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Discussioni progetto:Storia/Storia dell'istruzione a Bisanzio - Wikipedia

Discussioni progetto:Storia/Storia dell'istruzione a Bisanzio

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Imperatore e governo nell’impero ottomano

Subito dopo la presa di Costantinopoli, il sultano incaricò il suo gran visir di ristabilire l’ordine nella città, nominò un nuovo patriarca per la comunità greca della città e fece sì che molti si trasferissero ad Istanbul. Istanbul diventava il nuovo nome di Costantinopoli. Alla lettera esso non significa nulla ed è probabilmente la corruzione dell'espressione “” ("verso la città") che i Turchi sentivano gridare dai soldati bizantini. Improbabile invece la "facile etimologia" che il nome derivasse dall’espressione turca “islambolin”, "pieno di fedeli, visto che all'epoca la città non era affatto "piena" e che , comunque, i fedeli erano semmai di religione cristiana.
Per molto tempo i sudditi greci chiamarono il sultano non tanto padisha ma  , titolo con cui in precedenza venivano chiamati gli imperatori di Bisanzio, visto che ess riconoscevano al conquistatore ottomano e ai suoi successori le stesse caratteristiche che avevano caratterizzato gli imperatori bizantini: valore, forza, risolutezza, oltre alla sua capacità di partecipare attivamente alle campagne militari.
Molti cristiani passarono alla fede islamica, non tanto per le pressioni turche quanto per i vantaggi che si potevano conseguire: minori tasse e possibilità di accedere a cariche amministrative e politiche. Per chi non si convertiva non era prevista alcuna ritorsione, coerentemente col comando coranico lā ikrāh fī dīn, "non vi sia costrizione nella religione"). I sudditi cristiani erano infatti dhimmi, sudditi "protetti", liberi di professare alla luce del sole la propria religione in cambio del pagamento di una tassa, comunque decisamente inferiore a quelle imposte dall’impero bizantino.
Così come nell’impero bizantino, la maggior parte dei poteri era concentrata nelle mani del sultano, che intendeva acquisire dopo la conquista dell’Egitto mamelucco anche un potere spirituale, in quanto aveva trasportato a Istanbul tutti i simboli del potere califfale levandoli agli ultimi rappresentanti abbasidi che, sia pure senza alcun potere, erano stati indotti a risiedere al Cairo dai sultani mamelucchi dopo la caduta di Baghdad sotto i colpi dei Mongoli di Hulagu a metà del XIII secolo.
Il sultano, poi, che a sua totale discrezione concedeva le cariche ai funzionari e al suo primo ministro, il gran visir, era considerato dai suoi sudditi come l’incontestato signore dell’impero, colui che non solo aveva saputo imporre la sua autorità a tutti i musulmani sunniti, ma che aveva sgominato gli infedeli e imposto la legge dell’Islam a gran parte dell’Europa. Il sultano aveva la sua residenza a Costantinopoli e in altri palazzi sul Bosforo. Come diceva di se stesso Solimano il Magnifico (in turco Suleymān Qānūnī, ovvero "Solimano il Legislatore") in una lettera e Francesco I di Francia, il sultano è "l’ombra di Dio in terra, sultano dei Rum, califfo d’Egitto …" (allegato 2).
In linea di principio è il membro più anziano della famiglia che, alla morte del sultano, ottiene il trono. Solitamente, per il fatto di avere 4 mogli legittime e un numero indeterminato di concubine, il numero di figli era elevato e alla morte del sultano seguiva di fatto un periodo grave instabilità fin quando non fosse stata possibile l'affermazione di un solo erede del titolo ed è per questo che non furono infrequenti tensioni che potevano trasformarsi in vere e proprie guerre civili.
Divenne usuale fin dall'età di Maometto II, l'eliminazione da parte del sultano mediante strangolamento (per non lasciare visibili tracce di un omicidio, altrimenti sanzionabile in base alla legge coranica) degli altri possibili pretendenti al trono di Othman. Questo impedì di fatto che l’impero conoscesse secessioni o divisioni e per il mantenimento del suo potere assoluto il sultano poté contare sull’appoggio del corpo d'élite di fanteria dei giannizzieri, tra i primi in assoluto a dotarsi di un'importante dotazione della più moderna artiglieria. Ad essi, per antica tradizione, il sultano fu intimamente legato, offrendo generosi donativi in denaro e grande visibilità sociale, pur venendone in varia misura condizionato, tanto da indurre più tardi la dinastia a disfarsene fisicamente, grazie al fatto che, formalmente, i Giannizzeri erano di condizione servile, con una sanzione coranica prevista di carattere esclusivamente pecuniario. Una distinzione molto netta si potrebbe operare fra i sultani del XVI secolo e quelli del XVII secolo: i primi sono uomini di azione, che hanno compreso il compito che hanno assunto quanto sono saliti al trono e votati all’interesse del sultanato, dirigendo personalmente gli affari di stato, politici, militari ed amministrativi e rendendo Istanbul il centro direttivo dinamico dell’impero. I secondi invece sono più deboli, senza grandi iniziative, spesso dominati dalle loro mogli, le sultane (validè) spesso di nascita e formazione cristiana, o dalle loro concubile e, talvolta, dai loro favoriti. Si rinchiudono nel loro palazzo di Istanbul (Tapkapi), lasciando gli affari di Stato in mano ai loro funzionari e trascorrendo la loro vita in lussi e piaceri personali.
Il sultano è il capo supremo dell’impero. Proclamato subito dopo la morte del suo predecessore, rivestito dalle insegne del potere, il nuovo sultano entra nella moschea di Eyüp - Abū Ayyūb al-Ansārī, il musulmano che ospitò a Medina il Profeta Muhammad appena compiuta l'Egira - dove il Gran Maestro della confraternita (tariqa) della Mevleviyyè (Mawlawiyya) gli cingeva la spada, simbolo del potere politico religioso. Quindi riceveva l’omaggio dei principali dignitari dell’impero, che potevano essere confermati, trasferiti o rimossi, prima di eleggere la sua residenza nel Serraglio (sarayi) di Istanbul. Qui egli si trasferiva col suo harem, mentre l’harem del precedente sultano era trasferito nel vecchio serraglio, presso quella che diventerà la moschea di Solimano. Nel suo palazzo era circondato da un gran numero di servitori civili e militari, di condizione libera o servile.
Sulle decisioni di governo, la prima che il sultano doveva prendere vi era quella di conservare o sostituire il Gran visir in carica, poiché dall’operato di questi dipendeva il buon funzionamento amministrativo-contabile e militare dell’impero. "Rappresentante di Dio in terra", il sultano è il padrone assoluto dei suoi sudditi che sono, teoricamente, i suoi schiavi. In modo particolare gli sono sottomessi i funzionari di palazzo e i quadri dell’esercito, i quali portano il nome generico di kapikullari, "schiavi della [Sublime] Porta", totalmente dipendenti dall’arbitrio del sultano che decide del loro destino.
Se i figli dei funzionari potevano far entrare i figli nel corpo dei paggi e nel personale amministrativo del Serraglio, il nepotismo non fu però un fenomeno particolarmente rilevante nell’impero ottomano, dal momento che la nobiltà nella cultura islamica non ha conosciuto la stessa origine e lo stesso significato assunto nell'Europa occidentale in cui essa fu di fatto una casta privilegiata e detentrice delle primarie funzioni dello stato. Una strada del tutto peculiare nell'esperienza politica ottomana fu quella del cosiddetto devşirme. Gli Ottomani utilizzarono, per assicurarsi il regolare reclutamento di un esercito impegnato in una diuturna impresa di espansione dei confini, un istituto che rofondamente turbò le coscienze del mondo cristiano ma che produsse effetti assai utili ai Turchi. Il sistema consisteva nel prelevamento forzoso, annuale o biennale, di bambini al disotto dei cinque anni dalle famiglie cristiane dei Balcani. Essi venivano inviati in Anatolia, presso famiglie musulmane, dove venivano allevati islamicamente, veniva insegnata loro la lingua turca ed erano iniziati alle tradizioni islamiche e turche. A dieci o undici anni i giovani entravano negli istituti di formazione militare e da quel momento venivano denominati acemi oğlan. A seconda dell’attitudine venivano inviati nell’esercito o a palazzo, dove diventavano paggi e venivano nominati ic oğlan.
Potevano in alternativa guadagnarsi meriti o diminuire di grado e se riuscivano ad attirare l’attenzione del sultano, di una sultana o di qualche favorito, nulla impediva loro di aspirare al gran visirato. Questi soldati in generale erano molto fedeli, anche perché in tutta la loro vita era ribadito il valore supremo della fedeltà al sultano, tanto da non far nutrir loro altra ambizione che quella di dedicarsi al suo servizio.
Quando alla testa dell’impero vi furono abili sultani come Murad IV o Solimano il Magnifico, essi curarono personalmente l’amministrazione dello stato e scelsero con discernimento i ministri e i comandanti dell’esercito. La qualità del personale crebbe qualitativamente e le promozioni avvennero essenzialmente su base meritocratica. Tale pratica di governo ha profondamente colpito gli osservatori europei, che la giudicarono assai migliore di quella esperita nei sistemi occidentali. Un sistema come quello ottomano, per funzionare, necessitava tuttavia di sovrani energicie nelle supreme cariche era necessario essere musulmani. Gli incarichi ufficiali erano appannaggio dei Turchi musulmani e le minoranze non potevano accedervi a meno che non si fossero convertite all’Islam. I funzionari erano però precari, in quanto il loro posto di lavoro dipendeva dal favore unico del sultano, che poteva sostituirli da un giorno all’altro, anche senza motivazione. Tra gli schiavi della Porta un certo numero visse nella ristretta cerchia del sultano, direttamente incaricati del servizio della sua persona e del palazzo. Altri appartenevano al ceto ulema, che non erano schiavi né provenivano dal devşirme, e altri ancora erano gli ufficiali di palazzo, specificamente destinati alla persona del sultano. Fra di essi indichiamo il governatore del serraglio, responsabile della polizia interna del palazzo e delle residenze imperiali; il portastendardo, che aveva ai suoi ordini gli ufficiali delle guardie e il corpo di musica imperiale; il grande scudiero, che aveva ai suoi ordini migliaia di uomini: palafrenieri, scudieri, personale di scuderia, sellai, cammellieri; il capo degli uscieri, una sorta di maresciallo di corte. Seguivano qiondi per importanza gli intendenti (degli edifici imperiali, del tesoro, della cucina, dell’orzo, della dispensa…) incaricati di garantire la vita materiale nel Serraglio. Infine venivano le guardie di palazzo, le guardie del corpo, le guardie dei principi, degli ufficiali, ecc. Tutti costoro davano vita a un mondo che viveva grazie al fasto del sultano; la grandeur del sultano imponeva che egli fosse circondato non da una corte di tipo occidentale ma da un personale a lui devoto, avente la funzione di manifestarne la magnificenza e la potenza.
Ai gradi più alti dell’amministrazione dello stato c’era una sorta di commistione fra amministrazione statale e amministrazione della capitale: certi alti funzionari dello Stato sono anche amministratori civili, religiosi o militari metropolitani e la sede della loro amministrazione era situata a Istanbul. Tali alti funzionari si riunivano varie volte alla settimana nel consiglio del Divan (parola che identificava l'amministrazione burocratica) all'interno del Serraglio. Vi partecipavano regolarmente il Gran visir, responsabile degli affari politici, militari ed amministrativi in generale; il responsabile della cancelleria, il nişhanci; i kadiasker (giudici militari) di Anatolia e Rumelia, il defterdar, responsabile dei "registri" finanziari dell’impero e il kapudan pascià, il grande ammiraglio.
Le sedute sono presiedute dal Gran visir ma il Sultano poteva, volendo, assistervi dietro una piccola loggia mascherata da una griglia, e partecipare attivamente, come fecero Solimano il Magnifico e Selim I, mentre nel XVII secolo, i sultani si disinteressarono dei lavori del Divan, ad eccezione di Murad IV, delegando al Gran visir la totale responsabilità degli affari di Stato.
Sotto Maometto II e i suoi immediati successori, il Divan si riuniva tutti i giorni dopo la preghiera del mattino e rimaneva in seduta fino a mezzogiorno. A partire dalla metà del XVI secolo, da Solimano il Magnifico in poi, si riuniva solo quattro giorni alla settimana e, in caso eccezionale, cinque: il sabato, la domenica, il lunedì, il martedì. Nella riunione speciale del mercoledì il Divan, esclusi i kadiasker di Anatolia e Rumelia, discuteva i problemi della vita metropolitana. Il Gran visir, in turco visir azem, era il primo personaggio dell’impero. La designazione del visir non richiedeva particolari formalità: il sultano, di propria volontà, rimetteva alla più alta carica dello Stato il sigillo che era recuperato dal precedente Gran visir. Questi aveva una corte splendida, quasi pari a quella del sultano, e nel XVII secolo esercitò un potere sicuramente maggiore rispetto a quello del sultano. I soldi per mantenere questo sfarzo provenivano dalle rendite dell’isola di Cipro, dal suo stipendio e dalla vendita delle cariche pubbliche. È facile capire perché, nel giro di dodici anni e mezzo, fra il 1644 e il 1656, ci siano stati diciassette Gran visir, visto che alla loro morte i loro beni entravano a far parte delle casse dello Stato, prosciugate dall’eccessivo lusso richiesto dai sultani.
In origine i Gran visir risiedevano nella loro dimora durante il loro mandato ma, a partire dal XVI secolo, essi dapprima risiedettero in un palazzo privato situato nei pressi del Serraglio. Dal 1654 i Gran visir si trasferirono per tutta la durata della loro carica in un palazzo ufficiale che ricalcava lo stile di quello del sultano: quello appartenuto al Gran visir Halil Pascià, di fronte all'Alay Köşkü (padiglione delle feste), di cui ancora oggi è possibile vedere la monumentale porta esterna. È proprio quella porta che, chiamata dapprima Paşa kapisi (la porta dal Pascià) e più tardi Babi Âli (la Sublime Porta), ha poi finito per dare il suo nome al palazzo del Gran visir, e quindi al governo ottomano.
Il nişanci era responsabile di tutto ciò che concerneva la cancelleria e la redazione degli atti. Doveva possedere una certa cultura e generalmente era reclutato tra i grandi letterati usciti dalle medrese (scuole religiose) della capitale. Non appariva spesso in pubblico e il suo era un lavoro prettamente burocratico, a differenza del defterdar, o conservatore dei registri che, di fatto, era il grande tesoriere dell’impero. Il termine compare per la prima volta nel XV secolo, quando ne esisteva solo uno: il defterdar della Rumelia. Il gran tesoriere controllava tutti gli interventi dello Stato in materia di finanze, riceveva ogni sera un rapporto sulle operazioni del tesoro e presentava questi rapporti due o tre volte la settimana al Gran visir. Nessuna somma poteva uscire dalle casse del tesoro senza la sua autorizzazione scritta e firmata. Non veva il diritto di occuparsi delle finanze private del sultano, in quanto gestite da un funzionario la cui unica competenza era quella di provvedere alle spese della corte, di percepire le rendite occasionali e accogliere i doni fatti al sultano.
Oltre a questi personaggi esistevano visir che avevano l’incarico di assistere il Gran visir nell’espletamento delle sue varie mansioni e che partecipavano alle riunioni del Divan. Accanto a questi funzionari civili stavano le autorità religiose, il cui peso era assai rilevante: la principale autorità religiosa era il müfti di Istanbul, il primo dignitario religioso dell’impero che, in questa veste, portava il titolo di şeyhülislâm. È lui che promulgava le leggi emanate dal sultano, garantendo la loro conformità al Corano. Subordinati al müfti erano i kadiasker: uno per la Rumelia (la parte europea dell’impero) e uno per l’Anatolia (la parte asiatica dell’impero). Dirimevano tutte le controversie militari e nominavano i rispettivi cadì. Partecipavano alle sedute del Divan ma non avvanoo praticamente giurisdizione su Istanbul, il cui cadì godeva di una certa indipendenza. Il cadi di Istanbul, il primo giudice dell’impero dopo i kadiasker, era a questo titolo un dignitario di primaria importanza, e questa carica era molto ricercata in vista del fatto che il suo titolare, oltre a detenere una delle più invidiabili cariche della gerarchia giuridico-religiosa, poteva aspirare alla carica di kadiasker e persino a quella di şeyhülislâm, cosa verificatasi in più di un caso.
Non esiste tuttavia alcun grande impero senza un grande esercito. Il vero capo dell’esercito è il sultano, che partecipa ad ogni azione militare e dirige personalmente le spedizioni. L’esercito di terra è diviso in varie armate: fanteria, artiglieria, salmerie, sussistenza e cavalleria. La fanteria era indubbiamente l’arma più importante, ed era praticamente costituita dai Giannizzeri (yeni ceri, ovvero "nuova truppa", dopo che il sultano s'era sbarazzato d'un altro corpo dimostratosi troppo autonomo nelle sue decisioni), alla cui testa sta l’ağa dei Giannizzeri.
Il comandante di cavalleria, il sipahi ağa, ha un potere minore rispetto a quello dei Giannizzeri. Il kapudan pascià, il grande ammiraglio, occupava un posto equivalente a quello dell’ağa dei Giannizzeri. Comandava non solo tutti marinai dell’impero ma anche tutte le maestranze degli arsenali, galeotti compresi.


Solimano II, il Magnifico.

(Il testo prima presente qui sotto è stato da me utilizzato per una parte della "voce" Solimano il Magnifico e quindi cancellato. Rimane nella "pagina".--Horatius (E-pistulae) Retis Pagina 19:10, 22 feb 2006 (CET)

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