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Giovanni Pascoli - Wikipedia

Giovanni Pascoli

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Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli
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«Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra...»
(G. Pascoli - da "Il fanciullino")

Giovanni Placido Agostino Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 - Bologna, 6 aprile 1912) è stato uno dei maggiori poeti italiani di fine Ottocento.

La poesia di Pascoli è caratterizzata da una metrica formale con endecasillabi, sonetti e terzine coordinati con grande semplicità. Nonostante la classicità della forma esterna, provata dal gusto per le letture scientifiche, alle quali si ricollegano il tema cosmico e la precisione del lessico botanico e zoologico, Pascoli ha saputo rinnovare la poesia nei suoi contenuti, toccando temi fino ad allora trascurati dai grandi poeti, capace di far capire nella sua prosa il piacere delle cose più semplici viste con la sensibilità infantile che ogni uomo porta dentro di sé.

Pascoli era un personaggio malinconico, rassegnato alle sofferenze della vita e alle ingiustizie della società, convinto che quest'ultima fosse troppo forte per essere vinta. Nonostante ciò, seppe conservare un senso profondo di umanità e di fratellanza. Crollato l'ordine razionale del mondo, in cui aveva creduto il positivismo, il poeta, di fronte al dolore e al male che dominano sulla Terra, recupera il valore etico della sofferenza, che riscatta gli umili e gli infelici, capaci di perdonare i propri persecutori.

Indice

[modifica] Biografia

[modifica] Prima giovinezza

Per pochi scrittori come per Pascoli le vicende della prima giovinezza furono tanto determinanti nello sviluppo creativo della maturità. Sembra, infatti, impossibile comprendere il vero significato di gran parte - e sicuramente la più importante - della sua produzione poetica, se se ne ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e psicologici che egli stesso riorganizzò per tutta la vita, in modo ossessivo, come sistema semantico di base del proprio mondo.

Il 10 agosto 1867 il padre Ruggero venne assassinato con una fucilata mentre tornava a casa da Cesena. Le ragioni e gli autori del delitto rimasero per sempre oscuri, almeno ufficialmente. Ma il trauma lasciò segni profondi nella vita di Giovanni (all'omicidio del padre sarà in seguito dedicata la lirica "X agosto"). La famiglia cominciò dapprima a perdere il proprio status economico e poi a subire una serie impressionante di altri lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre e la sorella Margherita, nel '71 il fratello Luigi e nel '76 il fratello maggiore Giacomo, che aveva tentato di ricostituire il nucleo familiare. Pascoli dovette lasciare il liceo di Urbino, ma poté continuare gli studi a Firenze grazie all'interessamento di un suo professore.

Al periodo degli studi liceali risalgono alcuni componimenti d'occasione, in versi, che vanno visti alla luce delle esercitazioni retoriche in uso a quel tempo negli istituti religiosi. Ma sicuramente la fantasia di Pascoli cominciava già a elaborare, a livelli profondi, tutte quelle impressioni sentimentali e ambientali che le tragedie familiari avevano scaricato su di lui.

Nella biografia lasciataci dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta ci viene presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell'impegno a terminare il liceo ed a cercare i mezzi per gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, dimostrato nel ricercare e perseguire l'assassino del padre.

Conosciuto Andrea Costa ed avvicinatosi ai socialisti, cominciò, nel 1877, a tenere comizi a Forlì e a Cesena. Ciò lo portò a quello che si può definire il punto di rottura: la detenzione nel carcere di Bologna, in seguito a una retata della polizia tra i socialisti che avevano organizzato una manifestazione contro il governo per la condanna dell'anarchico Giovanni Passannante. L'isolamento forzato - dopo la goliardica esperienza dell'università e dell'impegno politico nei movimenti della sinistra - lo costrinse forse a riflettere su di sé. È da qui che cominciò quella che la critica storica ha registrato come la regressione infantile di Pascoli.

Costretto dalla sua professione di docente universitario a lavorare in città, anche se non proprio in metropoli tentacolari (Bologna, Firenze e Messina dove insegnò per alcuni anni all'Università e compose tra le sue più belle poesie, una su tutte: "L'Aquilone"), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una "via di fuga" verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Addirittura si può dire che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l'unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno che, però, rimase innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di suo padre.

Sull'ambiguo e tormentato rapporto con le sorelle - il "nido" familiare che ben presto divenne "tutto il mondo" della poesia di Pascoli - ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi: «Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli.

In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura.».

[modifica] La formazione letteraria

La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873 - 1882). Allievo di Carducci,che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al grande poeta Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita.

Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi ed i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana.

Nel 1875 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione ed i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu l'unica breve parentesi politica della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta greco Alceo.

A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario ed anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la «Revue des deux Mondes», che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henry Fabre e Maurice Maeterlinck.

Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia.

Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana.

È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua.

Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico.

I Romantici, sulla scia di Giovanbattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una una sorta di età dell'oro.
Verso gli anni '80 si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento.

La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento.

Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come i capolavori di Carroll, Alice nel paese delle meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo Lord Faunthleroy di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887).

Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del "Fanciullino", ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi.

Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Verlaine e Mallarmé.

[modifica] Gli ultimi anni

Dopo la laurea conseguita a Bologna nel 1882 ebbe inizio la sua carriera di professore di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Qui volle vicino a sé le due sorelle minori Ida e Maria, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo familiare. Dal '87 al '95 insegnò a Livorno.

Intanto iniziava la collaborazione con la rivista «Vita nuova», su cui uscirono le prime poesie di Myricae (la raccolta continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900).
Vinse, inoltre, per ben tredici volte di seguito la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina. Nel '94 fu chiamato a Roma per collaborare col Ministero della pubblica istruzione; nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali (Gog e Magog).

Nel 1895 si trasferì con la sorella Maria nella casa di Castelvecchio, che divenne la sua residenza stabile.
Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea e all'avvento del Fascismo gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati.

Dal 1897 al 1903 insegna latino all'Università di Messina, e col ricavato della vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi, compra una casa a Castelvecchio. Nel 1905 assume la cattedra di letteratura all'Università di Bologna succedendo a Carducci.

Nel 1912 muore a causa di un cancro all'addome a Bologna e viene sepolto nel cimitero di Castelvecchio di Barga.

[modifica] Rivoluzione poetica

Secondo Giovanni Pascoli, la poesia non è una mera creazione della fantasia ma il risultato di una particolate capacità di "leggere" la realtà, non è una "invenzione" ma il disvelamento di ciò che è nelle cose, anche in quelle più semplici della vita di ogni giorno.

Pascoli, pertanto, fu il primo grande poeta italiano a mettere radicalmente in discussione l'idea consolidata secondo cui la poesia avrebbe potuto e dovuto cantare solo argomenti nobili ed elevati quali l'amore, le armi e la virtù: inoltre, aprendo le porte della poetica alle "piccole cose", Pascoli aprì anche la lingua della poesia alle "piccole parole", quelle - semplici - della comunicazione quotidiana, e completò l'avvicinamento del linguaggio poetico a quello della prosa.

[modifica] La poesia come "mondo" che protegge dal mondo

Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale.

Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra.

I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del secondo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive.

Nel '99 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino». In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana.
Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio vicino al borgo medievale di Barga, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte.
Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera.

La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli - mescolanza di novenari e quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva.

Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1911, i Poemi italici e i Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903). Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.

«Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali
(dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)

[modifica] Myricae

Nel 1891 uscì la prima edizione di Myricae, una raccolta di poesie definite dallo stesso Pascoli modeste, che racchiudono temi familiari e campestri. Nella raccolta Myricae è presente, tra le altre liriche, Novembre. L'anno seguente vince la prima medaglia d'oro in un concorso di poesia latina ad Amsterdam (premio che vincerà per altre undici volte).

[modifica] Il poeta e il "fanciullino"

Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da egli stesso così bene esplicitata appunto nello scritto omonimo apparso sulla rivista " Il Marzocco" nel 1897.

In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di J. Sully e da "La filosofia dell'inconscio" di E. von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo: - dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto; - Emblema della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano:

Caratteristiche del fanciullino: - "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella". - "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione". - Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa- effetto, ma INTUISCE. - Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose. - Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi(soggettivazione), trasformandolo in simbolo.

Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma: - Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni; - Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale). - Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire); - Coglie l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica.

Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale.

Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta- microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo- macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale; cioè la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi.

Per cui il poeta Pascoli rifiuta: - il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime la proprie sensazioni. - il Romanticismo, dove il poeta fa di se stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta.

Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli".

[modifica] La produzione latina

Giovanni Pascoli fu anche autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben 13 volte il Certamen Hoefftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi di Urbino, fino a Thallusa, poemetto di cui il poeta seppe della vittoria solo sul letto di morte nel 1912. In particolare, l'anno 1892 fu insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianius e l'anno della stesura definitiva delle Myricae.

Pascoli amava molto il latino, che può essere considerato la sua lingua del cuore: il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte Pascoli parlò in latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento che la sorella non conosceva questa lingua.

Per lungo tempo la produzione latina pascoliana non ha ricevuto l'attenzione che merita, essendo stata erroneamente considerata quale un semplice esercizio del poeta. Il Pascoli in quegli anni non era infatti l'unico a cimentarsi nella poesia latina (un maestro di Pascoli vinse alcune edizioni del Certamen con poemetti dedicati alla locomotiva o alla luce), ma lo fece in maniera nuova e con risultati, poetici e linguistici, sorprendenti. L'attenzione verso questi componimenti si è accesa solo con la raccolta a cura di Gandiglio e poi con l'edizione tradotta, edita da Mondadori nel 1951 e curata da Manara Valgimigli. Tuttavia la produzione latina ha un significato fondamentale, essendo coerente con la poetica del Fanciullino, la cifra del pensiero pascoliano. In realtà, la poetica del Fanciullino è la confluenze di due differenti poetiche: la poetica della memoria e la poetica delle cose.

Gran parte della poesia pascoliana nasce dalle memorie, dolci e tristi, della sua infanzia: "Ditelo voi […], se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno! E dite voi, se il sogno più bello non è sempre quello in cui rivive ciò che è morto". Pascoli dunque intende fare rivivere ciò che è morto, attingendo non solo al proprio ricordo personale, bensì travalica la propria esperienza, descrivendo personaggi facenti parte anche dell'evo antico: infanzia e mondo antico sono le età nelle quali l'uomo vive o è vissuto più vicino ad una sorta di stato di natura. "Io sento nel cuore dolori antichissimi, pure ancor pungenti. Dove e quando ho provato tanti martori? Sofferto tante ingiustizie? Da quanti secoli vive al dolore l'anima mia? Ero io forse uno di quegli schiavi che giravano la macina al buio, affamati, con la museruola?". Contro la morte - delle lingue, degli uomini e delle epoche - il poeta si appella alla poesia: essa è la sola, la vera vittoria umana contro la morte. "L'uomo alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può".

Ma da ciò non consegue di necessità l'uso del latino. Qui interviene l'altra e complementare poetica pascoliana: la poetica delle cose. "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma questa aderenza alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza, ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce: gli esseri della natura con l'onomatopea, i contadini col vernacolo, gli emigranti con l'italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani, naturalmente, parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà è solo una faccia del suo plurilinguismo.

Bisogna tenere conto anche di un altro elemento: il latino del Pascoli non è il la lingua che abbiamo appreso a scuola. Questo è forse il secondo motivo per il quale la produzione latina pascoliana è stata per anni oggetto di scarso interesse: per poter leggere i suoi poemetti latini è necessario essere esperti non solo del latino in generale, ma anche del latino di Pascoli. Si è già fatto menzione del fatto che nello stesso periodo, e anche prima di lui, altri autori avevano scritto in latino; scrivere in latino per un moderno comporta due differenti e contrapposti rischi. L'autore che si cimenti in questa impresa potrebbe, da una parte, cadere nell'errore di esprimere una sensibilità moderna in una lingua classica, cadendo in un latino maccheronico; oppure potrebbe cadere nell'errore di imitare gli autori classici, senza apportare alcuna novità alla letteratura latina. Pascoli invece reinventa il latino, lo plasma, piega la lingua perché possa esprimere una sensibilità moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi parlassimo ancora latino, forse parleremmo il latino di Pascoli. (cfr. Alfonso Traina, Saggio sul latino del Pascoli, Patron).

Numerosi sono i componimenti, in genere raggruppati in diverse raccolte secondo l'edizione del Gandiglio, tra le quali: Poemata Cristiana, Liber de Poetis, Res Romanae, Odi et Hymni.

Due sembrano essere i temi favoriti del poeta: Orazio, poeta della mediocritas, che Pascoli sentiva come suo alterego e le madri orbate, cioè private del loro figlio (cfr. Thallusa, Pomponia Graecina). In quest'ultimo caso il poeta sembra come ribaltare la sua esperienza personale di orfano, privando invece le madri del loro ocellus ("occhietto", come Thallusa chiama il bambino). I Poemata Cristiana sono da considerarsi il suo capolavoro in lingua latina. In essi Pascoli traccia attraverso i vari poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente: dal ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota (Centurio), alla penetrazione del Cristianesimo nella società romana, dapprima attraverso gli schiavi (Thallusa), poi attraverso la nobiltà romana (Pomponia Graecina), fino al tramonto del paganesimo (Fanum Apollinis).

[modifica] Critiche

Gianfranco Contini ha osservato i «pasticci» fatti dal Pascoli sulla storia d'Italia. Carlo Emilio Gadda, intervistato da Alberto Arbasino, li definì «ridicolissimi»: quando per esempio Pascoli cerca di inseguire contemporaneamente la retorica di Carducci e di D'Annunzio... così l'Inno a Torino[1], per l'Esposizione del Cinquantenario dell'Unità d'Italia, a suo avviso risulta una scemenza: «Toro divino ch'oltra due fiumane... - ...sbalzando al piano, corneggiando al vento...». E sulla poesia Garibaldi vecchio a Caprera, Gadda commenta il verso "cova il fuoco, cova il suo pensiero" «così gallinesco, così poco dignitoso.» «E poi rimemora i suoi anni giovanili sotto forma de "lo stallone e la sua gioventù". Ma è vagamente ridicola questa epopea dello stallone. Ed è leggermente comico che il Pascoli pretenda di rappresentare i ricordi di gioventù di uno stallone. Però la lirica è particolarmente efficace sia nella terminologia marinaresca e sudamericana con la quale il ricordo viene espresso, sia nei rapidi versi finali: "Più veloce sei tu del pampero, | più del tempo… del tempo che fu…"»[1]

[modifica] Opere

  • 1891 - Myricae (I edizione della fondamentale raccolta di versi)
  • 1896 - Iugurtha (poemetto latino)
  • 1897 - Il fanciullino (scritto pubblicato sulla rivista "Il Marzocco")
  • 1897 - Poemetti
  • 1898 - Minerva oscura (studi danteschi)
  • 1903
  • 1904
    • Primi poemetti
    • Poemi conviviali
  • 1906 - Odi e Inni
  • 1907
    • Canti di Castelvecchio (edizione definitiva)
    • Pensieri e discorsi
  • 1909
    • Nuovi poemetti
    • Poemi italici
  • 1911-1912
    • Poemi del Risorgimento
    • La grande proletaria si è mossa

[modifica] Opere in latino

Presentate nel certame poetico Hoeufftiano di Amsterdam

  • Veianius. 1892 medaglia d'oro
  • Phidyle. 1894
  • Laureolus.1894.
  • Castanea. 1896
  • Cena in Caudiano Nervae. 1896 medaglia d'oro
  • Iugurta. 1897
  • Centurio. 1902
  • Paedagogium. 1904
  • Fanum Apollinis. 1905
  • Rufius Crispinus 1907 medaglia d'oro
  • Ultima linea 1907
  • Ecloga XI sive Ovis Pecularis. 1909
  • Pomponia Graecina. 1910 medaglia d'oro
  • Fanum Vacunae. 1911
  • Thallusa 1912 medaglia d'oro

Altre opere

  • Hymnus in Romam. Anno ab Italia in libertatem vindicata quinquagesimo. Testo latino e traduzione italiana, Bononiae, N. Zanichelli, 1911
  • Hymnus in Taurinos. Testo latino e traduzione italiana, Bononiae, N. Zanichelli, 1911

[modifica] Note

  1. Arbasino (1977), pp. 339-71

[modifica] Bibliografia

  • Antonio Piromalli, La poesia di Giovanni Pascoli, Pisa, Nistri Lischi, 1957
  • Gian Luigi Ruggio, Giovanni Pascoli: tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta (in appendice un'ampia antologia dei suoi versi migliori), Milano, Simonelli, 1998
  • Maria Santini, Candida Soror: tutto il racconto della vita di Mariù Pascoli la più adorata sorella del poeta della Cavalla storna, Milano, Simonelli, 2005
  • Alberto Arbasino, Genius Loci (1977), published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS) ISSN 1476-9859. Previously published in Certi romanzi (Turin: Einaudi, 1977). artwork 2000-2004 by G. & F. Pedriali. [2]

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