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Ta'abbata Sharran - Wikipedia

Ta'abbata Sharran

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Taʾabbaṭa Sharran (in arabo تأبط شراً, "che si porta un male sotto il braccio") è il laqab di Thābit b. Jābir b. Sufyān, dei Banū Saʿd b. Fahm, sotto-tribù dei Qays ʿAylān.
Incluso con Shanfara (dei B. Azd), ʿAmr ibn al-Barrāq (dei B. Hamdān) e altri ancora fra i "predoni" ( ṣaʿālik ) del deserto - sorta di "poeti maledetti" dell'età preislamica - e tra i veloci "corridori" a piedi (a ciò probabilmente costretti dalla loro povertà), Taʾabbaṭa Sharran fu personaggio dotato di sprezzante coraggio e di rude quanto raffinata poesia, caratterizzata da una vivida e inusuale capacità espressiva.
Insieme ad Antar, Khufaf e Sulayk ibn al-Sulaka era annoverato anche fra i "corvi degli Arabi" ( ʿAghribāt al-ʿArab ), a causa del colorito scuro della pelle che, nel caso di Taʾabbaṭa Sharran, era dovuta al fatto che sua madre, dei Banū Kayn, era di pelle nera.

Circa il suo soprannome esistono diverse spiegazioni. La prima (con diverse varianti) parla del fatto che Taʾabbaṭa Sharran, al rimprovero della madre che lamentava di ricevere solo dagli altri suoi figli qualcosa da cuocere per il desinare, fosse tornato una volta a casa portando sotto braccio un montone indemoniato oppure un sacco riempito di vipere.
Un'altra spiegazione, più fascinosa e problematica, parla invece di un incontro di Taʾabbaṭa Sharran con una ghūl, il peggior tipo di jinn femmina, che si riteneva vivesse nel deserto, pronta ad uccidere i malcapitati viandanti.
Un'ultima spiegazione fa infine riferimento alla sua spada, apportatrice di morte, che il poeta usava portare nel suo fodero, sotto il suo braccio.

In un luogo chiamato Rahā Biṭān, nel territorio dei B. Hudhayl, Taʾabbaṭa Sharran si sarebbe dunque imbattuto in questa sorta di orco preislamico al femminile, e l'avrebbe uccisa quando essa avrebbe tentato di sbarrargli la via. Messosi poi il corpo sotto braccio, Taʾabbaṭa Sharran sarebbe tornato tra la sua gente e per ciò si sarebbe guadagnato il suo soprannome.

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«Chi andrà a raccontare ai prodi dei Fahm ciò che mi è capitato nella valle di Rahā Biṭān?
Che io vi ho lasciato la Ġūl, corrente per una deserta piana, liscia come un foglio di carta.
Le dissi: «Siamo ambedue dei viandanti sfiniti di stanchezza: lasciami andare in pace!»
Ma ella mi si avventò contro, e io le vibrai contro la mano armata d'una lama forbita del Yemen
La colpii senza esitare, ed essa cadde prostrata sulle mani e sul petto.
«Torna via!» disse; ed io «adagio, ferma lì! Io son uomo dal saldo cuore»
E non cessai di starle addosso, poggiato, per vedere alla luce del mattino in che cosa m'ero imbattuto.
Ed ecco due occhi in una testa orribile, come di gatto, con la lingua forcuta;
due gambe di rattratto, un dorso di cane, una veste striata di pelo o di vecchia pelle...»
(Trad. di Francesco Gabrieli, "Taʾabbaṭa Śarran, Śanfarà, Khalaf al-Aḥmar", in: Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei, ser. ottava (1946), Rendiconti, vol. I, pp. 45-46.)

Di tale episodio viene proposta un'altra versione:

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«... Una notte tenebrosa da un capo all'altro traversai, come la giovane donna infila dalla testa il giustacuore,
sinché l'alba sottentrò alle sue pieghe, lacerandone la veste notturna.
La passai a scrutare un fuoco di cui mi giunse il bagliore, e verso cui ora avanzai, ora mi trassi indietro.
E al mattino mi trovai vicina la Ġūl: o vicina mia, che paura facevi!
Le dissi di unirsi in amore con me, ma ella si rivoltò con viso terribile, inferocito.
E la testa della figlia dei Ginn volò via, al colpo d'un brando striato, che aveva logorato la tracolla.
Quando si smussa, io lo aguzzo sulla roccia, ed ha il filo tagliente senza che io gli faccia vedere mai il forbitore.
Per chi chiedesse dove stia la mia vicina, sappia che essa è lì, nel recesso della valle.
Sol che io voglio una cosa, vi pongo subito mano; quanto più, se dico, passo all'azione!»
(Trad. di F. Gabrieli, "Taʾabbaṭa Śarran, Śanfarà, Khalaf al-Aḥmar", art. cit., p. 46)

e ancora una variante ben differente, riportata da Masʿūdī[1]:

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«Quando fece giorno avevo la ġūl a me vicino
(e dissi): «Ehi tu! Quanto sei spaventosa».
Le chiesi (quindi) di concedermi i suoi favori ed ella si voltò
dalla mia parte completamente trasformata.
Se qualcuno mi chiedesse della mia compagna
risponderei che essa ha stabilito dimora fra le dune (del deserto)»
(Trad. di Claudio Lo Jacono, "Di alcune peculiarità dei ginn", in: Un ricordo che non si spegne,(Scritti... in memoria di Alessandro Bausani), Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1995, p. 194)

Il verbo impiegato per rendere la trasformazione della ġūl è "istaghala", che ha in effetti il significato di "incutere spavento", "tendere un'insidia" o "uccidere a tradimento" ma anche quello appunto della radicale trasformazione (caratteristica questa dei jinn) e quindi, nel caso, la possibilità di trasformarsi da essere spaventevole in essere maliardo, con cui il poeta avrebbe ben potuto intrattenere con piacere rapporti carnali, menandone poi "scandaloso" vanto con i suoi contribuli, in pieno accordo con la natura caratteriale del poeta, decisamente border line, rendendo tale versione assai più intrigante di quella tradotta da Gabrieli, da lui condotta dal testo del Kitāb al-Aghānī.[2].

Famoso un suo carme in memoria d'un cugino morto:

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«Ecco: io voglio offrire in dono la mia lode e mi volgo con essa al cugino mio leale e fedele, Shams ibn Mālik
sì che io commuova il suo cuore dinanzi alla tribù radunata, così come egli commosse il mio cuore col dono di nobili cammelli ben nutriti dalle foglie dell'arāk.
Pochi i suoi lamenti nei mali che lo colpiscono, molte le sue passioni, vari i suoi propositi e diverse le sue vie.
Percorre il giorno un deserto per giungere la sera ad un altro: cavalca solitario in groppa ai pericoli e alla desolazione.
Supera la corsa del vento da ogni parte che giunga con i suoi strappi e folate, ed avanza strenuo senza posa.
Quando anche un sonno gli ricucia gli occhi, mai non gli falla una guardia sicura nel cuore vigile e intrepido.
Fa dei suoi occhi la vedetta del suo cuore, pronto a trar dal fodero la spada polita e tagliente.
Quando lo muove dentro l'osso d'un avversario, lampeggiano i denti nelle fauci spalancate della Morte che ride.
Egli vede nel deserto desolato il più amico degli amici, e cammina per la sua via, là dove cammina sul suo capo la Madre degli astri risplendenti a grappoli per il cielo.»
(Dalla Ḥamāsa di Abū Tammām, trad. di Carlo Bernheimer.)

Per quanto riguarda il suo poema forse più noto, la qāfiyya[3], Francesco Gabrieli si diceva convinto della sua origine spuria e tardiva[4].

Suoi sembrano essere i precedenti versi, mentre dubbi egli solleva circa i seguenti, peraltro assai noti, che disegnano il tradizionale ricorso alla vendetta:

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«Nella gola montana di qua da Sal, c'è un ucciso il cui sangue non è corso invendicato.
Mi ha lasciato sulle spalle il peso della vendetta, e se n'è andato, ma le mie spalle possono ben portare quel peso.
Persegue in me la vendetta un nipote pronto alla zuffa, dall'inconcussa saldezza,
col capo chino trasudante veleno, come sputa veleno a capo chino la vipera maligna.

...
Mi è ormai lecito il vino che prima della vendetta mi era vietato[5] ed è ben tardato a tornar lecito!

Versamelo dunque, O Suwàd ibn Amr, ché il mio corpo è sfinito dopo che mio zio non è più
Ride la iena pei monti dei Hudhayl,[6] e vedi lo sciacallo per essi esultare,
e i vecchi uccelli da preda, fatti gonfi dal pasto, si trascinano su quei morti, e non riescono più a levarsi in volo.»
(Trad. di F. Gabrieli, La letteratura araba, Firenze, Sansoni, 1967, p. 50.)

Si dice che, come il amico e collega Shanfarā, Taʾabbaṭa Sharrān morisse di morte violenta, prologo logico e forse ambito dal poeta, inadatto a vivere una vita placida nell'impegnativo mondo dell'Arabia preislamica degli ultimi decenni del VI secolo e i primi del successivo secolo. Taʾabbaṭa Sharrān morì infatti a Ḥurayḍa o Rakhmān, nelle vicinanze del monte Numār, nel Ḥijāz sud-orientale[7], per mano dei tradizionali nemici B. Hudhayl. Il suo corpo (come d'altronde quello di Shanfarā) rimase insepolto, preda delle fiere della bādiya.

[modifica] Note

  1. Murūj al-dhahab wa maʿādin al-jawhar, ed. Muḥ. Muḥyī al-Dīn ʿAbd al-Ḥamīd, Beirut, Dār al-Maʿrifa, 1982, II, p. 155.
  2. XVIII, pp. 212-213
  3. Poema in rima "qaf" (la "k" enfatica).
  4. Cfr. "Taʾabbaṭa Śarran, Śanfarà, Khalaf al-Aḥmar", art. cit., pp. 49-50.
  5. Per voto fatto;
  6. Tribù tradizionale avversaria di quella del poeta
  7. F. Gabrieli, art. cit., p. 43.

[modifica] Voci collegate

[modifica] Bibliografia

  • Abū l-Faraǵ al-Iṣfahānī: Kitāb al-aghānī (Il libro dei canti), Beirut, Dār al-Kutub al-ʿIlmiyya, 1985.
  • G. Baur, "Der arabische Dichter und Held Thābit ben Giâbir von Fahm, genannt Taʾabbaṭa Śarrān, nach seinem leben und seinen Gedichten", in: ZDMG, X (1856), pp. 74-109.
  • Francesco Gabrieli, La letteratura araba, Firenze, Sansoni Accademia, 1967.
  • Reynold .A. Nicholson, A literary History of the Arabs, Londra, T. Fisher Unwin, 1923
  • H.A.R. Gibb, Arabic Literature, Arabs, Londra, Oxford University Press, H. Milford, 1926.
  • C. Pellat, Langue et littérature arabes, Parigi, Armand Colin, 1952.
  • Ţāhā Ḥusayn, Fī shiʿr al-jāhilī (Sulla poesia preislamica), Il Cairo, Dār al-Kutub al-Miṣriyya, 1926.
  • Carlo Bernheimer, L'Arabia antica e la sua poesia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1960.
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