Letteratura sudafricana in lingua inglese
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La letteratura sudafricana in lingua inglese si caratterizzò storicamente, per contrapposizione al ruolo dell' afrikaans come lingua dell'oppressione coloniale, come letteratura di opposizione all'apartheid. A usarla furono sia scrittori sudafricani neri, sia scrittori di ascendenza boera.
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[modifica] Gli inizi
Tradizionalmente, si fa coincidere l'inizio della letteratura sudafricana in inglese con la pubblicazione di The Story of an African Farm (1883), romanzo di Olive Schreiner (1855-1920). Schreiner era figlia di un sacerdote protestante; governante dall'età di quindi anni in una isolata fattoria africana, autodidatta e attenta lettrice dei pensatori inglesi di metà Ottocento.
Il romanzo, che affrontava il tema della condizione della donna nella società coloniale ottocentesca, fu salutato con entusiasmo dalla critica femminista (la stessa Schreiner avrebbe scritto un saggio femminista nel 1911, dal titolo Women and Labour). Viceversa, i neri restano essenzialmente ai margini del mondo descritto dalla Schreiner.
Il tema dell'integrazione etnica appare invece in primo piano nelle prime opere letterarie di scrittori neri, a partire dal romanzo Mhudi (1930) di Sol T. Plaatje (1876-1932). Seppur cresciuto vicino a Kimberley, città dei diamanti e centro trainante dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione del Sudafrica centro-settentrionale, Plaatje descrive un mondo rurale, sul cui sfondo si svolge la vicenda epica della grande espansione ottocentesca verso il nord. L'opera propone un'idea di identità nazionale sudafricana intesa come superamento delle divisioni etniche e tribali, anticipando così l'ideale della rainbow nation del Sudafrica di Mandela. Da un punto di vista formale, Mhudi è la prima opera a usare forme orali e di prestiti linguistici africani, come poi avverrà per la gran parte degli autori che seguiranno.
[modifica] Il tema ricorrente dell'apartheid
La peculiarità del Sudafrica è d'essere stato l'unico paese africano con un (relativamente) numeroso insediamento europeo, fondamentalmente olandesi e britannici, bianchi i cui quadrisavoli già erano nati lì.
Il problema della convivenza con i neri si poneva quindi in termini anormali e fu risolto attraverso il sistema della separazione/segregazione, il regime dell'apartheid. La storia della letteratura sudafricana della seconda metà del Novecento è inestricabilmente intrecciata con l'esistenza di quel regime, che elevava il razzismo a valore.
In The Path of Thunder (1948), Peter Abrahams (1919) poteva ancora immaginare romanticamente la possibilità di un amore che scavalcasse la barriera razziale. Non più in A Wreath for Udomo (1956), particolarmente interessante per il modo con cui anticipa le future contraddizioni degli Stati post coloniali, nei quali prevale il riconoscimento della durezza di una realtà violenta e priva di visibili sbocchi. Da un punto di vista bianco, Alan Paton (1903-1988) aveva provato, nel best-seller internazionale Cry the Beloved Country (Piangi, terra amata, 1948), ad immaginare le possibili strade della conciliazione: lui stesso, e il partito che lo vide tra i fondatori, fu messo a tacere dal regime.
La situazione politica divenne il tema centrale e ineludibile. Poteva variare solo la misura in cui veniva dato spazio all'esperienza privata, sempre vista, comunque, come frammento di una condizione collettiva inaccettabile. In questo senso si caratterizza, ad esempio, la narrativa di Alex la Guma (1925-1985), ricordato soprattutto per A Walk in the Night (1967), che ritrae il mondo quotidiano, con le sue ambiguità e illegalità, del District Six di Città del Capo, dov'era nato. La Guma è anche autore d'eccellenti racconti, un genere quest'ultimo assai praticato dagli scrittori sudafricani, che ha in Es'kia Mphahlele (1919) la figura più interessante della prima generazione.
L'opera maggiore di quest'ultimo è però la sua autobiografia, Down Second Avenue, che ripercorre gli anni dell'infanzia e della giovinezza, fino a quelli che precederanno l'esilio, e che è un viaggio alla scoperta di un'identità individuale che porta verso il riconoscimento di un'identità collettiva (forse proprio per questa ragione, sia lui che altri, poi, spesso praticheranno un genere narrativo che sta a cavallo tra fiction ed autobiografia).
[modifica] Letteratura e politica
Con i primi anni settanta, e dopo la rivolta di Soweto, per lo scrittore africano di colore le coordinate non potevano essere che quelle della censura, del carcere e dell'esilio. Ma l'esilio, già da tempo, era stata una scelta obbligata per molti, fra cui due dei maggiori poeti sudafricani, entrambi meticci (coloured): A. K. Nortje (1942-1970), morto forse suicida, la cui poesia ruota intorno al tema di una difficile definizione di sé, che l'esilio, in senso di perdita e separazione, rende ulteriormente angosciosa; e Dennis Brutus, nato in Rhodesia ma incarcerato in Sudafrica, che coniuga l'impegno civile con un delicato lirismo, trovando nelle indagini delle emozioni e dei sentimenti la definizione e la riposta poetica all'inaccettabilità dell'apartheid.
La produzione poetica sudafricana, come risulta evidente dalle molte pagine ad essa dedicate da enciclopedie e storie letterarie, è quantitativamente notevole, ma di modesta originalità e, fino agli anni settanta, quasi sempre dovuta a scrittori bianchi.
Poi ci fu l'affermazione quasi simultanea di Mongane Serote (1944) e di Mbuyseni Mitshali (1940). Le prime raccolte di Mongane Serote, del 1972 e 1974, uniscono come in Brutus consapevolezza politica ed effusione lirica, esperienza individuale e condizione collettiva, affidata ad un verso sciolto e ad un'originale ricchezza metaforica e linguistica.
Per quanto riguarda Mbuyseni Mitshali, la raccolta d'esordio, Sounds of a Cowhide Drum (1971), legata agli aspetti quotidiani, di duro lavoro e di tragica disperazione delle baraccopoli sudafricane, colpì per la forza drammatica delle sue immagini. Entrambi - Serote e Mitshali - accentuarono in seguito l'aspetto politico della loro poesia, e il loro ruolo di cantori epici, con risultati per la verità disuguali.
Ma nei più recenti monologhi, A Though Tale (1987) e Third World Express, Serote ha ritrovato i modi più convincenti delle prime raccolte. Tra i poeti bianchi si possono citare i nomi di Douglas Livingstone e Stephen Gray.
[modifica] Apartheid
"Apartheid" per molti scrittori significava l'esilio, come per Bessie Head, la cui terra d'esilio fu il Botswana, anche se l'esilio non è il tema centrale della sua opera. La discriminazione e la rivalità che denuncia è anche quella tra etnie africane, e la condizione che più l'offende è quella dell'oppressione della donna.
Il suo capolavoro, A Question of Power (1974), costituisce, attraverso l'allucinatorio percorso nel crollo mentale della protagonista, un'agghiacciante parabola sul razzismo, sulla discriminazione sessuale e sull'alienazione dell'esilio.
Per uno scrittore bianco e boero come André Brink (1935), apartheid volle dire lasciare l' afrikaans per l'inglese come lingua letteraria. Per un drammaturgo di lingua inglese come Athol Fugard (1932) volle dire sfidarne i divieti nel campo della creazione artistica stessa, lavorando in teatro insieme ad attori di colore, sperimentando un linguaggio teatrale che attingesse alla loro sensibilità attoriale e condizione esistenziale (ma guardando al tempo stesso ai grandi maestri della drammaturgia europea, Bertolt Brecht e Becket su tutti), producendo un teatro povero di dirompente forza drammatica nel rendere, attraverso storie e figure d'ordinaria normalità, il disastro mentale e spirituale che l'apartheid portava con sé.
Ora che quel sistema è caduto e che la denuncia del presente non costituisce più un fattore fondante della rappresentazione delle sue opere, i suoi drammi mantengono intatta la loro forza. Essi restano uno degli esempi più alti del teatro di lingua inglese, di un linguaggio drammatico capace d'inchiodare alla sedia lo spettatore, facendo ricorso alla più spartana essenzialità dei mezzi teatrali e di un'invenzione drammaturgica che a partire da una realtà specifica, storicamente determinata ed ora superata, racconta vicende che assumono valenze e significati che la trascendono, per assurgere a ritratto delle tensioni, dei conflitti e della tenebra, che caratterizzano la condizione umana.
[modifica] Gordimer e Coetzee
Le due maggiori figure della letteratura sudafricana, o comunque quelle con un maggior credito internazionale, sono Nadine Gordimer e J. M. Coetzee.
Gordimer (1923), premio Nobel per la letteratura nel 1991, figlia di un lituano emigrato da ragazzo in Sudafrica e di un'inglese, esordì nel 1949 con una raccolta di racconti, a cui seguì nel 1953 il romanzo autobiografico The Lying Days.
La sua opera narrativa, in una lunga prima fase, è lo specchio dell'aporia morale e politica che investe il Sudafrica dell' aparheid e rappresenta anche, al tempo stesso, un incitamento ai bianchi liberali ad opporsi al regime (ragion per cui fu spesso dai bianchi considerata una traditrice; e dai neri, almeno da quelli più radicali, una parolaia).
In realtà, i suoi romanzi, sin da A World of Strangers (Un mondo di stranieri, 1958), e, con una progressione costante, Occasion for Loving (Occasione d'amore, 1963), "The Late Bourgeois World" (Il mondo tardoborghese, 1966), Burger's Daughter (La figlia di Burger, 1979), invocano con sempre maggior imperiosità il bisogno di un impegno radicale di fronte all'inefficacia delle posizioni liberali.
Di pari passo, e il tema diventerà poi evidentissimo in July's People (Luglio, 1991), l'accento si sposta sul possibile destino dei bianchi (e sul senso stesso della loro appartenenza alla terra sudafricana) di fronte all'inevitabile rivoluzione che cancellerà il regime dell'[[apartheid]]. E così, nelle opere più recenti, il tema quasi d'obbligo sarà quello dei dilemmi di un mondo in rapida ed impressionante transizione. Gordimer ha dichiarato d'aver sempre praticato, nella sua narrativa, una "libera trasformazione della realtà" per dare significato alla vita così come la conosceva e la sperimentava. La ricreazione letteraria della realtà da lei vissuta è quella che indaga nell'animo dei Sudafricani bianchi, che mostra come l'apartheid fosse motivo d'umiliazione, di perdita di dignità, d'alienante spaesamento, anche per molti di loro stessi.
Il suo romanzo più emblematico è The Conservationist (Il conservatore, 1974), la storia di un industriale bianco che si compra una fattoria, un pezzo di terra africana: ma quella terra, quella natura, gli sono estranee, non saranno mai "sue".
Gordimer (pur con alcune eccezioni e pur con una certa attenzione, specie nella seconda fase, alla forma della narrazione), si affida ad una scrittura di tipo realistico.
Non così J. M. Coetzee (1940), per definire la cui opera l'aggettivo più frequente è quello di postmoderno. Coetzee (che, nonostante il cognome, è di formazione inglese) si rivolge apertamente al patrimonio letterario europeo e a volte i suoi romanzi prendono addirittura le mosse da un confronto diretto con i suoi grandi esponenti, Kafka, Defoe, Dostoevskij, forse anche nella ricerca di un'autorità che dia diritto di parola al suo raccontare, che scavalchi l' impasse dello scrittore coloniale di fronte alla narrazione della colonia.
Nel primo romanzo, Dusklands (1974), coesistono due narratori e due storie, quella settecentesca di Jacobs Coetzee e dell'indigeno Namaqua della zona del Capo, e quella contemporanea di un americano impegnato nel sostegno pubblicitario della guerra in Vietnam, avvicinate dalla stessa indagine sulla violenza connaturata all'impresa coloniale.
In Foe (1986), la protagonista Susan Barton finisce sull'isola di Robinson Crusoe e di Venerdì (a cui è stata legata la lingua) e una volta riportata a Londra chiede allo scrittore Foe di raccontare la sua storia, mentre quella dell'indigeno Venerdì è significativamente affidata al silenzio.
In Age of Iron (Età di ferro, 1990), invece, l'autorizzazione a narrare si direbbe data dalla malattia terminale della classicista Elizabeth Curren, che in un memoriale scritto alla figlia racconta l'ultima fase della sua vita, divorata dal cancro, come il Sudafrica dell' apartheid, ormai destinato alla fine, è divorato dal medesimo.
E infine si potrebbe dire che la protagonista di In the Heart of the Country (Deserto, 1977) è autorizzata a narrare dalla forma diaristica: 266 paragrafi di varia lunghezza, che descrivono il tempo passato su una barbara frontiera ad accudire il padre fino alla morte. In fondo è un memoriale anche quello del narratore di Waiting for the Barbarians (Aspettando i barbari, 1980) - romanzo dal valore universale di denuncia di qualsiasi regime poliziesco, ma il riferimento alla situazione sudafricana è più che evidente -, un magistrato di un remoto insediamento ai confini di un qualche impero. Mosso a pietà dalle torture inflitte ad una ragazza barbara (cioè della gente che un tempo viveva su quella terra), la riporterà tra i suoi e al suo ritorno verrà imprigionato in quanto "complice del nemico". Quando proverà a scrivere ciò che è accaduto si renderà conto che forse solo quando il nemico, i barbari, saranno davvero alla porta, incomincerà "a dire la verità".
[modifica] Letteratura come verità
Nell'ultimo decennio del Novecento, i barbari hanno varcato quella porta. Dire la verità è addirittura diventato, attraverso pubbliche e formali dichiarazioni rese ad un'apposita commissione, uno dei modi con cui si è cercato di superare il passato riconoscendone, naturalmente, le colpe.
È tuttavia un processo difficile, lacerante, in cui la speranza si mescola alla paura, in cui l'odio e la violenza si contrappongono alla volontà di creare un mondo nuovo. Tutto questo lo ritroviamo nel romanzo di Coetzee che ha chiuso il secolo Disgrace (Vergogna, 1999), un'opera carica dell'ambiguità della grande letteratura, in cui si può leggere tanto l'amarezza e lo sconforto quanto la possibilità della speranza.
[modifica] Bibliografia
- Ashcroft B., Griffiths G. e Tiffin H., The Empire writes back, Routledge and Kegan Paul, Londra 1989
- Ashcroft B., Griffiths G. e Tiffin H., The Post-colonial Studies Reader, Routledge and Kegan Paul, Londra 1995
- Joubert Annekie, The power of performance: linking past and present in Hananwa and Lobedu oral literature, Berlino 2004
- Walder D., Post-colonial Literatures in English, Blackwell, Oxford 1998
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