistenza della parte offesa". Si sposò con Veronica dell'Aia che gli dette due figli. Nel 1867 uccise il guardiano del marchese Guglielmi, Angelo Del Bono, reo di avergli affibbiato una multa di 20 lire! Uno sproposito per quei tempi (basti pensare che è come se oggi per un paio di calze rubate in un supermercato si facessero pagare a un poveraccio quaranta milioni di lire) e tutto perché era andato a raccogliere un fascio d'erba nel campo del marchese. Dopo aver passato la notte insonne la mattina seguente prese la fatal decisione per il povero ma severo guardiano. Ciò scaturì dal fatto che prima dell'Unità d'Italia furono cambiate certe leggi che permettevano la sopravvivenza ai contadini più poveri raccogliendo le spighe cadute dopo la mietitura. Dopo il misfatto si diede alla macchia, vero regno del brigantaggio di quei tempi, e così con la latitanza inizia la sua storia da bandito. Nel 1869 fu arrestato e condannato dal Tribunale di Civitavecchia a 18 anni di galera da scontarsi nel bagno penale di Corneto, presso Tarquinia. Tre anni dopo evase insieme a Domenico Annesi (detto "l'Innamorato") e Antonio Nati (detto "Tortorella"). Si rifugiò nelle macchie della zona castrense dove si unì ad altri latitanti. In questo periodo si affacciò alla ribalta del brigantaggio Domenico Biagini di Farnese (detto "il curato" perché molto credente), con il quale Tiburzi strinse un duraturo patto di alleanza. Si unirono a loro David Biscarini e Vincenzo Pastorini. Intanto sulla testa del Tiburzi pendeva una taglia di diecimila lire. Il Biscarini divenne capo della banda, anche se per poco, dato che nel 1877 fu ucciso dai carabinieri. Da questo momento le redini della banda passarono nelle mani di "Domenichino", che accolse nel gruppo Giuseppe Basili (detto "Basiletto"). Basili e Pastorini furono uccisi da Tiburzi, il primo perché commetteva continue estorsioni ai danni dei mercanti e crudeli bravate, il secondo perché lo metteva sempre in ridicolo raccontando della sua fuga in mutande dalla grotta nella quale fu colpito il Biscarini. Pastorini fu ucciso in un duello sull'aia, fulminato dalla doppietta di Tiburzi. Nel marzo del 1883 nelle vicinanze di Farnese, goloso dell'ammontare della taglia, Antonio Vestri, boscaiolo, condusse i carabinieri presso il rifugio dei briganti, che riuscirono a fuggire. Dopo qualche tempo il boscaiolo era cadavere. Biagini gli sparò addosso una schioppettata e Tiburzi, per aggiunta, lo sgozzò; al che Biagini, per non essere da meno, sventrò col suo pugnale i due muli con i quali il Vestri trasportava la legna appena raccolta nel Lamone.
Nel 1888, Tiburzi uccise Raffaele Pecorelli, colpevole di aver rubato un maiale al nipote Nicola. Il compare Biagini cadde sotto i colpi dei carabinieri, in un agguato nella macchia di Gricciano, sul Fiora. Era il 6 agosto 1889: il vecchio bandito aveva ormai 67 anni e da venti viveva alla macchia. Ma Domenichino non si scoraggiò e nel 1889 indusse Luciano Fioravanti, nipote del Biagini,(affinché fosse degno di entrare nelle grazie del "Livellatore") ad uccidere un certo Luigi Bettinelli (detto "il Principino"), sgradito a Domenichino, perché era violento con le donne. Inoltre tra i suoi omicidi i più numerosi sono contro gregari che non stavano alle regole, o contro spie, o contro chi commetteva rapine in suo nome offuscandone l'immagine (tipo un certo capraio di Terracina perché rapinava a nome suo). Da "bravo" brigante era diventato un Robin Hood dei tempi nostri, aveva istituito una tassa sul brigantaggio cui dovevano corrispondere i nobili ed i ricchi possidenti terrieri che tenevano in pugno l'economia agricola della zona; per gli insolventi la punizione era l'incendio, tipico mezzo di reazione antipadronale dei braccianti maremmani. Del denaro ricavato il Tiburzi ne donava una parte ai familiari dei meritevoli briganti uccisi e con un'altra pagava il sostentamento per i più poveri e per i contadini e gli artigiani che non riuscivano a sbarcare il lunario. D'altronde aveva uno spirito umanitario, anche se un pò particolare.
Il suo ultimo omicidio fu quello di Raffaele Gabrielli, fattore dei Guglielmi, il 22 giugno 1890 nelle campagne di Montalto di Castro perché non aveva avvertito i briganti che ci sarebbe stata una perlustrazione dei carabinieri, nella quale poi rimase ucciso lo stesso Biagini. Il Tiburzi ed il Fioravanti uscirono dalla macchia e chiamarono ad alta voce il fattore che stava facendo colazione insieme ai mietitori e ai suoi collaboratori. Portato a pochi metri di distanza il Tiburzi gli sparò alla testa sotto lo sguardo atterrito dei mietitori. Nel 1893 il Governo, presieduto da Giovanni Giolitti, ordinò alle autorità di intervenire energicamente per la cattura di tutti i briganti. In una retata ne furono presi oltre 150, processati poi a Viterbo, ma Tiburzi sfuggì continuando a fare il brigante per anni ancora. In breve tempo furono effettuati molti arresti che coinvolgevano persone di ogni ceto sociale: nobili, contadini, pastori, tutti accusati di associazione a delinquere per aver sottratto i latitanti alle perlustrazioni dei carabinieri e quindi contribuito a creare quell'invulnerabile muro di omertà che avvolgeva e proteggeva i briganti della Maremma. Ma i più erano contadini e pastori, alle cui famiglie venne a mancare, con il loro arresto, l'unico mezzo di sostentamento. Giolitti stesso si indignò per la situazione venutasi a creare in Maremma. L'azione delle forze dell'ordine portò il brigantaggio maremmano, e Tiburzi in particolare, agli onori della popolarità nazionale e da quel momento la caccia al bandito divenne serrata e spietata.
Nel 1896, presso Capalbio, Tiburzi fu ucciso dopo 24 anni di latitanza dai militari del capitano Michele Giacheri, ufficiale dotato di grande esperienza nel settore. Non a caso il regno di Tiburzi durò molto a lungo, grazie proprio agli equilibri che era riuscito a stabilire con i potentati locali, evitando accuratamente di scontrarsi con la polizia ("figli di mamma" come li chiamava lui) e tutelando gli interessi di determinati possidenti, a cui garantiva protezione non solo dagli altri briganti, ma anche da ogni altro genere di problemi, dietro un regolare compenso, come fosse una paga, un premio assicurativo o una tassa sulla salute. Giacheri cominciò a percorrere instancabilmente in lungo e largo il regno del brigante, spacciandosi per un topografo francese, coadiuvato dal suo fido tenente Silvio Rizzoli. Il luogotenente di Domenichino, Luciano Fioravanti, più giovane di oltre vent'anni, riuscì a fuggire. Alla fine fu ucciso nel 1900 per mano di un amico traditore, Gaspero Mancini, che per derubarlo e assicurarsi la taglia posta sulla sua testa, lo freddò con un colpo a bruciapelo mentre dormiva.
Accadde una piovosa notte d'autunno, tra il 23 ed il 24 di ottobre, tre militi (il brigadiere Demetrio Giudici e i carabinieri Raffaele Collecchia ed Eugenio Pasquinucci) perlustravano le macchie tra Marsiliana e Capalbio. Stavano per fare ritorno in caserma quando un confidente rivelò al carabiniere Ciro Cavallini che in uno dei casolari dei dintorni il brigante avrebbe dovuto passare la notte. Sotto una pioggia divenuta torrenziale, molti coloni vennero svegliati e perquisiti sospettando che da qualche parte nascondessero i ricercati. Niente di niente, forse ancora una volta l'inafferrabile Tiburzi l'aveva fatta franca. Erano le 03:30 quando ormai abbattuti stavano per demordere ma decisero ugualmente di bussare alla porta dell'ultima casa colonica, "Le Forane", appartenente ad un certo signor Collacchioni. Lì si erano rifugiati i due briganti più osannati della macchia maremmana con le loro famiglie, il Fioravanti ed il Tiburzi. Il primo era tranquillo e pacifico mentre il Domenichino era scosso, inquieto perché qualche ora prima aveva avuto il presentimento della sua prossima morte. Al "Chi va là" del Tiburzi parte lo scontro a fuoco: i due briganti potevano brandire ottimi fucili a retrocarica, fucili a canne mozze, pugnali e varie rivoltelle. Appena spalancata la porta ormai crivellata di colpi il Tiburzi uscì allo scoperto colpendo in pieno petto un brigadiere troppo esposto e ferendo gravemente altri due militari. Ma alla fine due pallottole raggiunsero la sua gamba sinistra e, caduto a terra, sembrava volesse ancora sparare estraendo all'improvviso la rivoltella dalla fondina quando gli uomini di Giaccheri si stavano avvicinando ormai sicuri di averlo in pugno. Così gli fu inferto il colpo di grazia alla nuca. Domenico Tiburzi spirò sull'uscio della porta mentre il Fioravanti era già fuggito.
Ed è così che il Re della Macchia lasciò questo mondo. Alla morte di Domenichino il suo regno rimase tutto a disposizione della banda ancora per qualche anno per poi disgregarsi ineluttabilmente. I tre che la componevano, Settimio Menichetti, Settimio Albertini e Antonio Ranucci, erano troppo malvagi per poter aspirare all'amicizia del "Livellatore".
Di Tiburzi si conoscono i delitti, quelli che risultano negli archivi. Ma nessun archivio riporta, di un brigante, le manifestazioni positive; altrimenti non si spiegherebbe l'ammirazione da parte di tanta gente del popolo. Infatti il prete voleva negare al brigante il funerale e la sepoltura in terra consacrata ma la ostinata popolazione di Capalbio, sdegnata da tale decisione, ha esatto per il paladino dei diritti dei più deboli un’onorata sepoltura in terreno consacrato. Si arrivò coì ad un compromesso: "mezzo dentro e mezzo fuori dal cimitero". Quindi si scavò la fossa proprio dove si apriva il cancello d'ingresso originario e gli arti inferiori restarono dentro - come vuole la tradizione - mentre la testa, il torace (e dunque l'anima) rimasero fuori.
Da notare è che i carabinieri furono premiati con una medaglia d'argento con tanto di cerimonia di stato e foto in posa, ma il professionale Giacheri non si lasciò lusingare e si concentrò sulla debellazione della Maremma fino all'ultimo brigante.
Il brigantaggio fu debellato alla fine del diciannovesimo secolo. Pochi briganti finirono ammanettati: preferirono cadere sotto il piombo dei carabinieri piuttosto che arrendersi e finire agli arresti. L'onorevole Massari definì il fenomeno del brigantaggio come "la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e secolari ingiustizie", legato all'esistenza delle grandi tenute maremmane e delle tensioni sociali. Non a caso i più gravi episodi di violenza si verificavano ai danni di guardiani, guardiacaccia, fattori, carabinieri e altri rappresentanti del potere padronale e dello Stato.
A Domenico Tiburzi è stato poi dedicato un film uscito nel 1996 e diretto da Paolo Benvenuti, intitolato proprio Tiburzi con il patrocinio del Comune di Montalto di Castro, Comune di Capalbio e con la collaborazione dei Comuni di Canino, Cellere, Farnese, Ischia di Castro e Tarquinia.
Oltre alla pellicola il famigerato brigante Tiburzi, "Re della Maremma", è anche apparso sulle copertine e sulle pagine di diversi libri pubblicati anche nel 2006.
La sua fama e la sua leggenda continuano ad imperversare e ad intrattenere attraverso alcuni media. Il suo alone di mistero, la sua "bontà" dalla morale discutibile ma simpatica a primo impatto fanno sempre più presa sul pubblico di cui solo una piccola parte lo conosce, ma si spera che la sua storia particolare ma attraente si divulghi non più per sentito dire e diventi ben presto di dominio pubblico.