Morte di Mussolini
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La morte di Benito Mussolini, capo del fascismo (e, al tempo, della Repubblica Sociale Italiana), avvenne in circostanze drammatiche e non ancora del tutto accertate. Non c'è ancora chiarezza sulle modalità dell'esecuzione di Mussolini e Claretta Petacci intorno al 28 aprile 1945, nei pressi di Dongo, La circostanza continua ad alimentare polemiche e congetture tanto fra i simpatizzanti del fascismo, quanto fra gli oppositori, mentre fra gli storici e i giuristi si dibatte ancora, oltre che sulla qualificabilità dell'atto come esecuzione di una condanna a morte comminata dal CLNAI o come semplice atto d'impulso, sugli eventuali moventi specifici e sugli eventuali mandanti.
Fra gli storici non mancano posizioni antitetiche circa alcuni punti cui si attribuiscono spiegazioni affatto diverse, a partire dal motivo del viaggio dell'autocolonna su cui il dittatore fu catturato, che alcuni vogliono in fuga per la Svizzera, mentre per altri era un semplice ripiegamento verso la Valtellina.
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[modifica] Ricostruzione storica
Gli elementi storicamente certi della vicenda, per tali intendendosi quelli che all'attendibilità delle versioni affiancano la non probabilità di ipotesi contrarie, sono davvero pochi.
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, ormai sempre più vicina, la sera del 25 aprile Mussolini lascia Milano e fugge verso la Svizzera. La notte si ferma a Menaggio.
La mattina del 26 aprile riparte travestendosi con un'uniforme nazista e sale su un camion di soldati tedeschi facente parte di un'autocolonna in ritirata verso la Valtellina. Il 27 aprile, vicino a Dongo, i partigiani individuano la colonna e cominciano a fare un controllo. Mussolini viene riconosciuto da un partigiano, Bill, e immediatamente catturato.
La mattina del 28 aprile viene fucilato a Giulino di Mezzegra, insieme all'amante Claretta Petacci, al fratello di questa (non legato al fascismo in nessun modo se si esclude tale parentela), l'allora rettore dell'università di Bologna, Nicola Bombacci (tra i fondatori del PCI) ed alcuni gerarchi. Eseguite le condanne, il 29 aprile i cadaveri vengono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto, ove la folla, memore del macabro spettacolo ivi inscenato il 10 agosto del 1944 dai tedeschi che vi avevano fucilato 15 patrioti innocenti, dileggiandone i cadaveri, si accanisce contro i corpi. I cadaveri vengono issati (a testa in giù) appesi alla pensilina di un distributore di carburante.
Fin qui l'esigua traccia certa. Di qui si innestano invece diverse altre ricostruzioni che, si badi, non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo. Sono stati perciò sollevati dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, ad esempio luoghi e persone.
[modifica] Il colonnello Valerio
Walter Audisio (conosciuto anche col nome di battaglia di colonnello Valerio o colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.
Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivarono alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti, di voler fucilare i prigionieri.
Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, dove l'ex dittatore era tenuto prigioniero.
Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.
Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto davanti a villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).
Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.
Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a villa Belmonte. Alle 17.48 tutti i 16 gerarchi erano morti.
Valerio partì per Milano verso le 20 coi cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 del 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.
[modifica] Piazzale Loreto
Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il comitato emise subito un messaggio di deplorazione che firmarono persino i comunisti. Ma nessuno ebbe il coraggio di dire chi dette quell'ordine. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944 i tedeschi avevano trucidato quindici partigiani per rappresaglia lasciandoli in custodia ai suoi uomini per poi partire verso il comando generale.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani di guardia dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passa-parola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava qui una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.
Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e rubato lo stivale destro.
Alle 11, per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, gli stessi furono appesi per i piedi ad un traliccio di una pompa di benzina: si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci (per la quale una mano pietosa procurò una molletta per tenere a posto la gonna), di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino (capo della provincia di Torino) , di Achille Starace (appena catturato, mentre ignaro di tutto correva per il suo quotidiano footing, e fucilato), di Francesco Maria Barracu e di un'altra persona rimasta sconosciuta.
Verso l'una del pomeriggio una squadra di partigiani, su ordine del comando, entrava in piazza e deponeva i cadaveri.
[modifica] Le traversie della salma
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Dopo l'autopsia, che individuò la causa mortis nella recisione dell'aorta da parte di un proiettile, la salma di Mussolini fu seppellita nel cimitero Maggiore di Milano. Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne mèta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.
La notte tra il 23 e il 24 aprile 1946 tre ex simpatizzanti fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi decisero di portar via la salma. Si sospettò che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini (i più probabili diretti interessati) erano, quasi ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Il 7 maggio dopo aver fatto vanamente girare la salma per tutta Milano, Domenico Leccisi decise di consegnarla a Padre Parini, del convento di Sant'Angelo.
La salma rimase nel convento per qualche tempo fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta.
Il corpo fu quindi consegnato ai frati del convento di Cerro Maggiore, presso Legnano, che la nascosero sotto un altare fino al 1957, anno in cui la salma fu riconsegnata alla famiglia per essere seppellita nel cimitero di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio.
In anni successivi, furono sollevate voci circa una presunta falsificazione degli esiti dell'autopsia, e fu sostenuto che il dittatore sarebbe stato sottoposto a sevizie; da alcuni si è affermato che anche la Petacci sarebbe stata oltraggiata, prima o dopo il decesso. Di entrambe le tesi non si hanno però prove oggettive.
[modifica] Il carteggio Mussolini-Churchill, ovvero la pista inglese
Mussolini non aveva mai disdegnato una tradizione nazionale di schedature e fascicolazioni, anzi aveva potenziato, quando era al potere, le organizzazioni di controllo. Risulta addirittura che avesse costruito un suo personale archivio di schede nelle quali si raccoglieva tutto quanto, di privato e di pubblico, si potesse sapere dei personaggi più importanti italiani stranieri. È noto, ad esempio, che vi fosse una scheda su Umberto II di Savoia e sulla sua presunta omosessualità, sebbene nulla si sappia né di questa scheda, né del suo contenuto e quindi delle effettive preferenze del principe (alcuni storici infatti, soprattutto in area anglosassone, paiono assai interessati a questo punto). Ed è noto che tutti i principali esponenti vaticani, a partire certamente dall'attivissimo mons. Montini, erano stati ben seguiti, descritti e analizzati.
Le schede di Mussolini non si trovarono mai. Fu ritrovata qualche traccia dell'archivio segreto, ma mai le schede più importanti, che si suppone che Mussolini abbia voluto sempre portare con sé nei momenti più difficili, sia il 25 luglio 1943 che abbandonando Salò per l'ultimo viaggio. Erano probabilmente in quelle cartelle che teneva strette a sé, alle quali forse attribuiva il potere di salvargli la vita, magari come arma di ricatto, e che andarono "perse".
E forse oltre alle schede, in quelle cartelle, c'era anche il carteggio con Churchill.
I rapporti di Mussolini con il premier inglese erano infatti un po' meno ostici di quanto la propaganda potesse far apparire: grazie alla mediazione di Dino Grandi, che a Londra fungeva quasi da "agente generale diplomatico", Mussolini aveva stabilito un buon canale di comunicazione diretto con il suo omologo inglese, e pare assai probabile che i loro rapporti non si siano del tutto interrotti con la belligeranza. Grandi, prudente mediatore ed abile affascinatore, aveva negli anni di neutralità avvicinato non poco l'Italia alla Gran Bretagna, ed egli stesso era divenuto "di casa" presso tutte le istituzioni inglesi, al punto che Mussolini era arrivato a dubitare del suo patriottismo richiamandolo in sede; ciò malgrado, Mussolini gli era debitore dello spessore dei rapporti con Churchill, che si era accresciuto oltre le previsioni (e le dichiarazioni) e, nonostante le reciproche campagne nazionalistiche sguazzassero spesso nell'insulto, i due erano entrambi convinti di avere qualche destino da condividere. Entrambi avevano vedute politiche di lungo spettro ed entrambi paventavano un potenziale successo tedesco, come quello sovietico, come quello americano, quest'ultimo eventualmente conseguente alle cospicue manovre di interessamento che da Washington si intensificavano sui cieli europei.
Inoltre, la questione mediterranea restava un importante nodo che solo i due stati, ed essi soli, avrebbero potuto gestire con tanta agilità quanto vantaggio: stante la supremazia pressoché assoluta delle rispettive marine militari, Italia ed Inghilterra avrebbero potuto, coordinate in un'eventuale alleanza, facilmente appropriarsi di quelle acque, condizionare perciò i rapporti fra l'Europa e l'Africa (strozzando anche il colonialismo francese in quel continente), oppure impadronirsi dei canali di rifornimento petrolifero, dal Medio Oriente ed attraverso il Canale di Suez. Non si è escluso che lo stesso Churchill possa aver favorito alcuni pour-parler anche nel timore di una possibile soluzione, prevista e poi effettivamente verificatasi, in stile "Yalta".
Vi erano perciò molti punti sui quali, secondo molti osservatori, si sarebbero allestite trattative dirette, del tutto prescisse dagli accordi che le parti avevano al momento in corso con altre potenze. E potrebbe darsi il caso, si sostiene, che nelle famose cartelle ve ne fosse un'imbarazzante, quanto eventualmente perniciosa, traccia documentale. Anche perché le dette affermazioni di Mussolini sulla loro importanza parrebbero condurre a documenti di almeno simile importanza e, seppure nell'appannamento della disfatta, non pare credibile che Mussolini pensasse di salvarsi - come pure fu sostenuto - ricattando ad esempio Umberto per (peraltro non provate) stravaganze private.
L'esistenza del carteggio è stata per lungo tempo negata, sia da parte italiana che da parte inglese. In un primo tempo anche Renzo De Felice si mostrò scettico, salvo poi effettuare una ricerca specifica che lo avrebbe indotto a parlare di "congiura del silenzio" e ad ipotizzare che non solo l'esistenza del carteggio era nota da prima della guerra, non solo il carteggio sarebbe stato intenzionalmente cercato, trovato e distrutto, ma che con il carteggio si sarebbe distrutto altro materiale detenuto da Mussolini, ad esempio sul delitto Matteotti (su questo De Felice si sarebbe poi scontrato violentemente con Palmiro Togliatti), e su altre vicende riguardanti la sinistra italiana.
L'inchiesta di alcuni giornalisti, fra cui Peter Tomkins, ex agente segreto americano a Milano durante la guerra, trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "La Grande Storia", formulò l'ipotesi che Mussolini sia stato ucciso da agenti segreti inglesi interessati a impossessarsi del carteggio fra Churchill e Mussolini.
Il carteggio sarebbe stato compromettente per Churchill - si sostiene - perché ipotizzava una pace separata in funzione anti-sovietica. L'inchiesta riporta la testimonianza di Bruno Giovanni Lonati, a quel tempo partigiano comunista nelle Brigate Garibaldi a Milano, che dice di essere stato, insieme ad un agente italo-inglese di nome John, l'esecutore materiale dell'uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci. [1] [2]
Bruno Lonati, tra i pochi presunti attori di questa vicenda ancora in vita, sostiene anche l'esistenza di una foto che proverebbe la sua versione dei fatti. Questa foto, segretata insieme al rapporto sulla missione, sarebbe custodita a Milano all'ambasciata inglese che, nonostante siano ormai trascorsi i 50 anni previsti dal segreto militare, si rifiuterebbe di rendere pubblica.
I sostenitori di questa ipotesi ricordano che nell'immediato dopoguerra lo statista inglese, ormai privato cittadino, insieme a membri del suo entourage compì numerosi viaggi e soggiorni turistici in località del Lago di Garda e del Lago di Como, zone in cui Mussolini svolse la propria attività negli ultimi anni o che furono teatro del suo tentativo di fuga. Quivi si sarebbe più volte "per caso" incontrato anche con Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, e con il suo fidatissimo comandante Nesi, i quali pur non condividendo con Churchill la presunta passione per la pittura, trovarono qualche argomento per riempire lunghe conversazioni.
Il carteggio, conclude l'inchiesta, se è esistito e se è stato ritrovato, non sarebbe stato reso pubblico perché chi ne conosceva l'esistenza temeva le conseguenze politiche della diffusione, in uno scenario in cui i rapporti fra le potenze vincitrici cominciavano a deteriorarsi.
Tra le ipotesi che si sono avanzate c'è anche quella che immagina che gli inglesi nel 1940 abbiano chiesto a Mussolini di entrare in guerra al fianco dei tedeschi per ammorbidire le richieste di Hitler ai francesi alle trattative di pace che presto si sarebbero dovute tenere. Questa ipotesi, si noti, non gode però di gran seguito, al contrario di quella affine che vorrebbe che Churchill avesse caldeggiato un intervento di Mussolini su Hitler perché volgesse le sue principali attenzioni al fronte sovietico, ciò che, si è congetturato, potrebbe finalmente fornire una ragione alle due spedizioni italiane (CSIR e ARMIR) sul cammino detto dei "girasoli".
[modifica] I dubbi italiani
Di quasi tutti gli elementi delle cronache si è dubitato, talvolta con clamore, spesso con gusto per l'intrigo, in qualche occasione con baccanali dietrologici, in un senso o nell'altro. Data la scarsa disponibilità di dati certi, si alimentarono nel corso del tempo ipotesi delle più disparate, aprendo a potenziali scenari di vasta portata.
Sull'argomento sono stati scritti molti testi, una buona quota dei quali con l'intento di abbattere una presunta "verità ufficiale" che ne avrebbe mascherato d'altre più imbarazzanti. Nonostante una neutralità sulla materia sia rarissima anche in storia, la mole delle ricerche effettuate si è tuttavia tradotta in numerosi spunti interessanti anche in ricerche scopertamente "a tema". Il fatto che la verità ufficiale - se di tale si tratta - sia stata eventualmente "confezionata" dalle sinistre, spiega perché la ricerca "alternativa" sia principalmente provenuta da destra, col noto esempio del testo di Giorgio Pisanò.
[modifica] Chi era Valerio, e cosa fece?
Innanzitutto si è messo in dubbio che davvero il ragionier Audisio fosse il "colonnello Valerio". La modesta figura dell'uomo, non significativa, con l'eccezione del periodo di confino a Ponza (trattamento riservato però a molti altri militanti comunisti, non davvero tutti di rilievo), ma a posteriori confermata nella sua "banalità" dal silenzioso seguito impiegatizio della sua vita, fece dubitare che ad un ruolo tanto importante, addirittura comportante una modifica del corso della storia, fosse stato chiamato un ometto di poco passato, di non brillante presente e di non più grandi orizzonti.
Si è supposto che Audisio non sia stato altro che una copertura per qualcun altro, cioè che Audisio si sia attribuito questo ruolo, eventualmente richiestone, per stornare l'attenzione da personaggi ben più di spicco, che non avevano interesse a figurare come gli esecutori di Mussolini e della Petacci e che urgevano allontanare da sé i sospetti. Uno dei "papabili", cui poteva essere stato in verità affidato tale incarico, era Luigi Longo, che sarebbe in seguito divenuto segretario nazionale del PCI, e che, sempre intorno a questi accadimenti, fu citato a margine anche delle vicende relative al cosiddetto "oro di Dongo"; ma furono fatti anche altri nomi, come quello di Sandro Pertini (sebbene principalmente perché orgoglioso autore in precedenza di alcuni atti violenti contro altre personalità - come le fucilate contro la residenza di Umberto II - che per suo conto aveva già da tempo comminato la condanna a morte). Longo, che assunse più nomi di battaglia durante la resistenza, restò fra gli storici il più accreditato fra i potenziali "veri" autori, mentre l'autoaccusa di Audisio fu da molti presa come appunto una semplice macchinazione; contribuì certo a questo convincimento l'espresso racconto proprio in questo senso prodotto da uno dei partigiani che avevano catturato Mussolini.
Se Audisio del resto si fosse autoaccusato dell'omicidio al posto di altri, avrebbero trovato spiegazione le discrepanze fra i suoi racconti, incoerenze ed imprecisioni che si faticherebbe altrimenti a considerare "normali": se davvero Audisio era Valerio, e se davvero Valerio aveva ucciso Mussolini, si sostenne, sarebbe stato assai probabile che ne avrebbe ricordato per sempre con minuzia e precisione ogni dettaglio. Non avrebbe cioè provato tanta difficoltà a ricordare allo stesso modo la stessa cosa in occasioni diverse. E vi sono poi nei suoi racconti anche affermazioni che destarono perplessità. Molti osservatori effettivamente hanno trovato alquanto singolare l'affermazione che Cadorna avesse trasmesso l'ordine di uccidere Mussolini, sia perché eccessivo per la posizione del generale (del quale si dubitò che, nonostante fosse il comandante del Corpo dei Volontari della Libertà, potesse avere la necessaria autorevolezza), sia perché del tutto antitetico anche ad alcune disposizioni contenute nell'armistizio di Badoglio. Principalmente, invero, un simile ordine avrebbe piuttosto dovuto pervenire da una qualche "autorità" più prettamente politica del fronte partigiano, ad esempio - eccolo citato ancora una volta - da Longo, da Pertini, da Valiani o da altri di pari rango.
Minore, ma non meno difficile da classificare, era anche il contrasto fra la paterna ammonizione impartita alla Petacci ("Mettiti al tuo posto se non vuoi morire anche tu") e l'effettiva uccisione della stessa, atto poi di fatto da tutti condannato, anche poiché la Petacci non aveva mai avuto, né preteso, la possibilità di imporre influenze politiche.
Ma soprattutto era proprio la dinamica raccontata ad apparire poco credibile.
[modifica] Chi sparò a Mussolini? E dove?
Audisio-Valerio, come noto, disse di aver sparato personalmente, dopo aver superato singolari inceppamenti di tutte le sue armi (avvenuti per di più, dopo averle - stranamente - provate prima dell'uso), e di aver dato il colpo di grazia. Anche gli altri, suppostamente presenti, affermarono lo stesso. Taluni affermarono poi che a sparare fosse stato un italiano agente inglese, un tal Max Salvadori che si faceva chiamare, con poca originalità, "John". E vi fu anche il deputato comunista Massimo Caprara (che fu segretario di Togliatti) il quale sostenne essersi trattato di un tal Aldo Lampredi (forse il partigiano "Guido"), in realtà oscuro ma fedele ed eroico funzionario del Komintern. Non tutti evidentemente potevano aver contemporaneamente detto la verità.
Corollario di questa articolazione di versioni era poi la discrepanza sulla località di esecuzione.
[modifica] Bibliografia
- Bruno Giovanni Lonati. Quel 28 Aprile. Mussolini e Claretta: la verità. Mursia, 1994. ISBN: 8842517615
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