Slavia veneta
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Slavia veneta (sloveno: Beneška Slovenija o Benečija) è la denominazione storica della regione collinare e montuosa nella Provincia di Udine che si estende tra Cividale del Friuli e i monti che sovrastano Caporetto (ora in Slovenia). Il nome deriva dall'epoca della Repubblica di Venezia, quando le Valli del Natisone, abitate prevalentemente da popolazioni di lingua slovena, acquisirono il nome di Schiavonia Veneta. Successivemente il nome si estese ai vicini territori etnicamente sloveni della Serenissima, comprese le Valli del Torre e le località di Breginj (Bergogna) e Livek (Luico) che fanno oggi parte della Slovenia, arrivando ad includere talvolta la Val Resia. La Slavia Veneta viene oggi frequentemente chiamata anche Slavia Friulana o, rifacendosi all'uso locale, semplicemente Benecìa.
Gli slavi si stabilirono in queste zone già in epoca longobarda, tanto che fu proprio il potere longobardo ad imporre il confine orientale tra popolazione carno-romanza e slava, consistente nel limite naturale esistente tra la pianura (romanza) e il territorio montuoso delle prealpi (slavo). La presenza slava si rafforzò probabilmente dopo le invasioni ungare nel IX secolo, allorché il Patriarcato di Aquileia si servì di gruppi di contadini slavi di varia provenienza (perlopiù sloveni dalla Carinzia e Carniola) anche per ripopolare alcune zone della pianura friulana devastate dalle incursioni magiare, e non è escluso che altrettanto possa essere accaduto per le aree montuose. I gruppi etnici slavi della pianura tuttavia vennero presto assimilati culturalmente dalla popolazione friulanofona.
Sotto il regno longobardo l'area beneciana (valli del Natisone ed affluenti, del Torre e del Cornappo) acquistò gradualmente una notevole importanza strategica, in quanto si trovava ai confini con i domini del Sacro Romano Impero. Le popolazioni del luogo costituirono perciò una specie di "corpo di guardia": in cambio della loro sorveglianza gratuita furono esentate dalla servitú della gleba e dal pagamento dei vari balzelli medievali, di contro però veniva loro negata ogni possibilità di migrazione verso la pianura, salvo che non fosse esplicitamente concesso concesso il contrario. Questi loro privilegi continuarono sotto i Patriarchi che ressero lo Stato Friulano dal 1077 al 1420, come pure sotto la Serenissima Repubblica di Venezia.
Le Valli del Natisone assunsero i tratti di un vero e proprio staterello autonomo, situato entro il mosaico di popoli della Repubblica di Venezia, che godeva del privilegio di un proprio potere giudiziario, espletato, osserva Pasquale Guion, "da 12 giudici, annualmente eletti, per ciascuna Valle, presso le rispettive Banche (Mize) di Antro e di Merso. Gli appelli si facevano da Banca a Banca (banchi di marmo). Le pene consistevano in prigionia, dada (berlina) e multe". Era di loro competenza comminare anche la pena di morte.
Tale autonomia venne drasticamente ridimensionata con la soppressione della Serenissima nel 1797, prima nell'ambito dell' Impero Asburgico e dopo il 1866 nel Regno d'Italia.
Nel 1877, nel piccolo centro di San Pietro degli Slavi (ribattezzato in quegli anni San Pietro al Natisone), venne istituita la scuola magistrale, con la precisa volontà di creare una classe di maestri "italianissimi". Gradualmente, l'elite locale e i ceti abbienti delle Valli abbandonarono l'uso del dialetto sloveno, ostentando spesso sufficienza nei confronti della popolazione che continuava a parlarla. Questa situazione d'inferiorità è presente ancor oggi in alcuni strati della gente del Natisone.
Tale processo di italianizzazione ebbe una radicale accelerazione dopo il 1933, quando il fascismo proibì l’uso della lingua slovena in chiesa, dov'era rimasto radicato. Nel 1938 lo scrittore sloveno di origini goriziane France Bevk pubblicò nell'allora Regno di Jugoslavia un libro dal titolo "Il Cappellano Martin Čedermac", nel quale espose, basandosi sulla biografia di un sacerdote del luogo, la lotta contro la soppressione della lingua e cultura slovena voluta dal regime fascista. Il nome Čedermac divenne presto un sinonimo diffuso per tutti i sacerdoti sloveni della Venezia Giulia che si opposero alla politica snazionalizzatrice del fascismo e viene tuttora usato in questo senso.
Dopo la seconda guerra mondiale le popolazioni della Slavia Veneta dovettero subire un clima di sospetto che avvolgeva tutto ciò che riguardava la lingua e la cultura slovena. Frequentemente, chi all’epoca della guerra fredda usava pubblicamente lo sloveno veniva accusato di propaganda comunista o filo-jugoslava, nonostante la popolazione locale fosse in massima parte devota alla causa occidentale e assolutamente aliena all'ideologia comunista. Nonostante la loro dichiarata e dimostrata lealtà allo stato italiano venne loro negata l'autonomia culturale e la protezione linguistica della quale godettero invece gli sloveni delle province di Gorizia e Trieste, storicamente molto più legati alla Slovenia.
La recente legge di tutela della minoranza slovena in Italia ne ha però riconosciuto la presenza per la prima volta, assieme alle popolazioni della Val Resia.