Eversione dell'asse ecclesiastico
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Con l'espressione eversione dell'asse ecclesiastico si indicano gli effetti di due leggi post-unitarie, e segnatamente la legge 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose, e la legge 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico.
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[modifica] Il contesto storico
L'eversione fu la risposta dello Stato al dissidio politico con la Santa Sede, ostile all'affermazione dei "compiti di benessere" dello Stato in favore dei cittadini. Tale dissidio sarà ricomposto solo con la firma dei Patti Lateranensi nel 1929.
Con questo Concordato, il Regno d'Italia si impegnava a "stipendiare" con la "congrua" i presbiteri titolari di un beneficio ecclesiastico, per compensare in qualche modo la espropriazione dei beni immobili che la Chiesa cattolica aveva subito a partire dal 1850 (con le leggi napoleoniche) e fino a tutto il 1871.
[modifica] La ratio legis dell'eversione
Con queste due leggi, lo Stato italiano operò per la prima volta una forma di intervento diretto nell'economia (le leggi erano il punto di arrivo di tutto il riformismo agrario borbonico, nato nel periodo illuministico), togliendo il riconoscimento di «ente morale» a tutti gli ordini, corporazioni nonché congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i beni ecclesiastici.
I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato vennero poi concessi ai Comuni e alle Province (con la legge del 1866, art. 20), previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro il termine di un anno dalla presa di possesso.
Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei fabbricati monastici.
Spesso, numerose chiese vennero allora indicate come "monumentali" per evitare gli effetti dell'art. 33 della legge del 1866, e cioè per evitarne la chiusura e l'acquisizione al demanio. Ciò accadde ad es. nel caso del chiostro e della chiesa di S. Nicolò in Catania, riconosciuto come "monumento" dal Ministero della Pubblica Istruzione con un decreto speciale del 25 giugno 1869.
L'intervento istituzionale di privatizzazione operato nel 1866/1867 non era isolato: lo Stato aveva cominciato ad incidere sull'assetto della proprietà nel 1861 con la cd. quotizzazione dei demani comunali, e nel 1862 con una legge di alienazione del demanio dello Stato, culminando nel 1866 e 1867 con le due leggi di eversione dell’asse ecclesiastico: complessivamente, furono immessi sul mercato oltre 3 milioni di ha (2,5 soltanto nel Sud) con modalità che sono state però criticate dagli storici e dai giuristi.
[modifica] L'eversione nel Regno delle Due Sicilie
La soppressione di molti ordini religiosi ebbe conseguenze negative sul potere degli enti ecclesiastici nell'ex Regno di Napoli: le due leggi del 1866 e 1867 generarono notevoli guadagni all’erario e permisero la redistribuzione di un’enorme quantità di beni immobili, essendo stati soppressi ben 117 monasteri su un totale generale di 1322 soppressi in tutto il regno d'Italia.
L'obiettivo delle leggi di eversione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo in cui fu attuata l’eversione delle terre della Chiesa non poteva raggiungere l’obiettivo di risollevare le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovavano nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsto che «i beni nazionali» andavano venduti «esclusivamente» ai creditori dello Stato (in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico.
Invece che risollevare le classi più povere, si ottenne l'effetto contrario di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato.
Particolarmente difficile era la situazione nelle zone rurali, dove il processo di eversione dalla feudalità stava lentamente sostituendo al vecchio feudatario il proprietario unico.
Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine (costituenti il 90% della popolazione meridionale) "che videro recintate le nuove proprietà e soppressi gli usi civici, vale a dire tutti i secolari diritti d'uso (cd. immemoriale), quali far pascolare le pecore, il raccogliere legna o erba (diritti di pascolo, legnatico, erbatico)" (la frase è di A. Desideri).
Erano le premesse per la formazione di una grande e nuova manomorta: il neonato Regno d'Italia si era subito preoccupato (anche per far fronte ad esigenze di bilancio) alla liquidazione delle terre espropriate alla chiesa (cd. asse ecclesiastico), ma non riuscì a redistribuire ai contadini meridionali una qualche proprietà fondiaria, che al contrario continuò ad accumularsi nelle mani della solita borghesia agraria (la quale, assunto così il completo controllo delle amministrazioni locali, provvide ad accaparrarsi anche ciò che restava del demanio e delle terre comunali).
[modifica] Le conseguenze sociali dell'eversione
La feudalità era stata soppressa ma solo sulla carta: la struttura sociale era ancora largamente e profondamente feudale e persisteva infatti sotto forma di latifondo (manomorta).
Questo nuovo assetto sociale creò una situazione difficile, che impose ben presto un deciso potenziamento del controllo poliziesco nei confronti della massa di ex contadini che si aggirava per le campagne anche sotto forma di brigantaggio.
Era nata la cd. questione meridionale: nel 1878, dopo appena un decennio dall'attuazione delle leggi di eversione, Pasquale Villari scriveva nelle sue Lettere meridionali che era necessario «sollevare le classi inferiori, che in alcune province d'Italia stanno in una condizione vergognosa per un popolo civile», sottolineando come questo fosse ormai «divenuto un dovere supremo nell'interesse dei ricchi e dei poveri», per evitare di «veder sorgere pericoli a cui nessuno pensa...Dobbiamo pensarci noi prima che ci pensino le moltitudini».
[modifica] Voci correlate
[modifica] Collegamenti esterni
[modifica] Bibliogafia
- A. Desideri, Storia e storiografia, vol. II, Messina-Firenze, 1988, p. 862
- F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Torino, 1994
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