Tu quoque Brute fili mi
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Tu quoque Brute fili mi (lett.: Anche tu, Bruto, figlio mio!) è un'espressione latina attribuita a Giulio Cesare.
Si narra che queste siano state le ultime parole da lui pronunciate, quando, in punto di morte (Idi di marzo del 44 a.C.), subendo le coltellate dei congiurati, riconobbe fra i volti dei suoi assassini quello di Marco Giunio Bruto.
L'esclamazione, in questa forma, non trova riscontro nella letteratura latina. Si tratta invece di una traduzione del greco: «Καì συ, τέκνον» (kai sy téknon, anche tu figlio), che sono le parole tramandataci da Svetonio (Caes. 82, 3) e Cassio Dione (Hist. Rom. 44, 19) e probabilmente costituiscono comunque un'aggiunta posteriore.
Occorre anche sottolineare che il termine filius non è da prendersi alla lettera. Bruto infatti non era figlio naturale di Cesare, né risulta che da lui fosse stato adottato. Il termine, piuttosto, dà l'idea della sorpresa provata da Cesare nel vedere fra i congiurati un suo prediletto, che tante volte aveva salvato da alcune accuse (e presumibili condanne), non soltanto per una stima profonda nei suoi confronti, ma anche per l'amore verso la madre di lui, Servilia.
[modifica] Curiosità
La frase rappresenta anche un buon trucco mnemonico per ricordare alcune regole della grammatica latina:
- la congiunzione quoque è sempre posposta;
- nella seconda declinazione i vocativi dei nomi propri terminanti al nominativo in -ǐus e i due nomi comuni filǐus e genǐus al vocativo singolare escono in -ī, anziché in -ie (quindi, Vergilǐus, voc. sing. Vergilī; filǐus, voc. sing. filī; genǐus, voc. sing. genī); i nomi in -īus, invece, seguono la regola generale: Darīus, voc. sing. Darīe;
- l'aggettivo possessivo meus al vocativo singolare fa mi.