Paradiso - Canto quindicesimo
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Il canto quindicesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.
Indice |
[modifica] Incipit
Canto XV, nel quale messere Cacciaguida fiorentino parla laudando l'antico costume di Fiorenza, in vituperio del presente vivere d'essa cittade di Fiorenza.
[modifica] Temi e contenuti
- Silenzio dei beati - versi 1-12
- Cacciaguida - vv. 13-69
- Ringraziamento e preghiera di Dante - vv. 70-87
- Elogio della Firenze antica - vv. 88-148
[modifica] Sintesi
Abbiamo assistito nel canto precedente alla descrizione del quinto cielo, il cielo di Marte, ove le anime di coloro che combatterono e morirono per la fede appaiono come rossi splendori vivissimi che cantando formano una croce greca al centro della quale brilla Cristo. Ora queste anime tacciono, spinte dallo spirito di carità, in modo da permettere a Dante di esprimere la propria preghiera. Quest'atto suscita in lui una riflessione che si inserisce nel dibattito contemporaneo: esplicitando l'importanza dell'intercessione dei santi in favore di chi sa pregarli con animo giusto, Dante prende posizione per la teoria sostenuta dalla Chiesa.
In questo clima di suspence, un'anima si stacca dalle altre e, come una stella cadente, percorre la croce fino a Dante e lo accoglie con lo stesso fervore con cui Anchise accolse Enea quando lo incontrò nei Campi Elisi: con questa similitudine tratta dal canto VI dell'Eneide Dante, oltre a rendere un ennesimo omaggio alla sua "maggior Musa" (Virgilio), si paragona implicitamente al suo illustre predecessore Enea, e ribadisce così l'importanza della propria missione (proprio perché come lui egli è ammesso nel regno dell'oltretomba per compiere una missione assegnatagli da Dio). Il personaggio è Cacciaguida, che così saluta Dante in latino:
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«O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui bis unquam coeli ianua reclusa?» |
(vv. 28-30)
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("O mio sangue, o profusa oltre misura / grazia divina, a chi come a te / fu due volte dischiusa mai la porta del cielo?")
A quelle parole, e alla vista di Beatrice (che ride in modo tale da far sentire Dante al sommo del suo personale Paradiso), il poeta rimane stupefatto. Intanto lo spirito continua a parlare, ma in modo così profondo che è oltre il limite della comprensione umana; poi, sfogato l'ardore di affetto, il livello del suo discorso si abbassa così che Dante può di nuovo capirlo, e lo sente lodare Dio. Dopodiché l'anima si rivolge al poeta esprimendogli la gioia di vedere finalmente realizzato un desiderio che lo possedeva da lungi, da quando, arrivato in Paradiso, egli poté leggere nel libro del futuro. Con queste e altre parole lo invita a parlare.
Dopo aver di nuovo guardato Beatrice e aver ricevuto da lui un sorriso di assenso, Dante esprime la differenza che intercorre tra lui e i beati, dal momento che in essi "l'affetto e il senno" (cioè il sentimento e la razionalità, la capacità di esprimerlo) vanno di pari passo, poiché Dio in cui sono uguali amore e sapienza li ha illuminati, mentre nei mortali il desiderio e la capacità intellettuali sono diversi, e perciò Dante ringrazia solo con il cuore ben sapendo di non poter rendere altrettanto bene con le parole. Infine chiede al beato di rivelargli il suo nome.
"O mia fronda, io fui la tua radice (io fui tuo antenato) — risponde —; colui che fu mio figlio e tuo bisnonno espia da cent'anni sulla prima cornice del Purgatorio, ed è giusto che tu gli accorci la pena con i tuoi suffragi". Poi inizia la rievocazione della grandezza morale della Firenze antica, quando egli nacque:
"Firenze era ancora contenuta, sobria e pudica, nella prima cerchia delle sue mura (la seconda fu costruita nel 1173), e le donne non portavano catenelle, corone, gonne ornate, cinture che attirassero su di sé lo sguardo più che sulla persona; la figlia non faceva, nascendo, paura al padre, perché non c'era da sposarla troppo presto e con una dote troppo elevata. Le case non erano ancora vuote di figli, e Sardanapalo non aveva ancora insegnato ciò che a letto si può fare. Firenze non superava ancora Roma nel fasto, così come la supererà nella decadenza: io vedevo andare Bellincione Berti con una cintura di cuoio dalla fibbia d'osso, e sua moglie senza un viso eccessivamente truccato; le famiglie dei Nerli e dei Vecchietti si accontentavano di giubbe di pelli non conciate, e le loro donne stavano a casa a filare la lana: fortunate loro, ché ciascuna era certa di essere sepolta nella propria città, e nessuna si trovava sola nel letto perché il marito stava in Francia a mercanteggiare. L'una si occupava della culla vezzeggiando il bambino con quel linguaggio che tanto diverte i giovani genitori, l'altra filando raccontava le storie di Troia, di Fiesole e di Roma. Allora avrebbe destato tanta meraviglia una Cianghiella o un Lapo Salterello (una donna scostumata e un politico corrotto) quanta oggi ne desterebbe un Cincinnato o una Cornelia (un uomo integro e una moglie onesta)".
In una città così serena, con concittadini fidati e dolce vita, nacque egli, e fu battezzato Cacciaguida nell'antico battistero: suoi fratelli furono Moronto ed Eliseo, sua moglie venne dalla pianura Padana portando il nome che fu poi del figlio (Alighiero). Poi egli seguì l'imperatore Corrado III di Svevia, che lo fece cavaliere, nella seconda crociata, dove morì.
[modifica] Analisi del canto
Questo canto è il primo di un trittico dedicato al personaggio di Cacciaguida (gli altri due sono i seguenti canti XVI e XVII): esso inizia in modo solenne sfumando poi in toni più intimi che preparano la rievocazione della grandezza morale della Firenze antica, in contrapposizione alla presente in cui la società mercantile ha portato — secondo Dante — la ricchezza e la depravazione nella città allontanando i cittadini dal valore spirituale della vita. A presentare questa polemica è Cacciaguida, trisavolo del poeta, personaggio insieme cittadino e cristiano, come dichiara parlando del su battesimo: "insieme fui cristiano e Cacciaguida" (v. 135), sottolineando così l'aspetto sia religioso che civile della sua vita.
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