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Progetto:Storia/Storia dell'istruzione a Bisanzio - Wikipedia

Progetto:Storia/Storia dell'istruzione a Bisanzio

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Le vicende dell’Europa orientale dal 1300 al 1500.

- L’ultimo secolo dell’impero Bizantino. - Bisanzio e Istanbul confronto: l’istruzione ed il governo. - Il mondo invisibile del bene e del male in Bisanzio. - Solimano il Magnifico.

Indice

[modifica] L’ultimo secolo dell’Impero Bizantino.

Alla morte d’Andronico III, il trono bizantino fu nuovamente vacante. L’imperatore inoltre non lasciò indicazioni per la successione. Il potenziale successore era Giovanni, suo figlio maggiore, ma visto che la successione non doveva essere obbligatoriamente ereditaria, anche Giovanni Cantacuzeno, odiato dall’imperatrice che l’accusava di passare più ore con il vecchio imperatore di lei, che, di fatto, però reggeva il regno da quattordici anni, era un potenziale successore. Il patriarca invece spalleggiava il giovane Apocauco. Cantacuzeno continuò a governare come reggente. L’impero non era al sicuro: infatti, i tre principali nemici dell’impero lungo i suoi confini erano in rivolta. Cantacuzeno allora assoldò dei soldati a sue spese e riuscì a restaurare l’ordine. Nel frattempo a Costantinopoli l’imperatrice, Apocauco e il patriarca tramavano contro di lui, lo destituirono, il patriarca si autonominò reggente e nominò il suo protetto prefetto di Costantinopoli, ma i militari appoggiavano Giovanni Cantacuzeno, e lo acclamarono  Dopo la scomunica del patriarca a Cantacuzeno, all’interno dell’impero sorsero dei problemi: Adrianopoli fu retta da una comune e Tessalonica per sette anni subì il governo degli Zelati. Cantacuzeno bandito, scomunicato e simbolo dell’oppressione del popolo fu dipinto dai suoi avversari come il principale nemico pubblico di Bisanzio. Questi chiese l’aiuto dei Serbi per riottenere il trono. Nel frattempo il morale a Costantinopoli era davvero a terra, poiché gli Ottomani controllavano le province europee dell’impero. Anna di Savoia nel 1343 impegnò i gioielli della corona per pagare delle truppe che avrebbero difeso i suoi progetti. Quei gioielli non torneranno mai più a Bisanzio. I suoi alleati inoltre passarono dalla parte di Cantacuzeno e Apocauco che aveva instaurato un regime di terrore fu ucciso. Cantacuzeno nel frattempo passò dalla parte dell’emiro Orhan, che sposò la sua terza figlia nel 1436. Nello stesso anno il re dei serbi, Dusan, venne eletto imperatore dei greci e Giovanni Cantacuzeno imperatore dal patriarca di Gerusalemme ed egli nominò coimperatore il figlio di Andronico col nome di Giovanni V; per i primi dieci anni Cantacuzeno sarebbe stato l’imperatore anziano, poi avrebbero regnato alla pari. Il patto fra loro fu suggellato dal matrimonio di una figlia di Cantacuzeno con Giovanni V; nel 1347 gli venne revocata la scomunica. L’impero bizantino era finalmente riunito e riappacificato, ma non aveva più un territorio omogeneo (in pratica, lo stato consisteva ormai nella sola più Costantinopoli, Adrianopoli, Didimoteico, Tessalonica solo raggiungibile dal mare, parte delle isole Egee e dalla Tracia) ed era in bancarotta. Inoltre Dusan mirava ad occupare lo stato, ma gli mancavano le navi che non gli furono concesse da Venezia, l’arrivo della peste poi falciò gli 8/9 della popolazione. Anche la situazione economica era disastrosa: il valore della moneta via via era sempre più basso, la Tracia era ridotta ad un deserto; in preda alla disperazione ed al nuovo bisogno di armate, i soldi arrivati dalla Russia per restaurare Santa Sofia vennero spesi per reclutare soldati. Cercando di consolidare l’impero, Cantacuzeno donò ai suoi due figli Michele e Manuele rispettivamente la Tracia e la Morea. Per problemi economici scoppiò una guerra fra Genova e Costantinopoli, che si risolse con il pagamento di Genova di centomila iperperi, l’evacuazione di Galata ed il divieto di attaccare Costantinopoli. Genova fu impegnata in una nuova guerra proprio sotto le mura di Bisanzio, questa volta contro Venezia. Giovanni V reclamava il suo impero, quindi al governatore della Tracia non restava che accettare di buon grado lo scambio del suo territorio con la città di Adrianopoli. Giovanni V però attaccò Adrianopoli e Cantacuzeno intervenne in aiuto del figlio. Da qui ne scaturì una guerra civile che aveva visto la fuga di Giovanni V a Tenedo e l’incoronazione di Michele come coimperatore. Come fine, nel 1354. In quello stesso anno un terremoto rase al suolo Gallipoli, che venne ricostruita dai turchi. Gallipoli è il primo insediamento turco nel continente, in quanto i territori da loro sottomessi erano per la maggior parte popolati da cristiani. Giovanni V fuggì da Tenedo e tornò a Costantinopoli, annullando, di fatto, i cambiamenti portati dall’ultima guerra civile. Giovanni VI Cantacuzeno un anno dopo cedette le insegne imperiali e si fece monaco con il nome di Giosafat. Morì nel 1383. Quando Giovanni VI abdicò, l’impero era sull’orlo del collasso, pronto a vendersi al primo offerente pur di continuare ad esistere almeno nominalmente. Il vecchio nemico, il principe di Serbia Dusan morì e con lui il suo impero, ma i Turchi furono pronti a rimpiazzarlo. Nessuno degli alleati di Costantinopoli l’aiutò nel tentativo di resistere all’ondata turca: il papa promosse una crociata, che fu fallimentare, Venezia e Genova furono impegnate in guerre fra di loro e gli ungheresi che odiavano gli scismatici ortodossi ancor più dei musulmani, non diedero alcun aiuto. Conquistate dai turchi Didimoteico e Adrianopoli, Giovanni V si recò in Ungheria, che negò il suo aiuto salvo che l’imperatore si convertisse. Nel viaggio di ritorno, per la prima volta nella storia dell’impero, un imperatore bizantino fu fatto prigioniero. I Bulgari lo tennero in ostaggio finché Amedeo di Savoia non intervenne per salvarlo e per dar via al tentativo di riconciliazione delle due chiese. Pur di salvare il suo impero, Giovanni V si sottomise al papa, convertendosi nel 1369 ed avviò dei colloqui fra Paolo di Smirne e Giosafat (l’ex imperatore), i rappresentanti delle due chiese. La fusione però non poteva avvenire dall’alto, e bisognava convocare il concilio, ma il papa si oppose. Nel 1369 l’imperatore sbarcò in Italia sia per la sua personale conversione sia per il prestito richiesto dall’imperatrice Anna nel 1343 ai banchieri veneziani, ma da questi non fu benaccetto, poiché era povero. Pur di riottenere i gioielli della corona e 25000 ducati, di cui subito 4000, altrimenti non sarebbe potuto tornare a Bisanzio, fu pronto a cedere l’isola di Tenedo. Il coimperatore Andronico, appoggiato dai genovesi di Galata che vedevano con timore un isola veneziana a controllo delle loro attività a Bisanzio e sul Mar Nero, si oppose. Giovanni, per tanto, fu fatto prigioniero dello stato veneziano. Nel frattempo, nella battaglia di Maritza, i serbi e i bulgari sono resi vassalli del sultano, Murad. Pur di non essere travolta dalla marea musulmana, Costantinopoli si dichiarò vassalla del sultano (1373) Bisanzio entrò in guerra con Murad, e Andronico, che si oppose, fu arrestato. Levatosi dai piedi il protettore dei genovesi, i veneziani ripresentarono l’affare per l’isola di Tenedo, ma i genovesi fecero fuggire Andronico che si nominò imperatore e cedette l’isola ai suoi liberatori, senza fare i conti con il governatore dell’isola, che decise di cedere Tenedo ai veneziani. L’impero perdette così un’altra fetta del suo già esiguo territorio per problemi finanziari, mostrando a tutta l’Europa cristiana che ormai non c’era più nulla da fare per salvare l’impero, che si dibatteva in una profonda crisi economica, politica e religiosa. Gallipoli, la prima città turca dell’Europa, ancora formalmente sotto Bisanzio, fu assoggettata dal Sultano nel 1372. Giovanni V e Michele chiesero l’aiuto di Murad in cambio di Filadelfia, l’ultimo avamposto bizantino in Asia e quando nel 1382 Genova e Venezia firmavano una pace secondo cui Tenedo sarebbe rimasta neutrale, tutto tornò come prima del 1369. L’impero continuava a non essere eterogeneo, ed era governato da ben tre imperatori e un despota: a Costantinopoli l’imperatore Giovanni V, sul Mar di Marmara Andronico e Giovanni VII, a Tessalonica Manuele II ed in Morea il Despota Teodoro I. Di questi territori, nel 1382 l’impero perdette Tessalonica, espugnata dai Turchi. I boiari serbi tentarono un’ultima, disperata resistenza al sultani, ma furono sconfitti nella battaglia del Kossovo dal nuovo sultano Bajazet (che significa saetta) nel 1389. Fra i titoli del sultano, c’era quello di sultano dei Rum, o dei romani, di cui i discendenti di Othman si fregiavano dal 1100. Rum erano considerati dapprima tutti gli abitanti dell’Anatolia, poi di tutte le regioni Europee in loro possesso, ma oltre a governare i romani, volevano anche la seconda Roma, Costantinopoli. Non fidandosi dei suoi vassalli, Bajazet volle mettere alla prova gli imperatori del mar di Marmara, ordinando loro di riconquistare Filadelfia, che si era sollevata contro i turchi per ritornare nella giurisdizione imperiale. Era la prima volta che un imperatore si umiliava al punto di espugnare una città sua per darla ai suoi naturali nemici. L’umore dei cittadini di Costantinopoli era davvero basso. Nel 1391 morì Giovanni V, uno degli ultimi imperatori che lottò tenacemente per migliorare e difendere l’impero. Se avesse regnato nel secolo precedente, avrebbe potuto fare molto per cercare di salvare Bisanzio ed il suo stato. Nel 1391 Manuele divenne imperatore senza il consenso del sultano, che gli chiese di intervenire al suo fianco nel Mar Nero e di assegnare in Bisanzio un quartiere ai mercanti turchi, non soggetti alla legge imperiale. Manuele accettò malvolentieri. Nel 1392 si sposò e fu incoronato una seconda volta. Due anni dopo Manuele sciolse il legame di vassallaggio con il sultano ed in aiuto di Bisanzio intervenne l’Ungheria ed una coalizione del Papa, che fu sconfitta a Nicopoli. Manuele allora si rivolse all’Europa occidentale, ma in due anni di peregrinazioni non ottenne assolutamente nulla. Fortuitamente, l’espansionismo ottomano fu fermato dalla sconfitta subita a est da Tamerlano. Al vecchio Bajazet, succedette il figlio Solimano, che firmò un trattato con Costantinopoli: il legame di vassallaggio fu rovesciato, e mentre Tessalonica, il monte Athos ed altri territori passarono a Bisanzio, Adrianopoli passò in mano ai turchi. Ma il trono ottomano non procedeva per linea diretta; infatti, alla morte del sultano, di norma doveva succedergli fra i discendenti di Othman il più vecchio, fosse questi un fratello o un figlio. Tenendo conto che un sultano aveva un infinito numero di mogli a disposizione nel suo harem, è facile pensare che difficilmente ad una successione al trono seguiva un momento di tranquillità per il sultanato. Infatti, subito gli altri pretendenti al trono, Musa, Mehmet e Mustafà si fecero vivi e alla fine della guerra dinastica, a regnare fu l’ultimo. Giovanni, assieme a sua moglie Sofia di Monferrato diventò coimperatore, e attuò una politica aggressiva nei confronti del sultano, e non di pacifica convivenza come avevano tentato i precedenti. Nel 1421 salì al trono Murad II, che mise sotto assedio Tessalonica e Costantinopoli. La difesa di Tessalonica fu affidata ai veneziani. Giovanni partì per l’occidente e Manuele pronunciò i voti, rinunciando al potere. L’impero non esisteva più, se non per la sola capitale. Il despotato di Morea e la sua capitale, Mistrà, in questi ultimi anni di storia bizantina, erano culturalmente e politicamente più influenti di Bisanzio. La situazione divenne sempre più grave per l’impero, e nel 1430 Tessalonica fu data alle fiamme. L’imperatore in occidente partecipò al concilio di Costanza, sperando di poter nuovamente chiedere l’aiuto dei principi occidentali, ma nessuno di loro si presentò. Alla fine, pur di ricevere un aiuto, anche minimo, cedette alle pressioni dei cattolici e firmò l’atto di unione delle due chiese, il Laetentur Coeli nel 1439. Una crociata nominata dal papa partì per salvare il salvabile, ma dopo la presa di Sofia nel 1443, l’anno dopo fu dispersa e distrutta dal sultano (che pretende le congratulazioni di Giovanni, perché l’imperatore di Bisanzio era nuovamente suo vassallo!) Nel giro di dieci anni, una crisi dinastica rese ancor più instabile il trono di Bisanzio, ed alla fine fu eletto re Costantino IX. A capo dei turchi c’era Mehmet II, che fece costruire nel 1451 sul lato asiatico del Bosforo una fortezza, la Rumeni Hissar, o porta dell’Europa, di fronte a quella fortezza costruita dal suo avo sulle sponde del Bosforo asiatico, ottenendo così il controllo dello stretto. Inoltre la Polis rischiava molto anche per la marina ottomana: considerata, infatti, per tutto il medioevo espugnabile solo per mare, nessuno fino ad ora aveva posseduto una flotta più potente di quella dell’impero d’oriente ed ora che i turchi la possedevano potevano finalmente prendere Bisanzio per fame. Bisanzio, pur di cercare di mantenere vivo, anche se agonizzante, l’impero romano d’oriente, riunì il regno con il granducato di Toscana, ma in Tracia si stavano già riunendo le truppe ottomane. È l’anno 1452. Il sultano aveva come asso nella manica due cannoni dall’efficacia davvero strabiliante. Arrivato sotto le mura della città in aprile, come voleva la legge islamica mandò un dispaccio all’imperatore, dicendo che se si fosse arreso, avrebbe risparmiato la vita dei suoi sudditi, in caso contrario, la lotta sarebbe stata all’ultimo sangue. L’imperatore non rispose. La città era ben preparata all’assedio, iniziato il giorno successivo, ed aveva inoltre a disposizione un capitano genovese ben preparato sugli assedi, ma non aveva nessuna protezione per la zona costiera, né tanto meno uomini a sufficienza da mettere sulle mura: circa 7000 civili e l’esercito di Mehmet era composto di 100000 soldati ben addestrati. Tutta la marina di Bisanzio constava di 10 navi, e mettendole assieme a quelle ancorate al porto della città si poteva contare su ben 26 navi. Il primo giorno i turchi erano riusciti ad aprire un varco nelle mura, senza riuscire però ad entrare in città. Nella notte, la breccia fu richiusa ed il sultano aspettò i rinforzi per attaccare di nuovo Bisanzio per terra. Da allora, i turchi bombardarono senza mai smettere per 48 giorni consecutivi. Nel frattempo, siamo ormai nel 1453, arrivarono quattro navi genovesi, poiché le navi turche erano ammassate davanti a Costantinopoli ed avevano lasciato totalmente sguarnito il corno d’oro. Il sultano, infuriato, fa strangolare l’ammiraglio e fa spostare la flotta turca nel corno d’oro. Tutto ormai sembrava volgere al peggio per Bisanzio ed il suo impero; i viveri scarseggiavano e anche alcuni segni nefasti distrussero il morale dei cittadini. Il sultano però, stufo di girare attorno al problema, decise di attaccare Bisanzio, e di prenderla per sfinimento: il 29 maggio tre ondate di soldati portarono allo stremo delle forze i difensori della città, che combatterono per cinque ore consecutive. Molti soldati turchi ormai erano in città e da alcuni bastioni addirittura garriva al vento la bandiera verde del sultano. L’imperatore, Costantino, si gettò nella mischia e morì. In poche ore, Bisanzio era diventata un lago di sangue; la Vergine Odigitria, l’icona più venerata dell’impero, bruciava. In Santa Sofia, mentre si celebrava il mattutino, i fedeli furono uccisi o catturati come schiavi Bisanzio moriva quando furono uccisi i due preti che stavano celebrando la messa. Altre fonti dicono che questi preti invece si volatilizzarono, e che quando Costantinopoli sarebbe tornata una città cristiana, loro sarebbero riapparsi, per finire di celebrare la messa. Il sultano, magnanimamente, non concesse ai suoi soldati che solo una giornata, ma bastò a rendere la Polis un guscio vuoto. Il giorno successivo, l’imam fece di Santa Sofia una moschea. L’impero ormai non esisteva più, ed il suo conquistatore aveva appena ventidue anni. La notizia fece inorridire il mondo cristiano. Ora, dopo 1123 anni e ottentotto imperatori, ben poco era rimasto. Fra questi, pochi furono davvero validi ed altrettanto pochi erano stati quelli davvero dannosi. Tutto sommato, si può considerare la civiltà bizantina come una società in cui l’analfabetismo era totalmente assente nelle classi medie e alte, i cui imperatori erano famosi per la loro erudizione. Il primo filelleno del secolo scorso, lord Byron, definì la società bizantina come composta da un corpo romano, una mente greca ed un anima orientale. Ancora oggi, a più di 500 anni da noi, per i greci il giorno nefasto della settimana è il martedì, giorno in cui cadde Bisanzio ed i turchi, per ricordare che quel martedì la luna era in fase calante, lasciarono come eredità nei vessilli la mezzaluna calante. L’istruzione nella Costantinopoli Bizantina. In tutto l’impero esisteva un modello di istruzione liberale che comprendeva tre stadi: elementare, secondario e superiore. A partire dal settimo anno d’età, i ragazzi erano mandati a studiare dal maestro elementare che insegnava loro l’alfabeto, la lettura ad alta voce, lo scrivere ed il far di conto. Per una notevole parte della popolazione, l’istruzione si fermava qui. Dal livello successivo il grammatico non insegnava tanto la grammatica, quanto un numero scelto di autori classici, principalmente poeti e soprattutto Omero. Il metodo seguito consisteva per ciascun testo studiato nella correzione del brano, la lettura ad alta voce, la spiegazione e la critica. Allo studio degli autori si affiancava quello della grammatica, celebre il testo di Dionisio Trace, che consisteva nella classificazione del linguaggio: le consonanti, la quantità delle vocali, i dittonghi, le otto parti del discorso, il numero, la declinazione e la coniugazione. Inoltre c’era un determinato numero di esercizi che lo studente doveva affrontare: i primi cinque a livello secondario, i restanti a livello superiore: la favola, il racconto, la massima pregnante, il detto gnomico, la confutazione o la confermazione di una proposizione, il luogo comune, ovvero l’elaborazione di una tesi generale, la lode, la comparazione, lo schizzo di carattere, la descrizione di qualcosa, la discussione di un tema generale, la proposta di una legge o provvedimento. Per ogni “composizione” erano stabiliti temi standard; nel caso della massima pregnante, il detto di Isocrate “amara la radice dell’apprendere, dolce il suo frutto”. L’allievo doveva comporre il suo esercizio in forma tripartita: elogiare Isocrate, parafrasare la sua massima, quindi giustificarla. Gli studi letterari detenevano un ruolo preponderante nell’istruzione secondaria, ma c’erano anche le quattro materie scientifiche, cioè aritmetica, geometria, astronomia e musica, ma queste erano insegnate in aggiunta al programma “di stato”. L’istruzione superiore era impartita dal retore e solo nelle grandi città. Solitamente l’istruzione superiore iniziava a quindici anni e continuava per quanto tempo si volesse: solitamente però durava cinque anni, anche se molti abbandonavano gli studi dopo due o tre anni. La maggior parte degli studenti proveniva dalle agiate famiglie, ed erano nell’ordine delle centinaia più che delle migliaia chi riceveva tale istruzione. La filosofia e quella che noi oggi chiamiamo scienza fioriva ad Atene e ad Alessandria, la medicina sempre ad Alessandria, la legge a Beirut. Nel mondo antico non c’era nulla che si avvicinasse all’università, e spesso la materia era legata al luogo di insegnamento, proprio come oggi alcune università sono famose per alcuni corsi e altre per altri: così l’erudito in erba era costretto a girovagare per tutto l’impero, ed il tutto era molto costoso. Una gran parte dell’istruzione superiore riguardava il parlare in pubblico, ed è un paradosso, visto il periodo storico ed alla lingua in cui veniva insegnata, l’Attico del V sec a.C., morto da secoli. Inoltre è criticabile il sistema scolastico che non corrispondeva ai bisogni del governo, ovvero buone capacità notarili e il latino per le province orientali. In generale però, Costantinopoli grazie ai suoi sovrani saggi poté nei secoli diventare un ostello di cultura. Il corpo insegnanti dell’università di stato comprendeva tre oratores e dieci grammatici per il latino, cinque sofisti e dieci grammatici per il greco; per gli studi più approfonditi, un professore di filosofia e due di legge. In altri termini, si sta parlando di un’istituzione che cumulava le funzioni di scuola superiore e di college sotto la diretta supervisione dello stato. In ogni modo, nel periodo d’oro dello stato, furono ben pochi i letterati che si formarono presso la capitale, proprio come nell’antica Roma si parlava di una letteratura di Costantinopoli-impero più che di una letteratura di Costantinopoli-città. Spesso, in un primissimo periodo in cui il cristianesimo non era la religione di stato, spesso i cristiani non frequentavano le scuole pagane, ed in seguito videro la luce scuole cristiane, in cui si dava molto peso all’eloquenza, non presente nella bibbia e necessaria per difendere la fede. Grazie infatti al cristianesimo, la retorica che in un periodo di annullamento della democrazia rivaluta e dà alla retorica un fine pratico: il sermone. Proprio come oggi, le matricole erano molestate dagli studenti più anziani. Per questi episodi e per un controllo via via maggiore dei cristiani, soprattutto quelli meno moderati, nell’università, all’inizio del 500 la vita universitaria doveva essere molto simile a quella della Germania nazista. Infine, nel 529 Giustiniano chiude la scuola filosofica di Atene, e vieta l’istruzione ad eretici, pagani ed ebrei. I cristiani spesso e volentieri bruciavano e condannavano i libri pagani al rogo, e con la sospensione dei sussidi statali agli insegnanti le sole città in cui viene ancora impartita un’istruzione universitaria sono Beirut, Alessandria e Costantinopoli. Il panorama culturale bizantino dopo la chiusura dell’accademia e con il crollo delle città è sempre più ristretto attorno a grandi poli. Tutto ciò che restò nelle province, fu l’insegnamento elementare. La rinascita degli studi letterali nella capitale iniziò alla fine del VIII secolo, ed in questo periodo fu introdotto un importante sviluppo tecnico, ovvero l’uso del minuscolo al posto della maiuscola per la produzione libraria; non si dovette inventare un nuovo carattere, ma fu usato il carattere per i trattati notarili e commerciali. Questo fu necessario soprattutto per la mancanza via via crescente di papiro, proveniente da Alessandria, ora conquistata dagli arabi, sostituito con la pergamena, più cara. Nel corso del IX secolo a Costantinopoli rinacque un istituzione di insegnamento superiore finanziato dallo stato, anche se era ben diversa da quella del 425: mancavano gli studi di legge ed il latino, e, più che produrre efficienti menti, produceva tecnici specializzati di cui lo stato poteva usufruire. Dagli imperatori iconoclasti così si arriva all’impero di Costantino VII porfirogenito, che instaura una vera e propria scuola di palazzo, e fra gli studenti più brillanti vengono scelti i ministri, così la cultura rientra nelle alte sfere dell’impero e non è più un privilegio della chiesa, come invece era ancora, salvo rarissime eccezioni, nell’Europa occidentale del periodo. Invece all’inizio del X secolo la scuola rinasce nel suo splendore e viene nominato una specie di sovrintendente scolastico, che sorvegliava l’operato di tutti gli istituti di insegnamento superiori per conto dell’imperatore. Le materie insegnate erano quelle del repertorio del grammatico: il greco attico, la lirica, la retorica e la prosodica. Dopo la morte di Costantino VII, per lungo tempo non si fece più nulla per migliorare l’istruzione pubblica che andò sempre più peggiorando. Il programma fu ripreso da Costantino IX, in uno spirito assai diverso. L’undicesimo secolo infatti fu caratterizzato dalla nascita della borghesia; questo periodo fu caratterizzato dalla nascita di una scuola di legge a patrocinio statale, mentre le scuole secondarie sono sempre più legate alla chiesa, come le masada nel mondo musulmano. Tuttavia, questo secolo non fu importante per le sue innovazioni, quanto maggiormente per per i suio letterati, e fra tutti emerge Psello, un tuttologo che compose diversi trattati, non famoso per la sua modestia. Il suo successore, Giovanni Italo, si potrebbe accostare a Socrate: come lui fu accusato di corruzione dei giovani, che introduce le dottrine cosmologiche dei pagani, ammette il carattere reale delle idee di Platone e mette in dubbio i miracoli dei santi. Dopo questo processo, la chiesa ortodossa compie una svolta decisiva, assumendo il diretto controllo dell’istruzione, almeno per gli indirizzi ecclesiastici. Conosciamo parecchi insegnanti della scuola patriarcale, che dominò nel campo dell’istruzione fino al 1204. Nel dodicesimo secolo, scoppiò una grande disputa fra l’istruzione laica e l’istruzione religiosa, che differiva di una sola materia: la filosofia. Bisanzio ed il suo impero rimasero senza insegnanti di filosofia finché fu un patriarca, Michele, a ricoprire il posto. Il tutto si doveva a Giovanni Italo, infatti precedentemente l’insegnamento filosofico era intermittente ed innocuo; solo con l’undicesimo secolo, con l’insorgenza di uno spirito secolare, la filosofia dovette essere soppressa. Nei secoli successivi e fino alla caduta, l’istruzione restò confinata ai modelli tradizionali, sopra elencati; è interessante notare che dal settimo secolo stava sparendo la separazione tra livello secondario e superire dell’istruzione, salvo qualche raro caso isolato. Le sole tradizioni che rimasero costanti nella capitale furono l’attività dei grammatici e l’insegnamento nella corporazione notarile. Ciò che è più evidente è l’aspetto conservatore dell’insegnamento, infatti spesso le critiche vengono fatti sui miti e sugli autori dell’età classica, basata soprattutto sulla forma e l’eleganza dello stile: da qui l’aggettivo bizantino anche per definire testi molto elaborati e raffinati dal punto di vista lessicale e sintattico. L’istruzione monacale, a differenza dell’occidente, che fu una fase molto importante di trasmissione dei testi e di cultura, in oriente fu quasi del tutto assente, e non andava oltre l’istruzione elementare, e per evitare lo scoglio della lettura testi come la Bibbia ed il Vangelo erano imparati a memoria. L’istruzione di laici nei monasteri, cosa ritenuta normale in occidente, oltre che quasi unico mezzo di acculturazione, prima della nascita dell’università, in oriente era scoraggiata e considerata inopportuna già da san Basilio e venne scoraggiata per tutta l’età bizantina.

[modifica] L’istruzione nella Costantinopoli Ottomana

Fino ai sette anni è la madre ad occuparsi del figlio nell’harem, preoccupandosi di insegnarli il rispetto per la famiglia e le buone maniere. Dai cinque anni gli vengono insegnate le preghiere. Il maschio è oggetto di più attenzioni rispetto alla femmina, e si tende a soddisfare ogni suo capriccio, da qui la visione del maschio musulmano che crede che le donne siano tutte al suo servizio. Le figlie godono meno attenzione e dai nove-dieci anni si velano e vivono come le donne adulte. Nelle famiglie più povere solitamente l’insegnamento femminile non va oltre la recitazione delle preghiere, mentre nelle famiglie più ricche le bambine vengono istruite in canto e nella recitazione dei poemi. Difficilmente si può parlare di donne musulmane di eccezionale cultura, anzi, il fatto di saper leggere e scrivere era già una cosa fuori dalla norma. A seconda della famiglia a cui appartiene, il maschio riceve un diverso grado di istruzione. Se il padre è artigiano, lo aiuterà nel mestiere, mentre se fa parte della borghesia stambuloita, riceverà una cultura più o meno lunga. Se non ha la possibilità di avere un precettore privato, frequenta la scuola di base nel suo quartiere, che è situata vicino alla moschea. Il maestro spesso non sa altro che leggere e scrivere il Corano, ma non gli viene richiesto di insegnare altro; l’insegnamento è più rivolto a sviluppare la memoria che l’intelligenza: il maestro fa imparare a memoria versetti del Corano, a scrivere in lettere arabe e, dopo che le hanno apprese, a scrivere i versetti del Corano memorizzati. L’insegnamento elementare del Corano termina con le preghiere ed i gesti di prosternazione che le accompagnano. Se il maestro è un po’ più colto, insegna anche ai suoi allievi qualche rudimento di grammatica, di letteratura popolare e di calcolo, ma solitamente i genitori ritengono sufficiente l’apprendimento del Corano e saper leggere e scrivere. Da questo ne consegue che i ragazzi che frequentano queste scuole non apprendono altro che i rudimenti della religione. Anche il saper scrivere il Corano è inutile, siccome l’arabo non è adatto alla scrittura del turco, che, benché abbia la stessa grafia, ha fonemi diversi e diversa grammatica. È simile alla situazione della scuola bizantina, in cui era insegnata la retorica in greco attico, lingua morta che con il greco parlato a Costantinopoli nel VII- XII secolo aveva in comune solo la grafia. Queste scuole non offrono, salvo rare eccezioni, un livello discreto di cultura. Le lezioni si tengono di mattino, salvo il venerdì, ma nel calendario ci sono varie festività laiche e religiose. Oltre alle scuole basilari, esistevano le medrese, scuole aperte ad allievi di ogni estrazione sociale, anche se spesso erano frequentate solo da ragazzi di buona famiglia, di origine probabilmente iranica. Le medrese servono anche da dormitori per gli alunni e assomigliano a dei collegi, ma spesso possono partecipare alla lezione anche membri esterni. Molti sultani fanno costruire varie medrese attorno alle moschee a loro dedicate a Costantinopoli, e fra questi istituti esisteva una gerarchia: la medrese più importante, a Costantinopoli, era quella di Bayezid, e seguivano quelle di Santa Sofia, Maometto il conquistatore e Solimano il Magnifico, fra le più importanti; in tutta Costantinopoli ve ne sono circa 65. L’insegnamento principale impartito nelle medrese è la lettura, il commento e l’interpretazione del Corano e delle tradizioni, secondo il rito hanefita, seguito dai turchi. Come libri di testo si usano testi di autori arabi, spesso tradotti in turco; un posto importante è riservato all’insegnamento della legge cranica, con lo scopo di formare nuovi cadì, in qualche misura amministratori e applicatori dei regolamenti imperiali. Le lezioni hanno per oggetto la logica o arte del ragionamento, la matematica, la geometria, l’astronomia, la musica, le scienze naturali, la medicina. L’insegnamento è impartito sotto forma di lettura di opere. Gli studenti devono imparare a memoria dei brani e copiare i passi principali dei grandi autori. Gli studi perseguiti vengono sanzionati, alla loro conclusione, da un esame sostenuto oralmente. Sono numerosi quelli che si perdono per strada, spesso perché sprovvisti di mezzi, ma quelli che continuano costituiscono un élite spesso reclutata in un ambiente chiuso dell’alta borghesia stambuloita. L’insegnamento è così tradizionalista che non permette che nasca un rinnovamento culturale all’interno della società, che resta legata al passato ed ai pregiudizi; infatti si vede di malocchio il progresso, in ogni campo. Esistevano altri tipi di scuole, ad esempio quelle dei dervisci, anche se non era di sufficiente livello e molto simile a quella elementare. Riguardo ai gruppi appartenenti alle minoranze religiose, l’insegnamento è affidato ai preti ed ai rabbini, ma ad un numero molto ristretto di bambini, alcuni dei quali sono destinati alle scuole talmudiche ed ai seminari per diventare rabbini o preti.

In generale, l’istruzione della gioventù nell’impero bizantino quanto in quello ottomano è molto simile: infatti non soddisfa il bisogno di funzionari istruiti necessari allo stato, ma offre un’istruzione basata sulla saggezza antica così da ritenere ogni innovazione come qualcosa di diabolico. Inoltre entrambi i modelli sono molto legati alla religione principale, e la mancanza di una cultura laica è forse stato il peggior difetto per l’efficienza di questi due imperi orientali.

[modifica] Il mondo concettuale di Bisanzio: gli angeli, i demoni, il mondo invisibile del bene e del male

Dato che i bizantini erano cristiani, non può non esserci nota la loro concezione di questo mondo superiore, almeno per sommi capi; a livello popolare i bizantini immaginano che Dio ed il regno dei cieli fosse una replica su grande scala della corte imperiale costantinopolitana, e ciò spiega molte manifestazioni della religiosità bizantina. Il regno è ottimamente descritto dal monaco Cosma, ciambellano dell’imperatore Alessandro (912-913) (v. allegato I). Cosma fu ciambellano prima che monaco, e questo può spiegare perché la descrizione del palazzo celeste è così vivida: la sola differenza è che in paradiso tutto è molto più grande e più splendido. Il seguito di Dio era costituito anzitutto dalle schiere angeliche che in linea teorica erano rigorosamente stratificate e differenziate. Gli angeli fungevano anche da emissari speciali, come facevano sulla terra i Magistriani; inoltre formavano il cubiculum celeste, ovvero il corpo dei ciambellani. I bizantini avevano sufficiente familiarità con cherubini e serafini, che erano sovente invocati nella liturgia; quanto agli arcangeli, soltanto due, Michele e Gabriele, avevano un posto sicuro nella devozione; quanto agli altri, compaiono soprattutto in incantesimi legati all’occulto. San Michele in oltre era il comandante in capo (archistrategos) delle schiere celesti. In merito alla natura degli angeli si sostenevano due opinioni: la prima e forse più antica era che gli angeli non fossero puro spirito ma consistessero di una materia finissima, visibile solo a uomini di particolare santità, tuttavia l’opinione più diffusa era che gli angeli fossero immateriali ma capaci di assumere forma corporea, solitamente nelle sembianze di giovani eunuchi. Tutto questo è perfettamente sensato: gli angeli, esseri asessuati che agiscono come attendenti a Dio, avevano il loro più prossimo corrispondente terreno negli eunuchi del palazzo imperiale. Inoltre la mentalità bizantina non vedeva incongruenza alcuna in un eunuco che occupasse la posizione di comandante militare perché questa era pratica comune: ad esempio, Nareste. Oltre agli angeli, la corte di Dio comprendeva anche i santi. Un posto sempre rilevantissimo occupavano Maria e San Giovanni Battista, e sarebbe superfluo diffondersi sul primato della Vergine Maria nel pantheon cristiano; per i bizantini poi aveva un ruolo particolarmente importante perché era patrona e protettrice di Costantinopoli. Eccetto san Giovanni Battista, i profeti, i sacerdoti, i patriarchi dell’Antico Testamento ebbero un ruolo minore nella devozione bizantina. Tra i santi del Nuovo Testamento, gli apostoli erano al vertice della gerarchia. Diversa dalla mentalità moderna, la mentalità medioevale non provava interesse per la storicità dei santi: ciò che contava era l’esistenza di un culto locale che forniva al santo una base di potere. Il carattere vago del santo non costituiva un ostacolo per il suo ruolo, era semmai un vantaggio: così gli si potevano attribuire tutte le virtù immaginabili, il che non sarebbe potuto essere stato possibile se egli avesse posseduto una personalità storica ben precisa. Il bizantino medio credeva che ciascun santo risiedesse soprattutto nella sua chiesa principale, ed in secondo luogo in tutte le altre a lui dedicate. Si riteneva che il santo avesse collegamento diretto con l’autorità celeste. Il termine chiave è parrhesia. In greco antico significava libertà di parola, ma in età bizantina assunse una diversa gamma di valori, fra cui accesso che il signore concede al cortigiano favorito; analogamente il santo aveva parrhesia al cospetto di Dio e poteva così ottenere favori per i suoi clienti. Strette in una lotta ancorché impari con le forze del bene erano le forze delle tenebre, le innumerevoli schiere di demoni. Sarebbe un errore trascurarle quali semplici prodotti di superstizione, indegni della considerazione dello storico. I demoni erano una realtà, per l’uomo bizantino, ed egli interpretava tutta la sua vita quale terreno di battaglia fra le forze del bene del male. Nella categoria dei demoni i bizantini comprendevano una grande varietà di spiriti, ciascuno dei quali aveva una propria funzione ed ubicazione ben precisa. Al livello più primitivo troviamo gli spiriti maligni della natura, che è difficile far rientrare nella concezione del mondo cristiana; demoni si celavano nei luoghi deserti, demoni erano appostati là dove si guadavano fiumi e torrenti: particolarmente numerosi erano sottoterra. Chi usciva di casa dopo fatto buio correva il rischio di venir posseduto. Uno scavo intrapreso senza cautele, soprattutto in un sito segnato da resti di antichità pagana, poteva mettere in libertà una moltitudine di demoni che poi avrebbero preso possesso di esseri umani e animali da fattoria; spesso i demoni prendevano forma di lupi ed altre bestie feroci. In tutte le leggende del periodo, possiamo in primo luogo notare il forte sentimento locale dimostrato dai demoni: quelli di un luogo si trovavano spesso contro quelli di un’altra regione, e si rifiutavano di essere confinati nelle terre che non erano di loro appartenenza. In secondo luogo i demoni erano legati alle reminescenze del paganesimo antico. L’identificazione dei pagani = demoni è un luogo comune del pensiero cristiano antico, forse perché le campagne erano coperte di resti greco-romani raffiguranti bestie leggendarie che per l’aspetto si avvicinavano molto ai demoni cristiani. I demoni erano sempre pronti a penetrare nei corpi degli esseri umani e degli animali domestici, e solo l’esorcista poteva dare aiuto, ed i suoi metodi non erano teneri. Spesso doveva colpire al petto il paziente o scagliarlo a terra e pestargli il collo, finché l’esorcizzato non sputava sangue: quello era il segno che l’esorcismo aveva portato buoni risultati. Oltre ai demoni minori, c’era anche la categoria degli ufficiali (la gerarchia demoniaca è simile a quella angelica), con funzioni specializzate: fra questi, i più sovente citati sono il demone dell’accidia, quello della fornicazione e quello della noia.Il demone della sonnolenza si preoccupava, ad esempio, di far addormentare i fedeli che assistevano alla celebrazione liturgica in chiesa. Diversamente dal Satana di Milton, il diavolo dei bizantini non era fiero e ribelle: al contrario, era messo piuttosto male, come del resto lo immaginava anche Dostoevskij. Di solito assumeva le sembianze di un negro di bassa statura, oppure di serpente, di cane nero, di corvo o di scimmia, come un mercante arabo o una vecchia. Era codardo e bugiardo ed emanava cattivo odore, e come scrivevano i monaci, la cosa che gli riusciva meglio era suggerire pensieri sconci o un senso di noia. Spessissimo avanzava predizioni. La vita sulla terra veniva vissuta su due livelli: il visibile e l’invisibile: quest’ultimo era di gran lunga più significativo. I comuni mortali, a differenza dei santi, non erano a conoscenza della disputa che continuamente si combatteva per la loro salvezza. L’atto finale della disputa era al momento della morte di ogni uomo e poco dopo: quando un mortale stava per esalare l’ultimo respiro una moltitudine di demoni accorreva al suo capezzale sperando di entrare in possesso della sua anima; a costoro si opponeva l’angelo custode individuale. Una volta che l’anima si era dipartita dal corpo doveva viaggiare nell’aria e fermarsi ad un certo numero di telònia occupati dai demoni che ne esaminavano il comportamento in terra. All’anima era consentito di procedere solo dietro pagamento di adeguata tassa calcolata in opere buone; altrimenti veniva catturata all’istante. Stando alla tradizione del decimo secolo, c’erano ventuno telònia, ciascuna rappresentando uno dei seguenti peccati: maldicenza, violenza carnale, invidia, menzogna, ira, superbia, vaniloquio, usura mista a frode, accidia mista a vanità, avarizia, ubriachezza, rancore, stregoneria, gola, idolatria ed eresia, omosessualità maschile e femminile, adulterio, omicidio, furto, fornicazione e spietatezza. Per meglio comprendere la società dell’epoca, ci viene detto che la maggior parte dei bizantini non superava il telònion dell’adulterio e della fornicazione. Particolarmente notevole è che i demoni responsabili dei gabellino avevano registri assai dettagliati, dove ogni specifica trasgressione era annotata con la data precisa ed i nomi dei testimoni. Le voci venivano cancellate dal registro solo dietro piena espiazione del peccato in terra e confessione. Il carico della burocrazia imperiale e la paura dell’esattore delle tasse non avrebbero potuto trovare rappresentazione più vivida. La chiesa ufficiale tuttavia approvò mai questa bizzarra nozione. Il destino dell’anima dopo la morte prima del giudizio universale era questione in sospeso. Le preghiere per i defunti e le offerte portate in chiesa in giorni prestabiliti supponevano la possibilità di modificare o almeno alleviare il verdetto. Il primo patriarca dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi nel 1453 disse che dopo la morte le anime giuste andavano in paradiso, e quelle cattive all’inferno. Per quelle che erano una via di mezzo, una specie di purgatorio, in attesa del paradiso o i telònia, non intesi però come un passaggio diretto dell’anima per i telònia, quanto uno smistamento continuo che servisse a purificare l’anima. Il ruolo dei demoni era quello di portarsi via le anime ritenute indegne del regno dei cieli. Divise in classi dopo lo smistamento, le anime aspettavano il giudizio universale che era tanto simile ad una sorta di grande corteo imperiale, nel corso del quale le sentenze già in essere diventavano permanenti.


[modifica] Il governo e l’imperatore nel mondo greco-bizantino

Come l’universo è governato monarchicamente da Dio, così il genere umano è governato dall’imperatore romano. Dio non si limitò a disporre l’esistenza dell’impero, egli scelse anche ogni singolo imperatore, e questa è la spiegazione alla mancanza di regole umane formulata per la sua elezione. Le alternative al legittimo potere erano l’usurpazione, o tirannide e l’anarchia. Il tiranno era una persona che cercava di diventare imperatore in opposizione alla volontà di Dio e necessariamente falliva; ma se riusciva nel suo intento allora Dio era dalla sua parte e quegli pertanto cessava di essere usurpatore. L’assenza di un’unica autorità ovvero il governo della massa, equivaleva alla confusione. Proprio per questo è evidente che la vita civile bizantina si basava sulla preponderanza del forte governo centrale. A parte la ribellione, non c’era contrappeso effettivo a tale potere se non nel ritardo, nell’inefficienza, nella corruzione o semplicemente nella distanza. L’autorità imperiale non conosceva limiti che non fossero quelli imposte dalla legge divina. L’imperatore era un uomo che abitava nel palazzo imperiale di Costantinopoli, lungi dallo sguardo del pubblico e circondato dalla sua corte. Egli doveva tale posizione a un principio ereditario, non formulato ma generalmente rispettato; in alternativa, poteva essere stato unito al trono dal suo predecessore o scelto da un gruppo influente; oppure doveva il suo trono a una ribellione riuscita. Visto che l’uomo diventava imperatore per volontà divina, l’elezione dal V secolo era confermata con l’incoronazione religiosa del Patriarca di Costantinopoli, che solitamente si svolgeva pubblicamente in Santa Sofia. Dio governava l’umanità con il bastone e la carota. Del pari l’imperatore governa i suoi sudditi con il terrore, ed anche gli innocenti lo servono tremando. È preferibile per l’imperatore governare su sudditi ben disposti nei suoi confronti; per ottenere ciò egli deve manifestare certe qualità che sono condivise anche da Dio. Deve amare il prossimo, farsi amare esercitando la beneficenza, essere capace di autocontrollo e di circospezione ma anche risoluto nell’agire e lento nell’adirarsi. Il suo ornamento più grande è pertanto la pietà. Egli è, per definizione, fedele di Cristo e amante di Cristo: attributi questi, espressi nella sua titolatura, come anche il suo carattere vittorioso, poiché la vittoria gli era concessa a premio della sua pietà. L’imperatore era santo e nei ritratti rappresentato con l’aureola; inoltre era Isapostolos, uguale agli Apostoli, per indicare la sua vicinanza a Cristo.del pari sacro era il suo palazzo, una domus divina circondata da una zona protettiva che stava a sé. Le sue rappresentazioni in pubblico erano regolate da un cerimoniale che rifletteva l’armonioso lavorio dell’universo ed era esso stesso sinonimo di ordine. I suoi sudditi comunicavano per lui attraverso acclamazioni che erano ritmiche e ripetitive come nella liturgia e al suo cospetto si prostravano al suolo. L’imperatore era anche sacerdote, e nei vari secoli non si tracciò mai una precisa distinzione fra imperio e sacerdozio; ciò che è certo, è che l’imperatore non celebrò mai l’eucaristia e non praticava il celibato (tutt’altro…), ma venne considerato quale responsabile ultimo del compito di mantenere la purezza della fede. In teoria l’imperatore governava su tutti gli ortodossi. L’esistenza di sovrani pagani non contravveniva a questo postulato, poiché non conoscendo la vera fede, erano al di fuori della sfera di influenza divina; se però abbracciavano l’ortodossia allora ipso facto dovevano riconoscere che l’autorità ultima era l’imperatore, cosa che nei secoli fu sempre mantenuta come prerogativa religiosa, ma venendo meno la forza militare dell’impero, era trasgredita sempre più. Subito dopo l’imperatore ed il patriarca, massima carica religiosa nell’impero, la cui posizione era simile al papa, ma a differenza di quello, non era unico (infatti, oltre che a Costantinopoli, risiedeva un patriarca a Gerusalemme, ad Antiochia ed a Roma, il Papa, che pretendeva, in quanto successore di san Pietro, di essere il più importante; tuttavia, il patriarca di Costantinopoli era il più importante.), venivano per l’autorità civile i magistrati o arconti e per l’autorità ecclesiastica i vescovi: qualsiasi fossero state le circostanze della sua elezione, non poteva reggere tutto l’impero da solo, quindi si affidava a dei ministri, scelti secondo i suoi desideri e gli effettivi poteri che esercitavano non erano espressi dai loro titoli. Alcuni imperatori assunsero un ruolo preponderante nella gestione dello stato; ad altri bastò affidarla a un parente oppure a uno o più ufficiali. Ma qual era la massima carica dopo l’imperatore? Veramente nell’ordine di potere seguivano gli arconti? Inizialmente, l’esercito prendeva le decisioni ed aveva il compito di governare civilmente assieme all’imperatore, tanto che era legge che si dovesse deporre l’imperatore sconfitto in battaglia. In ogni caso, sembra più corretto parlare di governo da parte del palazzo imperiale, più che da parte dell’imperatore stesso. È vero che la società che aveva a capo l’imperatore doveva essere governata dal concetto di ordine, e chi meglio dei militari esprimeva questo “ordine”? per aiutarci, giungono notizie dal VI secolo: la classificazione sociale è più complessa e meglio articolata. Dopo l’imperatore, in scala dal più importante al meno importante, venivano il clero, la classe giudiziaria, i consiglieri, gli addetti alla finanza, i professionisti, i commercianti, gli addetti al moderno “settore primario”, i servi, gli inutili e per ultimi gli addetti ai divertimenti (solitamente provenivano da zone ai margini dell’impero, se non esterne all’impero: nessun romano avrebbe suonato, ballato e cantato: quella era roba da greci.) In generale, ogni servizio reso all’impero era chiamato strateia, fosse quello sia politico che militare. L’esercito costituiva qui il gruppo più ampio. L’amministrazione delle province era commessa ai prefetti del pretorio, privati della loro precedente competenza militare; da essi si discendeva ai vicarii delle diocesi e ai governatori delle province, analogamente a Roma. Alcuni storici hanno sostenuto che il tardo impero romano sia stato strangolato dalla burocrazia, eppure, almeno secondo gli standard moderni, il numero era assai ridotto. Fra i burocrati, emerge la figura dei magistrati. L’autorità dell’imperatore si trasmetteva ai magistrati, che esso stesso designava, intendendo con magistrato o arconte quell’uomo insignito di responsabilità di comando, civile, militare ed in qualche caso anche ecclesiastico. Le città sbrigavano i loro affari grazie ai consigli municipali, composti dai più importanti proprietari terrieri, chiamati di solito decurioni: questi costituivano una classe piuttosto numerosa. I membri della classe dei decurioni formavano l’élite intellettuale dell’impero, si dedicavano alle professioni liberali, occupavano i livelli più alti della gerarchia ecclesiastica. Lo stato di declino della piccola nobiltà municipale portò all concentrazione nelle mani di pochi di gran parti del territorio imperiale. Dal punto di vista legale tutti i proprietari terrieri la cui proprietà era stata ratificata erano tenuti al servizio nei consigli municipali, ed erano responsabili per tutte le opere cittadine. La posizione del clero e particolarmente dei vescovi nello schema della vita ideale comportava oneri ed onori. Suo compito era istruire il suo gregge e proteggere i poveri, siccome era servo di tutti, doveva essere umile; poiché tutti potevano vedere le sue mancanze, la vita che doveva condurre doveva essere senza macchia. Doveva avere pazienza, esperienza e vigilanza. Nel primo periodo bizantino la Chiesa divenne estremamente ricca. Oltre a ricevere un sussidio dallo Stato, possedeva una dotazione permanente sotto forma di terre e di proprietà commerciali nei centri urbani. Vista la ricchezza dei preti e delle chiese orientali, non è illogico che molti aspirassero ad entrare sotto la protezione di santa madre chiesa, sperando, magari, di fare anche carriera.


[modifica] Imperatore e governo nell’impero ottomano

Subito dopo la presa di Costantinopoli, il sultano elesse un gran visir per ristabilire l’ordine nella città, nominò un nuovo patriarca per la comunità greca della città e fece sì che molti si trasferissero ad Istanbul. Istanbul: questo era il nuovo nome di Costantinopoli, che alla lettera non significa nulla, infatti è una storpiatura fra il motto “” che gridavano i soldati greci (e significava verso la città) e l’espressione turca “islambolin”, pieno di fedeli. Per molto tempo, i sudditi greci acclamarono il sultano non come padisha, pascià, ma come il titolo dei suoi predecessori imperatori di Bisanzio, in quanto riconoscevano nel conquistatore e nei suoi successori le stesse caratteristiche che caratterizzavano l’imperatore bizantino: valore, forza, risolutezza; inoltre partecipava alle campagne militari. Molti ortodossi passarono alla fede islamica, non per le pressioni turche, ma per i vantaggi che si avevano a credere nel Profeta e nel Corano: si pagavano meno tasse e si poteva aspirare a delle cariche politiche. Per i non conversi, nessuna tortura o ghettizzazione: erano liberi di professare alla luce del sole la loro religione, dovevano solo pagare una tassa, comunque decisamente inferiore a quelle imposte dall’impero bizantino. Così come nell’impero bizantino, la maggior parte dei poteri era accentrata nelle mani del sultano, che possedeva dopo la conquista dell’Egitto anche un potere religioso, in quanto aveva ottenuto il titolo di califfo Abbaside, o di discendente del Profeta. Il sultano, poi, a sua discrezione concedeva le cariche ai suoi funzionari ed al suo primo ministro, il gran visir. Per i suoi sudditi, il sultano era l’incontestato padrone dell’impero, colui che non solo aveva saputo imporre la sua autorità a tutti i musulmani ortodossi, ma anche coli che aveva sgominato gli infedeli e imposto la legge dell’islam a gran parte dell’Europa: così avrebbe risposto un suddito di Solimano il magnifico alla domanda “chi è il sultano?”. Il sultano altro non era che il capo politico dello stato turco, che aveva la sua residenza a Costantinopoli e in altri palazzi sul Bosforo. Come dice lo stesso Solimano di sé stesso in una lettera e Francesco I di Francia, il sultano è l’ombra di dio in terra, sultano dei Rum, califfo d’Egitto …(allegato 2), ed in quanto califfo d’Egitto, dopo l’eliminazione dell’ultimo califfo della dinastia degli Abbasidi. È a capo della comunità musulmana sunnita, e per questo titolo personaggio quasi sacro, fatto oggetto della venerazione popolare, se il sultano ne è degno. In linea di principio, è il membro più anziano della famiglia che alla morte del sultano ottiene il trono. Solitamente, per la gran confusione che produceva avere un numero indeterminato di mogli, che portava ad avere un numero elevato di pretendenti al trono, alla morte del sultano segue un periodo di stato d’allerta, poiché potrebbe scoppiare una guerra civile da un momento ad un altro. Grazie alla legge del fratricidio, promulgata da Maometto II, il sultano poteva, dopo essersi insediato sul trono ed aver consultato gli ulema, i giudici religiosi, far strangolare gli altri pretendenti al trono di Othman. Questa pratica era già stata applicata, anche se in modo non ufficiale, sia dagli imperatori costantinopolitani che dagli arabi. Bisogna cercare le cause di questa legge nel fatto che per un ottomano era una preoccupazione maggiore perdere una provincia per la ribellione dei principi pretendenti al trono che perdere un membro di famiglia; questa legge comunque ebbe un grande risultato, infatti l’impero non ha mai conosciuto né secessioni né divisioni, a differenza di altri grandi imperi dell’Europa occidentale, per esempio quello carolingio, divisi alla morte del sovrano tra i figli, o la Borgogna che, benché fosse parte della Francia, si alleò, nella guerra dei cent’anni, con il nemico inglese. Il sultano può contare sull’appoggio dei giannizzieri, ai quali, per un’antica tradizione, offre il dono del fausto avvento al suo avvento al trono, cioè regalie in natura. A partire da questo momento può dedicarsi ai piaceri o alle attività preferite, oltre alle operazioni militari alle quali partecipano personalmente, il governo dell’impero, ma al tempo stesso la poesia e il fasto delle costruzioni . Una distinzione molto netta si potrebbe operare fra i sultani del XVI secolo e quelli del XVII secolo: i primi sono uomini di azione, che hanno compreso il compito che hanno assunto quanto sono saliti al trono e votati all’interesse del sultanato, dirigendo personalmente gli affari di stato, politici, militari ed amministrativi, rendendo Istanbul il centro direttivo dinamico dell’impero. I secondi invece sono molli, senza iniziativa e volontà, spesso dominati dalle donne, mogli, sultane valide, le regine madri occidentali, favorite e talvolta dai favoriti. Si rinchiudono nel loro palazzo di Istanbul, abbandonando gli affari di stato in mano ai favoriti o ai ministri nominati dalle valide, spendendo per soddisfare le loro bramosie di lusso. Il sultano è il capo supremo dell’impero. Proclamato subito dopo la morte del suo predecessore, rivestito dalle insegne del potere, il nuovo sultano entra nella moschea di Eyüp, dove cinge la spada, simbolo del potere politico religioso, quindi riceve l’omaggio dei principali dignitari dell’impero, che possono essere confermati, cambiati di carica o sostituiti, quindi elegge la sua residenza nel serraglio di Istanbul, dove si trasferisce con il suo harem, mentre l’harem del precedente sultano è trasferito nel vecchio serraglio, presso la moschea di Solimano. Nel suo palazzo è circondato da una casa civile e militare, e da un congruo numero di paggi, servitori e schiavi. Sulle decisioni di governo, la prima che deve prendere è quella di mantenere o sostituire il gran visir in carica, poiché dall’operato del gran visir, una sorta di primo ministro, dipende il buon funzionamento dell’impero. Rappresentante di Dio in terra, il sultano è il padrone assoluto dei suoi sudditi che sono, teoricamente, i suoi schiavi. In modo particolare gli sono sottomessi i funzionari di palazzo e i quadri dell’esercito, i quali portano il nome generico di kapikullari, schiavi della Porta, termine che designa praticamente i funzionari civili e militari dell’impero, ovvero gli ufficiali, i paggi e i servitori del sultano, i rappresentanti delle alte cariche amministrative e provinciali, infine tutti i militari, giannizzeri, spahi…essi sono totalmente dipendenti dall’arbitrio del sultano che tiene in mano il loro destino, nel bene e nel male, ed è notorio che quando si ha a che fare con principi lunatici o influenzabili, la situazione di un uomo si fa e si disfa in un battibaleno. Per arrivare a gravitare nell’orbita del sultano, si può beneficiare della situazione paterna, e se il padre è ben inserito a corte, non è difficile far entrare il figlio nel corpo dei paggi e dei funzionari del serraglio; il nepotismo nobiliare però non fu un fenomeno molto prospero nell’impero, poiché i nuovi padroni non avevano un senso della nobiltà come era intesa in Europa occidentale, ovvero quello di casta privilegiata e detentrice delle primarie funzioni dello stato. Un’altra strada è il devşirme. Gli ottomani hanno utilizzato, per assicurarsi il regolare reclutamento di un esercito in fase di espansione questo sistema che ha profondamente turbatole coscienze cristiane ma che ha reso per un lungo periodo di tempo segnalati servizi ai turchi. Questo sistema consiste nel prelevamento annuale o biennale, in un certo numero di famiglie cristiane dei Balcani, di bambini al disotto dei cinque anni. Questi venivano inviati in Anatolia, presso famiglie musulmane dove vengono cresciuti alla musulmana, viene insegnato loro il turco e sono iniziali alle tradizioni islamiche e turche. A dieci o undici anni entrano negli istituti di formazione e da questo momento vengono denominati acemi oğlan. A seconda dell’attitudine vengono inviati nell’esercito o a palazzo, dove diventano paggi e vengono nominati ic oğlan. A seguire possono aumentare o diminuire di grado, e se riescono ad attirare l’attenzione del sultano, di una sultana o di qualche favorito nulla impedisce loro di aspirare al gran visirato. Questi soldati in generale sono molto fedeli, anche perché in tutta la loro vita non gli è stato insegnato altro che essere fedeli al sultano e questi non nutrono altra ambizione che dedicarsi al suo servizio. Se alla testa dell’impero c’è un buon sultano come Murad IV o Solimano il magnifico, questo sovrintende personalmente all’amministrazione dello stato e sceglie con discernimento i ministri e i comandanti dell’esercito, e la qualità del personale cresce in qualità, si è constatato che la quasi totalità del personale avanza per merito. Questa pratica di governo ha profondamente colpito gli osservatori europei, che la giudicano infinitamente più giusta dei sistemi occidentali. Ma un sistema come quello ottomano, per funzionare, necessita di sovrani energici. In qualsiasi caso si arrivi alle cariche, si è musulmani. Gli incarichi ufficiali sono appannaggio dei turchi musulmani e le minoranze non possono accedervi a meno che non si convertano all’islam. Questi funzionari però sono precari, il loro posto di lavoro è dovuto unicamente al sultano, che può sostituirli da un giorno all’altro, senza motivazione, volendo. Tra gli schiavi della Porta un certo numero vive nella ristretta cerchia del sultano: coloro che sono direttamente demandati al servizio della sua persona e del palazzo. Alcuni sono appartenenti all’ordine degli ulema, che non sono considerato sciavi e non provengono dalla devşirme, e gli ufficiali di palazzo, specificamente destinati alla persona del sultano. Fra di essi indichiamo il governatore del serraglio, responsabile della polizia interna del palazzo e delle residenze imperiali; il portastendardo, che ha ai suoi ordini gli ufficiali delle guardie e il corpo di musica imperiale; il grande scudiero, che ha al suo ordine migliaia di uomini: palafrenieri, scudieri, personale di scuderia, sellai, cammellieri; il capo degli uscieri, una sorta di maresciallo di corte. Seguono per importanza gli intendenti (degli edifici imperiali, del tesoro, della cucina, dell’orzo, della dispensa…) incaricati di garantire la vita materiale nel serraglio; a seguire, le guardie di palazzo, le guardie del corpo, le guardie dei principi, degli ufficiali… tutti questi danno vita a un mondo che vive grazie al fasto del sultano; la grandeur del sultano impone che egli sia circondato non da una corte all’occidentale, ma da un personale a lui devoto, avente la funzione di manifestarne la magnificenza e la potenza. Ai gradi più alti dell’amministrazione dello stato c’è una sorta di confusione fra amministrazione statale e amministrazione della capitale: certi alti funzionari dello stato sono anche amministratori civili, religiosi o militari metropolitani; e la sede della loro amministrazione è situata a Istanbul. Questi alti funzionari si riuniscono varie volte alla settimana nel consiglio del Divan che si tiene al serraglio. Vi partecipano regolarmente il gran visir, responsabile degli affari politici, militari ed amministrativi in generale; il responsabile di cancelleria, il nişhanci; i kadiasker di Anatolia e Rumelia, il defterdar, responsabile delle finanze dell’impero e il kapudan pascià, il grande ammiraglio. Le sedute sono presiedute dal gran visir; quanto al sultano, può assistervi dietro una piccola loggia mascherata da una griglia, e partecipare attivamente, come i grandi Solimano il magnifico e Selim I, mentre nel XVII secolo, i sultani si sono disinteressati del Divan, ad eccezione di Murad IV, e hanno delegato al gran visir la totale responsabilità degli affari di stato. Sotto Maometto II e i suoi immediati successori, il Divano si riuniva tutti i giorni dopo la preghiera del mattino e rimaneva in seduta fino a mezzogiorno. A partire dalla metà del XVI secolo, da Solimano il Magnifico in poi, si riunisce solo quattro giorni alla settimana e, in caso eccezionale, cinque: il sabato, la domenica, il lunedì, il martedì. Nella riunione speciale del mercoledì il Divano, esclusi i kadiasker di Anatolia e Rumelia, nel governo nazionale si discutevano i problemi della vita metropolitana della città. Il gran visir, in turco visir azem, è il primo personaggio dell’impero. La designazione del visir non richiede particolari formalità: il sultano, di propria volontà, rimette a colui che nomina alla più alta carica dello Stato, il sigillo che ha ripreso dal precedente gran visir. Il gran visir ha una corte magnifica, pari quasi a quella del sultano, e nel XVII secolo esercitò un potere sicuramente maggiore rispetto a quello del sultano: i soldi per mantenere lo sfarzo gli provenivano dalle rendite dell’isola di Cipro, dallo stipendio statale e dalla vendita delle cariche. È facile capire perché nel giro di dodici anni e mezzo, fra il 1644 e il 1656, ci siano stati diciassette gran visir, visto che alla loro morte i loro beni entravano a far parte delle casse dello stato, prosciugate dall’eccessivo lusso richiesto dai sultani. In origine, i gran visir risiedevano nella loro dimora durante il loro ruolo; a partire dal XVI secolo questi dapprima risiedono in un palazzo privato, sia questo di propria proprietà o di un amico, situato vicino al serraglio, mentre dal 1654 si trasferiscono per tutta la durata della loro carica in un palazzo ufficiale che ricalchi lo stile di quello del sultano, quello appartenuto al gran visir Halil Pascià, in faccia a Alay Köşkü (padiglione delle feste), di cui ancora oggi è possibile vedere la monumentale porta esterna. È proprio quella porta che, chiamata dapprima Paşa kapisi (la porta dal Pascià) e più tardi Babi Âli (la Sublime porta), ha poi finito per dare il suo nome al palazzo del gran visir, e quindi al governo ottomano. Il nişanci è responsabile di tutto ciò che concerne la cancelleria, la redazione degli atti,… lo si potrebbe definire il segretario generale del governo. Deve possedere una certa cultura, è generalmente reclutato tra i grandi letterati usciti dalle medrese della capitale. Non appare spesso in pubblico, il suo è un lavoro dietro una scrivania, a differenza del defterdar. Il defterdar, o conservatore dei registri, è, di fatto, il grande tesoriere dell’impero. Il termine compare per la prima volta nel XV secolo, quando n’esisteva solo uno: il defterdar della Rumelia. Il gran tesoriere controlla tutti gli interventi dello stato in materia di finanze, riceve ogni sera un rapporto sulle operazioni del tesoro e presenta questi rapporti due o tre volte la settimana al gran visir. Nessuna somma può uscire dalle casse del tesoro senza la sua autorizzazione scritta e firmata. Non ha il diritto di occuparsi delle finanze private del sultano, in quanto sono gestite da un funzionario che ha la sola competenza di provvedere alle spese della corte e di percepire le rendite occasionali e i doni fatti al sultano. Oltre a questi personaggi particolarmente importanti per la condotta degli affari di stato, esistono dei visir che hanno l’ufficio di assistere il gran visir nell’espletamento delle sue varie mansioni e che seggono al Divano. Accanto a questi funzionari civili stanno le autorità religiose il cui peso è non poco rilevante: la principale autorità religiosa è il müfti di Istanbul, il primo dignitario religioso dell’impero che in questa qualità porta il titolo di şeyhülislâm. È lui che imprime alle leggi emanate dal sultano la loro applicabilità in un paese musulmano, che le garantisce conformi all’insegnamento del Corano. In subordinazione al müfti vengono i kadiasker in numero di due, uno per la Rumelia (la parte europea dell’impero) e uno per l’Anatolia (la parte asiatica dell’impero). Dirimono tutta la giurisdizione militare e vi nominano i rispettivi cadì. Partecipano alle sedute del Divan, ma non hanno praticamente giurisdizione a Costantinopoli, il cui cadì gode di una certa indipendenza. Il cadi di Istanbul, il primo giudice dell’impero dopo i kadiasker, è a questo titolo un dignitario di primaria importanza, e questa carica è molto ricercata in vista del fatto che il suo titolare, oltre a detenere una delle più invidiabili cariche della gerarchia giuridico-religiosa, può aspirare alla carica di kadiasker e persino a quella di şeyhülislâm, il che è avvenuto in più di un caso. Ma non esiste un grande impero senza un grande esercito. Il vero capo dell’esercito è il sultano, che partecipa ad ogni azione militare e dirige personalmente le spedizioni. L’esercito di terra è diviso in varie armate: fanteria, artiglieria, salmerie, armeria, cavalleria. La fanteria è indubbiamente l’arma più importante, ed è praticamente costituita dai giannizzeri, alla cui testa sta l’ağa dei giannizzeri. Il comandante di cavalleria, il sipahi ağa, ha un potere minore rispetto a quello dei giannizzeri. Il kapudan pascià, il grande ammiraglio, occupa un luogo equivalente a quello dell’ağa rispetto al corpo dei giannizzeri. Comanda non solo tutti marinai dell’impero, ma anche tutte le maestranze degli arsenali, ergastolani compresi.

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