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Giacomo Leopardi (opere) - Wikipedia

Giacomo Leopardi (opere)

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Voce principale: Giacomo Leopardi.

Seguire il percorso della produzione letteraria di Giacomo Leopardi, vuol dire seguire il corso della sua vita e comprendere il suo mondo interiore.

Per approfondire, vedi la voce Poetica di Leopardi.
Edizione delle Opere di Leopardi, Napoli 1835
Edizione delle Opere di Leopardi, Napoli 1835

Indice

[modifica] Le prime opere erudite: 1813 - 1816

Le opere che vanno dal 1813 al 1817 appartengono agli anni della sua prima formazione e presentano tutte un carattere erudito dovuto, come il poeta stesso dirà, a "Sette anni di studio matto e disperatissimo" basato su testi prevalentemente settecenteschi che si trovavano nella biblioteca paterna o in quelle di altre nobili famiglie di Recanati.

Sono assenti in queste prime opere i motivi più consistenti della tradizione italiana dal Trecento al Cinquecento e dominano i motivi più retorici ed esteriori della scuola arcadica, dal Frugoni al Monti.

Risalgono al 1812 le due tragedie, Pompeo in Egitto e la Virtù Indiana, dove spiccano, come scrive Natalino Sapegno[1] «certe note eroiche e sentimentali, di un eroismo disperato e senza oggetto».

Compone nel 1813 la Storia dell'Astronomia della quale è stata pubblicata solo una delle due redazioni esistenti, entrambi conservate presso palazzo Leopardi. Si tratta per la maggior parte di un'opera compilatoria che presenta alcuni tratti di originalità che l'hanno fatta molto apprezzare a Margherita Hack, che ne ha curato una edizione commentata.

Nel 1814 compone la prima opera di carattere filologico, il Porphyri de vita Plotini et ordine librorum ejus, che fornisce una edizione commentata e corretta dell'opera, riciclando la maggior parte del materiale dal Fabricius (Bibliotheca Graeca); opera questa che comunque attesta la prematura competenza filologica del giovane erudito, che apprese il greco senza maestri ed in pochissimo tempo, come attesta la nota del padre Monaldo apposta sul manoscritto.

Nello stesso anno scrive i Commentarii de vita et scriptis rhetorum quorundam qui secundo post Christum saeculo vel primo declinante vixerunt, splendida opera che raccoglie tutte le testimonianze ed i frammenti dei retori del periodo preso in esame. Un capitolo è dedicato alle opere superstiti, pochi frammenti di Frontone, che solo l'anno dopo verrà dato alle stampe da Angelo Mai.

È del 1815 l'Orazione agli italiani in occasione della liberazione del Piceno, scritta per la sconfitta di Murat e per il ritorno del dominio pontificio nelle Marche, dove il poeta richiama alla «virtù» antica dimostrando così di allontanarsi dal legittimismo reazionario del padre Monaldo, e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, ambedue documenti dello spirito razionalistico di certa cultura settecentesca, e Giulio Africano, opera che raccoglie e commenta tutte le testimonianze ed i frammenti di questo ignoto autore, la cui lettura era estremamente difficile, essendo il testo cosparso da una miriade di errori di trascrizione, che il Leopardi in gran parte individua e risolve. L'opera, che è stata attentamente analizzata da Timpanaro[2], viene dallo stesso definita la meno erudita delle opere leopardiane così dette filologiche.

Del 1816 è ancora un'opera a carattere filologico intitolata Discorso sopra la vita e le opere di Frontone.

[modifica] Primi passi verso la "conversione letteraria": 1816-1817

Tra il 1816 e il 1817 si assiste, da parte del poeta, a una nuova ricerca letteraria che sfocia in forme poetiche antiche come l'idillio funebre Le rimembranze, scritto nella primavera del '16, e l'Inno a Nettuno che finse di aver tradotto da un originale greco che affermava di aver trovato a Roma. L'inno verrà pubblicato nel 1917 insieme a due odi che egli scrisse direttamente in greco, le Odae adespotae, cioè "anonime".

Sono del novembre 1817 i Sonetti in persona di Ser pecora fiorentino beccaio scritti in difesa del Monti e del Giordani, che risentono del carattere burlesco che vigeva in Toscana e che vennero pubblicati nel 1826 nel volumetto dei Versi.

Di questo periodo è la cantica Appressamento della morte formata da cinque canti in terzine che egli scrisse sul finire del 1816 e di cui è confluito nei Canti un unico frammento.

Alla infatuazione amorosa che il giovane Leopardi provò per la cugina Gertrude Cassi Lazzari si devono le prime dirette esperienze di scrittura autobiografica. Nacque così nel 1817 il frammento in prosa del Diario del primo amore e una Elegia in terza rima, che farà poi parte dei Canti con il titolo Il primo amore, oltre l'inizio di un diario che continuò per quindici anni (1817-1832), lo Zibaldone

[modifica] Le canzoni civili: 1818

Il rapporto con il Giordani stimola il Leopardi ad intervenire in modo più attivo nel dibattito culturale dei tempi e nel 1818 il giovane scriverà il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.

In questo discorso il poeta espone alcuni punti base della sua poetica dimostrando un'ampia visione del rapporto tra la poesia e la storia e difendendo le posizioni classicistiche. Si sente in questa posizione l'insegnamento di Rousseau: il Leopardi infatti sente che rapportarsi con la natura è estremamente importante perché ciò stimola l'immaginazione e produce le illusioni. Nella poesia del mondo antico, così simile al mondo infantile, egli trova una poesia che, imitando la natura, «diletta» e «illude».

Nel settembre e nell'ottobre di quello stesso anno nascono le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, che vennero subito pubblicate a Roma in un libretto dedicato a Vincenzo Monti.

Nella canzone All'Italia vengono ricordati i giovani italiani periti nelle guerre napoleoniche subito associati, con il rievocare del canto di Simonide di Ceo, ai giovani greci morti alle Termopili.

La canzone Sopra il monumento di Dante prende lo spunto dal progetto di un comitato di Firenze per erigere un monumento a Dante Alighieri in piazza Santa Croce, monumento che venne effettivamente inaugurato nel 1830. Vengono in essa ricordati i tempi eroici e la passione civile di Dante che si sviluppa in una lunga digressione sugli Italiani che erano morti in Russia nella tragica campagna napoleonica del 1812.

[modifica] Zibaldone (1817-1832)

Collabora a Wikiquote
«È una mole di 4526 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell’autore, d’una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustra con se stesso su l’animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l’uomo, su le nazioni, su l’universo; materia di considerazioni più ampia e variata che non sia la solenne tristezza delle operette morali; considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva giorno per giorno per sé stesso e non per gli altri, intento, se non a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a compiangersi, a istoriarsi. Per sé stesso notava e ricordava il Leopardi, non per il pubblico: ciò non per tanto gran conto ei doveva fare di questo suo ponderoso manoscritto, se vi lavorò attorno un indice amplissimo e minutissimo, anzi più indici, a somiglianza di quelli che i commentatori olandesi e tedeschi solevano apporre alle edizioni dei classici. Quasi ogni articolo di quella organica enciclopedia è segnato dell’anno del mese e del giorno in cui fu scritto, e tutta insieme va dal luglio del 1817 al 4 dicembre del 1832; ma il più è tra il ’17 e il ’27, cioè dei dieci anni della gioventù più feconda e operosa, se anche trista e dolente.»
(Giosuè Carducci: prefazione ai Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi)

Durante l'estate del 1817 il Leopardi iniziò a mettere insieme gli appunti e le annotazioni destinati a costituire lo Zibaldone di pensieri, al quale lavorò intensamente fino al 1832. In esso toccò argomenti diversi riguardanti la filosofia, la letteratura, la linguistica, oltre a trattare di problemi etici o sociali e anche legati alla sua personale esperienza.

Questo libro ha un'importanza fondamentale nella filosofia dell'Ottocento per le posizioni molto simili a quelle di Schopenhauer. Leopardi, sebbene al di fuori delle dispute filosofiche del tempo, riuscì ad elaborare una teoria molto innovativa, anticipando anche posizioni nietzschiane. Si può ben definire il Leopardi filosofo come l'iniziatore di quell'orientamento che in seguito verrà definito nichilismo.

[modifica] Produzioni varie: 1819

Nel 1819, in seguito alla "conversione filosofica" che rendeva il suo pensiero più pessimista e legato alla filosofia sensista, tutto quanto legava ancora il Leopardi alla sua prima educazione letteraria e ideologica entrò in crisi e il poeta sentì la necessità di tentare una letteratura adatta alla sensibilità del presente.

Nella poesia di questo periodo vengono rappresentate situazioni scabrose in un incisivo linguaggio classicistico che risulta in contrasto con i temi di nera quotidianità come nelle due canzoni, che poi egli stesso rifiuterà, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal coruttore per mano e arte di un chirurgo.

Viene anche tentata una tragedia pastorale, rimasta incompiuta, dal titolo Telesilla, nella quale il poeta inserisce su uno sfondo convenzionale alcuni temi realistici.

Tra il marzo e il maggio del 1819 il Leopardi, sullo spunto della lettura de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe, lavora ai Ricordi d'infanzia e di adolescenza, sperimentando così la prosa autobiografica e dimostrando una sottile sensibilità per le molteplici sfumature della vita quotidiana e dei paesaggi della natura.

[modifica] Gli idilli: 1819-1825

Agli sviluppi della critica più recente è più delicato e problematico di una volta isolare, nell'insieme dei Canti, un Leopardi "idillico" come aveva potuto fare il De Sanctis che sotto il nome di nuovi idilli aveva considerato poesie come La quiete dopo la tempesta o Il sabato del villaggio tenendo conto del loro elemento paesistico-descrittivo.

La critica attuale sembra più incline ad assegnare il nome di "idilli" a quei primi componimenti che lo stesso Leopardi intitolò appunto con il nome di Idilli e che aveva pubblicato, tra il dicembre del 1825 e il gennaio del 1826, nel Nuovo Ricoglitore e cioè L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria e infine il frammento Odi e Melisso.

In un elenco che Leopardi aveva redatto probabilmente nel 1828 egli parla di «idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo». Questa nuova poesia nacque tra il 1819 e il 1821 e si traduce in quei componimenti, scritti in endecasillabi sciolti, che vengono trazionalmente chiamati Piccoli idilli e che vennero pubblicati, sotto il nome di Versi, nel 1826.

Risalgono al 1819 il frammento Odi, Melisso, L'infinito e Alla luna, al 1820 La sera del dì di festa, al 1825 Il sogno e La vita solitaria.

[modifica] Odi, Melisso

Si tratta di un frammento scritto sotto forma di dialogo nel quale Alceta racconta a Melisso il sogno fatto, simile ad un incubo, sulla caduta della luna dal cielo dove si sente ancora l'influsso dei modelli dell'idillio classico, anche se il tono usato è più semplice e popolare.

[modifica] L'Infinito

È una poesia scritta a Recanati nel 1819. Fu pubblicata nel volume "Versi" del 1826, poi nei "Canti" del 1831. Il manoscritto reca, sopra il titolo, l'indicazione "Idillio", inteso non tanto nel significato tradizionale di poesia breve di argomento pastorale, quanto come recupero della condizione originale della Poesia tramite il ricordo. Il poeta ritorna alla fanciullezza, che paragona all'età dell'oro della poesia degli antichi, in una "avventura storica" dell'animo.

"L'Infinito" è anche un testo emblematico della poetica dell'indefinito e del vago che Leopardi, negli anni tra il 1818 e il 1821, elabora in fitte pagine dello Zibaldone e che trova nella "teoria del piacere" il suo fondamento filosofico.

Il tema si articola in due momenti distinti: la contemplazione dell'infinito nello spazio, e la contemplazione dell'infinito nel tempo. In un luogo familiare e tranquillo ("sempre caro mi fu..."), una siepe impedisce allo sguardo di spingersi lontano, ma lo sguardo interiore, l'immaginazione, crea ("mi fingo") spazi illimitati, che sfuggono a qualunque forma di esperienza sensibile. Quando il silenzio è rotto da un leggero stormire di fronde, l'io lirico passa alla contemplazione del tempo infinito, anzi dell'assenza di tempo, ovvero l'eternità. Solo a questo punto, raggiunto con un'assidua riflessione, l'io è avvolto dal sentimento di un piacere senza limiti (" e il naufragar m'è dolce in questo mare.").

L'assoluta novità del testo sul piano tematico si riflette nell'elaborazione formale. I quindici endecasillabi sciolti si articolano in quattro periodi. La coincidenza solo parziale (al v.3 e al v.15) fra periodo sintattico e periodo metrico e il fitto uso di enjambements conferiscono al testo un ampio respiro ritmico, con una musicalità tutta interiore sottolineata da assonanze e allitterazioni. Nel lessico, oltre a qualche arcaismo, si notano parole di quattro o cinque sillabe, che denotano il dilatarsi della contemplazione; risaltano inoltre i dimostrativi "questo" e "quello", usati non in funzione oggettiva ma soggettiva, ad indicare ciò che è di volta in volta vicino o lontano rispetto all'animo del poeta.

[modifica] Alla luna

[modifica] La sera del dì di festa

L'idillio, scritto nel 1820, è composto di 46 endecasillabi sciolti. Spesso se ne cerca la situazione ispiratrice nell'incontro con la cugina Gertrude Cassi Lazzari; in realtà la totale indeterminatezza del testo non autorizza identificazioni, peraltro non necessarie per la comprensione della poesia. La vicinanza temporale con la composizione dell'Infinito trova riscontri sia nel lessico (lontananza, silenzio, infinità, ricordo) sia nella struttura formale, in cui la frequente interpunzione a metà verso genera una non coincidenza tra periodo sintattico e periodo metrico; i frequenti enjambements sottolineano più volte espressioni chiave (vv. 14-15; 22-23; 31-32; 38-39).

Quasi esattamente al centro del testo (vv.23-24) è collocato un passaggio rilevante: l'esclamazione, che può parere enfatica, cui subito succede il ritorno alla contemplazione della notte, guidata ora da un'impressione acustica e non più visiva come era nel breve e intenso quadro d'apertura (in cui si rilevano tracce omeriche, da Iliade, VIII, 555-559). E' quindi possibile riconoscere una fondamentale bipartizione del testo.

Nella prima metà l'io lirico esprime il proprio dolore nel duplice contrasto con la quiete della sera e col sonno sereno e ignaro della donna che lo ha affascinato, e sottolinea con forza i suo ribellarsi alla Natura che a lui solo ha destinato l'infelicità (vv. 14-16). Nella seconda metà, il canto del'artigiano che ritorna tardi a casa dopo la festa evoca la consapevolezza della vanità di ogni cosa, dalle realtà più limitate fino ai grandi eventi della storia: il tempo tutto cambia e tutto alla fine cancella nell'universale silenzio. In questa riflessione, il poeta forse trova il modo per placare la sua disperazione; ma ricorda che già da bambino, ancora inconsapevole, sentiva stringersi il cuore nella notte udendo un canto che pian piano si allontanava.

[modifica] Il sogno

[modifica] La vita solitaria

[modifica] Le Canzoni: 1820-1823

[modifica] Ad Angelo Mai

In occasione della scoperta del De Re Publica di Cicerone da parte di Mai, Leopardi scrisse la canzone Ad Angelo Mai nella quale traccia quasi una genesi della poesia italiana passando da Alighieri a Petrarca, da Ariosto a Tasso, fino ad arrivare ad Alfieri. Quella ad Angelo Mai è una canzone che segna un'altra tappa fondamentale della poesia leopardiana, quel divorzio fra scienza e poesia, la perdita dell'immaginazione e la consapevolezza dell'illusione, elementi, questi, che accompagneranno fino alla fine il pensiero poetico di Leopardi.

[modifica] Per le nozze della sorella Paolina

[modifica] Ad un vincitor di pallone

[modifica] Bruto minore

Per approfondire, vedi la voce Bruto minore.

Questa canzone, assieme all'Ultimo canto di Saffo, indica con chiarezza come ormai Leopardi si sia del tutto allontanato dalla convinzione, a lungo sostenuta in precedenza, che nel mondo antico gli uomini avessero la possibilità di essere felici, possibilità venuta meno nel mondo moderno (su questo tema tornerà nel canto Alla Primavera, o delle favole antiche).

[modifica] Ultimo canto di Saffo

Per approfondire, vedi la voce Ultimo canto di Saffo.

[modifica] Alla primavera o delle favole antiche

[modifica] Inno ai Patriarchi

[modifica] Alla sua donna

[modifica] Operette morali

Per approfondire, vedi la voce Operette morali (Leopardi).

Le Operette Morali sono 24 brevi scritti, progettati dall'autore fin dal 1820. Per lo più scritte sotto forma di dialoghi tra personaggi reali o immaginari, le Operette sono “la descrizione concreta della vita e la dimostrazione che essa è ignobile e misera” (Momigliano). La condizione umana, la morte, il destino, la vana ricerca della felicità sono alcuni dei temi che ricorrono nell'opera. Le Operette Morali sono, nell'ordine:

  • Storia del genere umano
  • Dialogo d'Ercole e di Atlante
  • Dialogo della Moda e della Morte
  • Proposta di premi fatta dall'accademia dei Sillografi
  • Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
  • Dialogo di Malambruno e Farfarello
  • Dialogo della Natura e di un'anima
  • Dialogo della Terra e della Luna
  • La scommessa di Prometeo
  • Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
  • Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare
  • Dialogo della Natura e di un Islandese
  • Il Parini ovvero della Gloria
  • Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
  • Detti memorabili di Filippo Ottonieri
  • Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
  • Elogio degli Uccelli
  • Cantico del Gallo Silvestre
  • Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco
  • Dialogo di Timandro e di Eleandro
  • Il Copernico: dialogo
  • Dialogo di Plotino e di Porfirio
  • Dialogo di un Venditore d'almanacchi e di un Passeggere
  • Dialogo di Tristano e di un Amico

[modifica] Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani

Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani del 1824, Leopardi analizza lo stato di decadenza della società italiana dell'epoca, confrontando la situazione del nostro paese con quella delle altre nazioni europee. L'approccio è di tipo storico, ma più che fare un resoconto puntuale dei mutamenti sociali, lo scrittore utilizza elementi di antropologia e di filosofia per giungere ad un'originale sintesi dei problemi italiani, in parte ancora attuale.

L'analisi muove da una convinzione profonda di Leopardi: nel mondo moderno gli uomini, divenuti ormai «filosofi» e quindi consci della vanità delle loro azioni, non possono formare una società basata sui valori «naturali» propri degli antichi. L'unica possibile spinta verso una condotta moralmente corretta può venire dalla necessità di non sfigurare rispetto agli altri uomini, all'interno di una società in cui vi siano delle regole di comportamento da tutti accettate. Questa «società stretta» formata da individui di stato sociale medio-alto, portatrice di un «costume nazionale», si è sviluppata all'interno dei paesi del centro-nord Europa, ma non ancora in Italia, per una serie di ragioni: clima mite che induce allo svago all'aria aperta più che alla conversazione, divisioni politiche, indole vivace depressa dalla conoscenza della nullità dell'esistenza, abitudine a feste popolari e non a ritrovi ristretti ecc. Leopardi quindi accompagna la consueta critica alla cultura italiana del tempo con un invito a prendere da modello le nazioni nord-europee, vedendo nella modernità i semi dello sviluppo di società eticamente più nobili, seppure lontane dal modello per lui insuperabile dell'antichità classica.

[modifica] Nuove canzoni (1823-1832)

[modifica] Alla sua donna

Per approfondire, vedi la voce Alla sua donna.

[modifica] Il Risorgimento

[modifica] A Silvia

Per approfondire, vedi la voce A Silvia.

Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi a Recanati, morì giovanissima di tisi. A lei si suole far riferimento come possibile fonte d'ispirazione di due delle più alte liriche leopardiane: A Silvia e Le ricordanze. Gli studi recenti tendono però a mettere in guardia da facili interpretazioni romanzate o da identificazioni biografiche in sé non necessarie per una corretta e approfondita comprensione dei testi di Leopardi. Il riferimento testuale che autorizza il collegamento tra Silvia/Nerina e Teresa Fattorini si trova nei Ricordi d'infanzia e d'adolescenza (1819): «Canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa mentre ch'io leggeva il Cimitero della Maddalena». Nella piazzetta su cui si affaccia il Palazzo Leopardi, a Recanati, è possibile vedere tuttora un modesto edificio indicato come «la casa di Silvia».

Nelle due vicende così diverse del poeta e di Silvia si riflette la sorte universale dell'uomo sottoposto al duro inganno della Natura, che prima illude i suoi figli con le promesse vaghe dell'avvenire, poi li condanna all'infelicità con l'apparire del vero.

[modifica] Il passero solitario

Per approfondire, vedi la voce Il passero solitario.

Su Wikisource è reperibile il testo del componimento.


La lirica, composta probabilmente nel 1829, appartiene al gruppo dei "Canti pisano-recanatesi"; si apre, come di consueto nella poesia leopardiana, con la contemplazione serena di un paesaggio primaverile, allietato da luci, colori, voli d'uccelli. Poi, in parallelo al passero solitario che non si unisce alla gioia di tutti, si manifesta l'io lirico: anch'egli isolato, distante, incapace di godere dell'unica occasione di felicità concessa agli uomini, cioè la giovinezza. La terza strofa riprende il paragone trasformandolo in un'opposizione: da un lato il passero che segue semplicemente il suo istinto e quindi non soffre, dall'altro lo sconsolato io lirico, consapevole di esser solo per scelta, anche se per una ragione incomprensibile, e certo di esser destinato ad un amaro rimpianto quando la detestata vecchiaia lo raggiungerà.

Sulla cronologia del testo vi sono dubbi, causati dall'emergere in questa poesia di un atteggiamento (il cosiddetto "pessimismo individuale") proprio degli anni 1819-1821, e ben presto superato nella direzione di una sempre più netta affermazione che tutti gli uomini sono condannati all'infelicità. È ipotizzabile, però, che la rievocazione degli anni giovanili sia stata in questa poesia così piena e profonda da portare con sé la concezione della vita tipica di quel periodo, e non più del tempo in cui questo Canto è stato composto.

[modifica] Le ricordanze

Per approfondire, vedi la voce Le ricordanze.

[modifica] La quiete dopo la tempesta

Si tratta di una canzone di Leopardi divisa in 3 unità semantiche.

[modifica] Il sabato del villaggio

Per approfondire, vedi la voce Il sabato del villaggio.

Il sabato del villaggio Questo canto fu scritto dal Leopardi nel 1829 subito dopo "La quiete dopo la tempesta". Riprende e sviluppa lo stesso tema, tanto che si possono considerare due poesie gemelle, sia per la tesi, sia per la forma, sia per il linguaggio poetico con cui furono scritte. Ugo Dotti così presenta i due canti: «Ciascuno dei due canti, insomma, così profondamente congiunti anche tra loro da formare un vero e proprio dittico, costituisce, nonostante l'apparente scissione formale, un vero e proprio unicum, come tale pensato e realizzato». In esse, dopo una descrizione realistica dell'ambiente naturale nella Quiete e dopo la descrizione dei personaggi del Sabato, il Leopardi passa subito alla sua riflessione personale, concludendosi entrambe con un commiato di ammonimento a non farsi illusioni sulla natura.

Tuttavia rispetto alla Quiete si osserva una rappresentazione più ampia del villaggio al calar della sera, tra voci, colori, luci ed ombre evocati con tocchi delicati ed espressivi. La sola strofa conclusiva, con l'apostrofe «Garzoncello scherzoso ...», rende esplicita, ma senza sottolineature amare o sentenziose, l'analogia tra il sabato e la giovinezza, e tra la domenica piena di «tristezza e noia» e l'età adulta.

Mentre nella Quiete il piacere della vita si riferisce agli elementi della natura stessa, nel Sabato il piacere della vita si riferisce alla società e alle tradizioni sociali: come non c'è tregua nel dolore nella natura, così non c'è piacere nelle società, perché la natura arriva presto a stroncare ogni forma di piacere e di illusione. Ma una grande differenza c'è tra i due finali: il finale della Quiete è drammatico e pessimistico, mentre il finale del Sabato è dolce e gradevole, anzi è un invito a godere dei possibili piaceri della fanciullezza, prima che arrivi la giovinezza che darà dolori e a cui seguirà la terribile vecchiaia.

[modifica] Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Per approfondire, vedi la voce Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.

Tra la fine del 1829 ed i primi mesi del 1830, Leopardi compose la canzone Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Nel comporre tale poesia, Leopardi trae ispirazione dalla lettura del Voyage d'Orenbourg à Boukhara fait en 1820 del barone russo Meyendorff (cfr. Zibaldone, 4399, in data 2 ottobre 1828), nel quale si narrava di come certi pastori dell'Asia centrale, appartenenti alla popolazione Kirghisa, fossero soliti intonare lunghe e dolci nenie rivolgendosi alla luna piena. La canzone, che si articola in cinque strofe di ineguale lunghezza, si configura difatti come un dialogo fra un pastore e la luna. Tuttavia il canto si apre con le parole «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?» (il corsivo è nostro): tale sarà infatti l'astro notturno nel corso dell'intero componimento, silenzioso, e il dialogo si configurerà dunque come un lungo e pressante monologo esistenziale del pastore, alla disperata ricerca di risposte al senso di inutilità dell'esistenza. I due personaggi sono calati in uno spazio e un tempo indefiniti, onde accentuare il carattere universale e simbolico del loro incontro: il pastore rappresenta il genere umano in toto e i suoi dubbi non sono contingenti, ancorati al "qui" e all'"ora", ma sono anzi propri dell'uomo di ogni tempo; la luna d'altra parte rappresenta la Natura, la forza «bella e terribile» che affascina e contemporaneamente spaventa il poeta. Il pastore, uomo di condizione umile, si rivolge alla luna con tono pacato ma incalzante, velato di malinconia, e proprio l'assenza di risposta lo conduce via via a indagare più approfonditamente il suo ruolo, e quindi quello dell'umanità, nei confronti della vita e del mondo, definendo sempre meglio «l'arido vero» tanto caro alla poetica leopardiana. Nella prima strofa difatti il pastore, pur definendo silenziosa la luna, si attende una risposta da essa e riscontra analogie, più che differenze, fra la sua condizione e quella della luna: entrambi infatti s'alzano, percorrono la loro strada sempre identica a sé stessa e infine si riposano: la vita del pastore come quella della luna appaiono prive di senso. Compare però, a metà della strofa, una discriminante di notevole importanza: il corso della vita umana è finito e il suo correre, paragonato a quello d'un «vecchierel bianco» (chiaro riferimento a Francesco Petrarca, Canzoniere XVI), termina tragicamente nell'«abisso orrido» della morte. Tale condizione, che si specifica nella seconda strofa come una condizione di profonda sofferenza (lapidari sono i versi «se la vita è sventura, perché da noi si dura?»), è assai distante da quella della Luna, che appare invece eterna, «vergine», "intatta". Nella terza strofa il pastore si rivolge dunque alla luna con rinnovato vigore e speranza, ritenendo che l'astro, proprio per questa sua privilegiata condizione ultramondana, possa fornirgli le risposte alle sue domande più urgenti: che cosa sia la vita, quale sia il suo scopo essendo essa necessariamente finita, quale sia la ragione prima di tutte le cose. Ma la luna, capisce presto il pastore, se pure conoscesse le risposte a tali quesiti, non potrebbe rispondere, poiché tale è la natura: distante, incomprensibile, muta se non indifferente alle cure dell'uomo. La ricerca di senso e di felicità del pastore prosegue infine nelle ultime due strofe; nella quarta il pastore si rivolge al suo gregge, osservando come la mancanza di autocoscienza che esso ha gli consente di vivere in apparente tranquillità la propria esistenza, in assenza di noia o dolore; ma questa tesi viene infine ribaltata nell'ultima strofa, breve e liricamente affranta, nella quale si ammette come, probabilmente, in qualunque forma si nasca, sia essa luna, gregge o uomo, qualunque cosa si sia in grado di fare, volare nello spazio contando tutte le stelle o vagare fra le nubi come un tuono, la vita sia ugualmente funesta.

[modifica] Ultime canzoni (1832-1837)

Nelle ultime canzoni predomina l'indagine filosofica, salvo che nel Tramonto della luna, deciso ritorno alla lirica idilliaca.

[modifica] Il pensiero dominante

Nel 1830 il Leopardi ritorna a Firenze, dove conosce una giovane e bella signora, Fanny Ronchivecchi, sposata allo scienziato A. Tozzetti. Il poeta frequentò la casa della bella signora e se ne innamorò, ma non rivelò mai il suo amore per la giovane donna, anche perché lei era innamorata di Antonio Ranieri, in un gioco delle parti nel quale il Leopardi ebbe la peggio, perché dovette fare buon viso a cattivo gioco. Dopo un anno di questa passione travolgente, ma tutta interiore e silenziosa, il Leopardi nell'ambiente fiorentino maturò e scrisse la prima poesia ispirata dalla passione amorosa per la bella e gaudente signora. L'ultima poesia sarà Aspasia scritta a Napoli nel 1834, la quale chiuderà il ciclo delle poesie amorose, nelle quale il poeta riverserà e sublimerà tutti i suoi sentimenti ed emozioni, che saranno gli ultimi vivi e fervidi prima dell'ultimo isolamento napoletano, dove però maturerà le ultime grandi liriche ispirate dalla natura, dalle nuove ideologie politiche, ma prive del sentimento dell'amore che lo tenne sentimentalmente vivo e partecipe di quale grande sentimento che è l'argomento della prima poesia e cioè l'amore che tanto sognò ma non ebbe mai la gioia di realizzarlo e viverlo, guadandolo attraverso il suo tenero amico Antonio Ranieri. Il Leopardi aveva scritto nel suo Zibaldone: «L'amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e mortale». Il critico letterario Walter Binni ha così descritto questo periodo fiorentino del poeta: «Ecco così una nuova forma di lirica profondamente soggettiva, espressione di una prepotente personalità, tutta rampollante dal presente, e perciò poco armoniosa, ma impetuosa, tesa e tenace: una ricerca di parole forti, energiche non vaghe e nostalgiche, come quelle degli idilli, un ripudio del quadro campeggiante sul resto del componimento, e di qualsiasi forma anche se altissima di pittoresco e di descrittivo».

La poesia è composta da 14 strofe per un numero totale di 147 versi con un vario gioco di rime e assonanze.

[modifica] Amore e morte

amore e morte è la canzone ke scrive per l'amore,doloroso(non essendo ricambiato) per Fanny Targioni Tozzetti dove esprime tutta la sua poetica,l' idea d'identità tra l'amore e la morte,la visione di una morte benevola che si personifica in una bellissima fanciulla.

[modifica] Consalvo

Per approfondire, vedi la voce Consalvo.

Il testo del componimento.

[modifica] Aspasia

Per approfondire, vedi la voce Aspasia (Leopardi).

[modifica] A se stesso

Il canto, scritto probabilmente nel maggio 1833, si presenta come la conclusione del "Ciclo di Aspasia", ovvero come l'affermazione drammatica che ormai al mondo non vi è più nulla per cui il cuore del poeta possa palpitare. L'esperienza dell'amore (grazie alla quale, scrisse nel "Pensiero LXXXII", l'uomo "diventa uomo") si è conclusa con una delusione amarissima, conferma ultima della vanità di ogni speranza e sentimento. Il breve testo si conclude con un'esortazione a disprezzare "te,la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l'infinita vanità del tutto." Il richiamo all'Ecclesiaste (Vanità delle vanità, e ogni cosa è vanità) congiunge al ben noto nichilismo leopardiano la risonanza del testo sacro.

Il linguaggio della poesia è nudo, privo di immagini, ben lontano dalla musicalità evocativa dei Canti pisano-recanatesi. Si compone di 16 versi endecasillabi e settenari, alternati liberamente e collegati da qualche rima, o, più spesso, da assonanze e allitterazioni. L'aspetto che risalta maggiormente è il periodare continuamente interrotto da punti fermi. I periodi sono dunque per lo più brevissimi, fino alla misura estrema di una sola parola (v.3). Il ritmo è pertanto caratterizzato da un'energia trattenuta, quasi bloccata. I frequenti enjambements, invece di produrre, come nell'Infinito, una dilatazione del ritmo e del pensiero, contribuiscono all'effetto di spezzatura.

Il lessico, a sua volta, appare spoglio, con pochissimi aggettivi, che pure disegnano quasi una sintesi del pensiero leopardiano: stanco mio cor, inganno estremo / eterno, cari inganni, ultima volta, brutto poter, comun danno, infinita vanità.

Il brutto poter, cioè la Natura, fu l'oggetto di un abbozzo lirico di questo periodo, rimasto solo in prosa, l'Inno ad Arimane, in cui Leopardi lo paragona al dio del male dello zoroastrismo.

[modifica] Sopra un bassorilievo antico sepolcrale

Per approfondire, vedi la voce Sopra un basso rilievo sepolcrale.

[modifica] Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima

Per approfondire, vedi la voce Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima.

[modifica] La ginestra

Per approfondire, vedi la voce La ginestra.

Il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antireligiosa, ma in chiave democratica. Però qui Leopardi non nega più la possibilità di un progresso civile: cerca anzi di costruire proprio sul suo pessimismo un'idea di progresso autentico, ben diverso dalle «magnifiche sorti e progressive», di cui si vanta il «secol superbo e sciocco» ovvero l'Ottocento romantico e spiritualista.

La Ginestra, sul piano letterario, è anche la massima realizzazione di quella "nuova poetica" anti-idillica già sperimentata a partire dal '30.

La canzone, composta presso Torre del Greco, in una villa alle falde del Vesuvio, consta di 317 versi e come metro utilizza strofe libere di endecasillabi e settenari. È un vasto poemetto, costruito sinfonicamente con sapiente alternanza di toni: dal quadro grandioso e tragico del vulcano minacciante distruzione e delle distese di lava infeconda, all'aspra polemica ideologica; dagli squarci cosmici che proiettano la nullità della terra e dell'uomo nell'immensità dell'universo, alla visione dell'infinito svolgersi dei secoli della storia umana su cui incombe immutabile la minaccia della natura, sino alle note gentili dedicate al «fiore del deserto», in cui si compendiano complessi significati simbolici: la pietà verso le sofferenze umane, la dignità che dovrebbe essere propria dell'uomo dinanzi alla forza invincibile della natura che lo schiaccia.

[modifica] Pensieri

[modifica] Il tramonto della luna (1837)

Per approfondire, vedi la voce Il tramonto della luna.

[modifica] Epistolario

Per approfondire, vedi la voce Giacomo Leopardi (epistolario).

[modifica] Palinodia al marchese Gino Capponi

Per approfondire, vedi la voce Palinodia al marchese Gino Capponi.

Su quest'opera il marchese Gino Capponi scrisse in una lettera a Leopardi che condivideva in parte le sue idee e lo ringraziava per i «nobili versi»; ma, in una lettera indirizzata al Viesseux, si esprimeva con ben altri termini «quel gobbo maledetto che s'è messo in capo di coglionarmi».

[modifica] Paralipomeni della Batracomiomachia

[modifica] Note

  1. da Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, vol.III: Dal Foscolo ai Moderni, La Nuova Italia, Firenze 1958 pag.229
  2. Sebastiano Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Laterza, Bari 1977

[modifica] Fonti

  • Carlo Ferrucci. Leopardi filosofo e le ragioni della poesia . Venezia, Marsilio, 1987 .
  • Sergio Solmi. Studi e nuovi studi leopardiani . Napoli, Riccardo Ricciardi, 1975 .
  • Ugo Dotti. Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi . Roma, Editori Riuniti, 1993 .
  • Luigi Blasucci. Leopardi e i segnali dell'infinito . Bologna, il Mulino, 1985 .
  • Luigi Blasucci. I tempi dei "Canti". Nuovi studi leopardiani . Torino, Einaudi, 1996 .
  • Walter Binni. La protesta di Leopardi . Milano, Sansoni, 1995 .
  • Mario Sansone. Storia della letteratura italiana . Milano-Messina, Principato, 1960 .
  • Natalino Sapegno. Compendio di Storia della Letteratura Italiana . Firenze, La Nuova Italia, 1958 .
  • Giuseppe Petronio. Compendio di storia della letteratura italiana . Scandicci-Firenze, Palumbo, 1968 .
  • Giulio Ferroni. Storia della letteratura italiana . Torino, Einaudi, 1991 .
  • Mario Pazzaglia. Letteratura italiana . Bologna, Zanichelli, 1991 .
  • Carlo Salinari. Storia della letteratura italiana . Roma-Bari, Laterza, 1991 .
  • Marco Santagata. Quella celeste naturalezza : Le canzoni e gli idilli di Leopardi . Bologna, il Mulino, 1994 .
  • Antonio Prete. Il pensiero poetante . Milano, Feltrinelli, 1980 .

[modifica] Altri progetti

Giacomo Leopardi (1798 - 1837)
Opere - Poetica - Epistolario
Narrativa: Zibaldone e Operette morali

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