Harar Jugol
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Harar Jugol (chiamata a volte solo Harar, Harrar, Hārer o Harer) è una città che si trova nella parte orientale dell'Etiopia, nell'odierna regione dell'Harari. Essa è situata sulla cima di un monte ad un altezza di 1.885 metri sul livello del mare, nella parte orientale dell'altopiano etiopico, a circa 500 chilometri dalla capitale Addis Abeba. Secondo il censimento del 1994 la popolazione era composta da 76.378 abitanti.
Per numerosi secoli Harar è stata un importante centro commerciale, collegata per mezzo di importanti vie di comunicazione con il resto dell'Etiopia, con il Corno d'Africa e con la Penisola araba.
Nel 2004 Harar Jugol è stata inserita nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO. Essa è considerata la quarta città santa dell'Islam, con 82 moschee, tre delle quali risalgono al X secolo, e 102 luoghi sacri.
La città è anche famosa per la produzione di un pregiato caffè che porta il suo nome.
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[modifica] Popolazione
La popolazione di Harar è composta da numerosi gruppi etnici, sia musulmani che cristiani, tra cui Amhara, Oromo, Somali, Gurage e Tigrini, anche se all'interno delle mura della città è predominante l'etnia autoctona degli Harari.
[modifica] Storia
Chiamata Gey (cioè "la città") dai suoi abitanti, Harar venne fondata fra il VII e l'XI secolo (a seconda delle fonti) ed emerse come centro principale della religione e cultura islamica nel Corno d'Africa. Rimase indipendente dal resto dell'Etiopia per secoli, e nel 1520 divenne la capitale di un regno musulmano indipendente guidato da Abu Bakr. Nel XVI secolo Ahmad ibn Ibrihim al-Ghazi lanciò da Harar una guerra di conquista che estese di molto il suo territorio e arrivò a minacciare persino l'esistenza del regno cristiano d'Etiopia. Il suo successore, Emir Nur ibn Mujahid, circondò la città di un muro alto 4 metri e dotato di 5 porte d'accesso. Questo muro, chiamato Jugol, è giunto pressoché intatto fino a noi ed è uno dei simboli della città e dei suoi abitanti.
Il XVI secolo fu il periodo d'oro di Harar: la cultura fiorì e numerosi poeti vivevano e scrivevano qui. I regnanti di Harar coniarono le proprie monete, probabilmente a partire dall'anno islamico 615, che corrisponde al 1218/19 del calendario gregoriano. Sicuramente esse furono coniate in modo massiccio a partire dal 1789 e per tutto il XIX secolo.[1]
La città riuscì a rimanere indipendente fino al 1875, quando venne conquistata dall'Egitto. In questo periodo, Arthur Rimbaud visse ad Harar Jugol (la sua casa è stata oggi trasformata in un museo). Nel 1885 la città riuscì a riguadagnare la propria indipendenza, ma essa durò poco poiché il 6 gennaio 1887, in seguito alla battaglia di Chelengo, Menelik II incorporò Harar nel nascente Impero etiopico basato a Shewa.
Harar perse parte della sua importanza commerciale con la costruzione della ferrovia che collegava Gibuti ad Addis Abeba: inizialmente essa doveva passare per la città, ma venne deviata a nord delle montagne su cui sorge Harar per risparmiare denaro. Il risultato fu che nel 1902 venne fondata la città di Dire Dawa, intesa come Nuova Harar.
Nel 1995 Harar Jugol divenne una regione etiopica a tutti gli effetti. Attualmente è in costruzione una condotta per trasportare l'acqua in città da Dire Dawa.
[modifica] Monumenti
Il centro storico di Harar Jugol ospita numerosissime moschee e luoghi sacri all'Islam. I più importanti sono la cattedrale di Medhane Alem e la moschea cinquecentesca di Jami. Qui si trova anche un frequentatissimo mercato.
Negli anni '60 nacque uno spettacolo a beneficio dei turisti, in cui durante la notte viene dato cibo alle iene. L'origine di questo spettacolo va ricercato in un'antica tradizione locale, che si teneva però solamente una volta l'anno.
[modifica] Bibliografia
- Richard R.K. Pankhurst, An Introduction to the Economic History of Ethiopia (London: Lalibela House, 1961), p. 267.
- Fritz Stuber, "Harar in Äthiopien - Hoffnungslosigkeit und Chancen der Stadterhaltung" (Harar in Ethiopia - The Hopelessness and Challenge of Urban Preservation), in: Die alte Stadt. Vierteljahreszeitschrift für Stadtgeschichte, Stadtsoziologie, Denkmalpflege und Stadtentwicklung (W. Kohlhammer Stuttgart Berlin Köln), Vol. 28, No. 4, 2001, pp. 324-343, 14 ill.
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