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Marcia su Roma - Wikipedia

Marcia su Roma

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Alcune camicie nere sfliano davanti al Quirinale, all'epoca residenza reale.
Alcune camicie nere sfliano davanti al Quirinale, all'epoca residenza reale.

La Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu un evento che simbolicamente rappresenta l'ascesa al potere del Partito Nazionale Fascista (PNF), attraverso la nomina a capo del governo del Regno d'Italia di Benito Mussolini. Taluni storici considerano ricompresi nella locuzione alcuni altri eventi collegati, verificatisi fra il 27 ed il 30 ottobre del 1922.

Indice

[modifica] Antefatti e premesse

Nei mesi precedenti (specialmente dopo il luglio 1922 in cui vi era stata una grave crisi), la politica parlamentare viveva le manovre dei popolari di Don Sturzo per un governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando in coalizione coi socialisti, comprendente nel suo programma azioni repressive nei confronti dei fascisti. Il movimento fascista (ormai definitivamente guidato dal solo Mussolini) si trasformava invece in partito, combattendo al suo interno fra spinte volte a scelte rivoluzionarie ed istanze di crescita costituzionale. Mussolini aveva optato per una "via parlamentare"[1] e tenne a freno gli animosi squadristi, e nella sua politica iniziò la ricerca del consenso popolare; profittò perciò propagandisticamente a piene mani del coinvolgimento di Gabriele D'Annunzio nell'occupazione del Comune di Milano (3 agosto 1922 - il Vate si era affacciato al balcone del palazzo occupato ed aveva arringato la folla), per sottindenderne la sua adesione al partito. Del resto, lo stesso Giovanni Giolitti, in un'intervista al Corriere della Sera, aveva sostenuto l'opportunità di una trasfomazione in senso costituzionale del movimento. Nel frattempo, la propaganda affievoliva il carattere repubblicano del movimento, onde non porsi troppo presto in aperto contrasto con (ovviamente) la Corona e le lealissime[2] forze armate.

Iniziò una lunga teoria di incontri e contatti di Mussolini con gli esponenti politici più importanti, onde verificare possibili alleanze, e contemporaneamente vi furono timidi sondaggi e più aperti abboccamenti anche con gli esponenti del mondo imprenditoriale ed economico. Da questi ultimi rapporti, sempre nell'agosto, nacque uno studio di Ottavio Corgini e Massimo Rocca che sarebbe stato pressoché direttamente mutuato in un nuovo programma economico fascista.

Mussolini si risolse a considerare Giolitti il più probabilmente pericoloso dei suoi avversari e perciò dedicò le sue attenzioni a Facta, "figlio" politico di Giolitti e assai devoto verso il suo mentore, che intendeva sganciare dallo statista per coinvolgerlo in ruoli governativi di massimo prestigio politico insieme a D'Annunzio, nel qual caso di Facta avrebbe potuto essere il merito di una eventuale "normalizzazione" dei fascisti. O forse, nei contatti avuti, fu Facta a coltivare questa prospettiva, sfumata l'11 ottobre a Gardone in un incontro fra Mussolini e il Vate nel quale il PNF sottoscrisse accordi con una sorta di sindacato dei marittimi (Federazione del Mare, guidata da Giuseppe Giulietti) che il poeta aveva preso sotto tutela, e questo accordo avrebbe legato anche i due esponenti[3]. Facta aveva in realtà contattato direttamente D'Annunzio, ed insieme avevano pensato ad una marcia su Roma di ex-combattenti guidata dal Vate e da tenersi il 4 novembre al fine di prevenire e rendere eventualmente inefficace quella fascista, di cui già si parlava. Mussolini sacrificò il sindacato fascista dei marittimi (che disciolse) in favore del sodalizio preferito dal poeta, rinunciò a qualche prebenda per il partito da parte della corporazione degli armatori, e l'accordo Facta-D'Annunzio restò senza seguito[4].

D'Annunzio neutralizzato, Mussolini fu ripreso dall'ansia di neutralizzare anche Giolitti ed i preparativi per un'azione spettacolare ebbero inizio. Se su un versante più nitidamente politico si cercava di far vacillare il governo Facta, indebolendolo così da poterne costituire sempre più lucentemente una valida e "forte" alternativa, sul piano "operativo" la Marcia fu preparata in gran segreto fin nei minimi dettagli.

Del proposito circolavano già molte voci che si rincorrevano da e per ogni direzione. Il 14 ottobre, Mussolini scrisse su un giornale un articolo intitolato "Esercito e Nazione", nel quale attaccava Pietro Badoglio per una frase che gli era stata attribuita (l'interessato smentì all'epoca, ma l'avrebbe invece confermata dopo la caduta del regime fascista) e che suonava più o meno come "Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà". Questo scontro sarebbe poi pesato non poco nei sempre difficili rapporti fra Mussolini e il generale. Nel frattempo l'entusiasta e fedelissimo Vilfredo Pareto gli telegrafava sollecitando di accelerare i tempi, "Ora, o mai più".

[modifica] In marcia

Quattro giorni prima della marcia, il 24 ottobre, a Napoli si tenne una grandiosa adunata di camicie nere, raduno che doveva servire da prova generale.

Confluirono nel capoluogo partenopeo 60.000 fascisti, che sfilarono per ore nella città. Mussolini tenne due discorsi, uno al teatro San Carlo, diretto al ceto borghese, ed uno in piazza San Carlo ai suoi uomini. Il capo dei fascisti si espresse abilmente evitando di far trasparire segnali di allarme, ma al contempo rassodando i crescenti consensi sia della popolazione che dei simpatizzanti. La stessa sera, all'Hotel Vesuvio, si riunì il Consiglio nazionale del partito che stabilì le direttive di dettaglio per la marcia. La mattina dopo Bianchi avrebbe lanciato ai suoi uomini il segnale convenuto: "Insomma, fascisti, a Napoli piove, che ci state a fare?"[5] mentre Mussolini sarebbe prudentemente andato ad attendere a Milano gli sviluppi successivi.

A condurre la marcia sarebbe stato un quadrumvirato composto da Italo Balbo (uno dei ras più famosi), Emilio De Bono (comandante della Milizia), Cesare Maria De Vecchi (un generale non sgradito al Quirinale) e Michele Bianchi (segretario del partito fedelissimo di Mussolini); il quadrumvirato avrebbe dichiarato l'assunzione di pieni poteri a Perugia che avrebbe assunto i poteri nella notte tra il 26 e il 27 ottobre. Dino Grandi, di rientro da una missione a Ginevra, era stato nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato.

Truppe fasciste avrebbero poi dovuto occupare uffici pubblici, le stazioni, le centrali telegrafiche e quelle telefoniche.

Le squadre sarebbero confluite a Foligno, Tivoli, Monterotondo e Santa Marinella per poi entrare nella capitale. Si raccolsero - si stima - circa 25-30.000 fascisti, a fronte dei 28.400 soldati a difesa della capitale[6].

[modifica] Dum Romae consulitur...

Facta era rassicurato dagli avvenimenti e dai discorsi tenuti a Napoli, nonché dal fatto che il raduno si era chiuso senza scontri, violenze ed altre degenerazioni. Il 26, però, Antonio Salandra (che si era incontrato con Mussolini quando questi andava a Napoli il 23, e che manteneva i contatti con De Vecchi, Ciano e Grandi) gli riferì che la marcia su Roma stava per partire e che se ne volevano le dimissioni. Facta in realtà non gli credette; la contrapposizione politica fra Facta e Salandra non rendeva l'imbasciata del secondo così influente sul primo, che si limitò ad indire un consiglio dei ministri nel quale cercò di riprendersi le deleghe affidate ai ministri, onde poter disporre di "valori" negoziabili, con Mussolini o con altri. Del resto, in seno al governo, bruciava la questione della posizione di Riccio, fedelissimo di Salandra, che si trovava in condizione di provocare la crisi di governo. Assenti Giovanni Amendola e Paolino Taddei, gli altri ministri accettarono di presentare a Facta le dimissioni e di accettare il loro eventuale avvicendamento con nuovi ministri fascisti.

Il 27 ottobre, Bianchi e De Vecchi vennero a contrasto, il primo mandò addirittura una lettera a Mussolini in cui definiva l'altro disertore. La "colpa" dei De Vecchi sarebbe consistita nel prosieguo - a fianco di Grandi - dei negoziati politici con Salandra, che avrebbe ambito ad un incontro diretto con Mussolini che ripetuitamente chiese invano.

Intanto a Cremona, a Pisa e a Firenze erano già in azione gli squadristi, che prendevano non pacifico possesso di alcuni edifici pubblici. Alle prime notizie, Facta, telegrafò al re Vittorio Emanuele III a San Rossore invitandolo a rientrare, cosa che il sovrano fece nella serata; andandolo a ricevere alla stazione, Facta gli suggerì di applicare lo stato d'assedio, ma il re non accettò (riferì Marcello Soleri) rifiutandosi di deliberare sotto la pressione dei moschetti fascisti.

La notte tra il 27 e il 28 il presidente del consiglio fu svegliato per essere informato che le colonne fasciste erano partite verso Roma sui treni che avevano assaltato.

[modifica] O Roma, o morte

La mattina del 28, alle 6 del mattino, si riunì al Viminale (allora sede della presidenza del consiglio) il consiglio dei ministri che decise di proclamare lo stato di assedio. Il ministro dell'interno Taddei stilò un proclama sulla falsariga di quello che Luigi Pelloux aveva stilato nel 1898, e lo diede immediatamente alle stampe, diffondendolo alle prefetture.

Verso le 8.30, Facta si recò al Quirinale per la ratifica del proclama, ma - con sorpresa del primo ministro - il re si rifiutò: «Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d'assedio non c'è che la guerra civile. Ora bisogna che uno di noi due si sacrifichi». Facta rispose "Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca" e si dimise[7].

Le ragioni del regal diniego alla proposta dello stato d'assedio, con la quale avrebbe di fatto messo fuori legge i fascisti, non sono state dichiarate dal sovrano e sono oggetto di varia interpretazione. Si è vociferato di accordi segreti tra Mussolini e la Corona (ipotesi che però non gode di gran credito), altre voci sospettano che la presenza del filofascista Duca d'Aosta a Perugia (disobbedendo all'ordine del sovrano di restare a Torino) l'avesse portato a temere una crisi dinastica.

Sicuramente il re passò la notte sveglio consultandosi con varie personalità, ma non con Badoglio né con Pugliese, il comandante del presidio di Roma perché li sapeva entrambi decisi a usare la forza. Invece, Armando Diaz, l'ammiraglio Thaon di Revel ed altri influenti ufficiali, avevano avanzato dubbi sulla "tenuta" morale dell'esecito, sconsigliando di sperimentarla in questa occasione poiché le truppe avrebbero potuto far causa comune con i fascisti.

Alle 9.30 un pallido Facta tornò al Viminale per annullare lo stato d'assedio e per chiamare Giovanni Giolitti in suo aiuto, ma questi non avrebbe potuto arrivare a soccorrerlo a causa delle linee ferroviarie interrotte dallo stesso Facta a due chilometri dalla capitale e, il giorno dopo il suo ottantesimo compleanno, non pareva nemmeno tanto disposto a correre.[8]. Alle 11.30 Facta formalizzò le sue dimissioni ed il re procedette come d'ordinario con le consultazioni.

Mussolini intanto restava a Milano, dove veniva costantemente informato sulla situazione romana; i dettagli dal Viminale gli venivano da Vincenzo Riccio, che tramite Salandra li faceva arrivare ai notabili fascisti (cui si era aggiunto Luigi Federzoni). Sapeva che De Vecchi e Grandi cercavano qualche accordo non coerente con il piano generale, ed anche se più tardi li avrebbe accusati d'aver tradito la rivoluzione (Processo di Verona), al momento non li sconfessò pensando che la trattativa avrebbe potuto costituire una buona chance di ripiego nel caso in cui le sue squadre si fossero trovate costrette a smobilitare per l'intervento dell'esercito. Mussolini infatti sapeva bene che i suoi uomini erano sì una minaccia, ma non credeva alla loro forza militare.

Una voce circolata successivamente asseriva che Facta avrebbe in realtà disposto per lo stato d'assedio nella serata del 27, ma che il re avrebbe respinto la proposta. La voce era stata diffusa da Federzoni, che diceva di aver chiamato al telefono egli stesso Mussolini, dal ministero dell'interno, e lasciava supporre che il sovrano l'avesse voluto mettere a parte degli accadimenti romani.

[modifica] Il 28 ottobre

La mattina del 28, a Milano Mussolini riceveva nella sede del Popolo d'Italia (teatralmente "protetta" da cavalli di frisia e rimpinguata di armi) una delegazione di industriali, fra i quali Camillo Olivetti, che lo urgevano a trovare un accordo con Salandra.

Nello stesso momento. a Roma, Salandra proponeva al re di dare l'incarico di formare il governo a Orlando, ma De Vecchi informò il re che l'unica persona con cui Mussolini avrebbe potuto raggiungere un'intesa sarebbe stato lo stesso Salandra. A Mussolini fu, quindi, proposto di governare a fianco di Salandra ma egli rifiutò. Qualche ora dopo, forse anche tentando una forzatura per convincere il capo dei fascisti, il Giornale d'Italia diffuse una edizione straordinaria in cui dava per raggiunto un accordo e per affidato un incarico a Salandra e Mussolini, il quale dopo aver resistito a pressioni di ogni provenienza, compresa una accorata telefonata del generale Arturo Cittadini (su espresso mandato del re), precisò telefonicamente a Grandi che ancora insisteva: «Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la risurrezione di don Antonio Salandra».

La mattina seguente, dopo che le bozze dell'articolo scritto da Mussolini durante la notte erano state diffuse, Salandra vi poté leggere che non c'era niente da fare e, dopo un giro di telefonate di ultima conferma, decise di rimettere l'incarico. De Vecchi fu incaricato da Vittorio Emnanuele di informare Mussolini che gli avrebbe conferito l'incarico. Mussolini rispose: «Va bene, va bene, ma lo voglio nero su bianco. Appena riceverò il telegramma di Cittadini partirò in aeroplano». Poche ore dopo gli giunse un telegramma del generale Cittadini:

SUA MAESTÀ IL RE MI INCARICA DI PREGARLA DI RECARSI
A ROMA DESIDERANDO CONFERIRE CON LEI  
OSSEQUI
                           GENERALE CITTADINI

[modifica] L'esito

Alle 8 di sera Mussolini partì placidamente, ma in treno, alla volta di Roma, dove sarebbe giunto alle 11.30 del 30 ottobre; il convoglio patì un incredibile ritardo dovendo rallentare, e in qualche caso proprio fermarsi, in molte stazioni prese (stavolta gioiosamente) d'assalto da fascisti festanti che accorrevano a salutare il loro Duce.

La voce secondo cui Mussolini si sia presentato al re (vi si recò in camicia nera) dicendogli «Maestà vi porto l'Italia di Vittorio Veneto», pare sia un falso storico, tuttavia Mussolini parlò per circa un'ora col re promettendogli di formare entro sera un nuovo governo con personalità non fasciste e con esponenti di aree politiche "popolari".

Alle 18 presentò il governo, comprendente soltanto tre fascisti di orientamento moderato.

Le camicie nere (in seguito "le camicie nere della rivoluzione") erano ancora accampate intorno alla capitale e comprensibilmente non attendevano che di entrarvi. Furono autorizzati ad entrarvi solo il giorno 30, e la raggiunsero alla meglio, su mezzi di fortuna. Ma erano più che raddoppiati, dai circa 30.000 della marcia, erano ora più di 70.000, cui si aggiunsero i simpatizzanti romani che erano già sul posto. Ci furono scontri e incidenti; nel quartiere di San Lorenzo alcuni operai accolsero con colpi d'arma da fuoco la colonna guidata da Bottai, proveniente da Tivoli, che attraversava l'area in modo relativamente pacifico. La rappresaglia fu spietata: il giorno dopo, oltre 500 Fascisti guidati da Italo Balbo attaccarono di sorpresa il quartiere e lo devastarono. I morti fra gli abitanti furono quasi dieci (tra questi, i responsabili dell'agguato), i feriti oltre duecento, molti dei quali, spesso scaraventati giù dalle finestre delle abitazioni, riportarono lesioni permanenti. Informato dell'accaduto, Mussolini diede alle forze dell'ordine immediate disposizioni per la più severa repressione di qualsiasi incidente.

Il 31 ottobre le camicie nere sfilarono per più di 6 ore dinanzi al re, poi Mussolini ordinò che si iniziassero le operazioni si sgombero.

[modifica] Argomenti correlati

[modifica] Protagonisti

[modifica] Note

  1. Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano, 2000
  2. "leali" al giuramento di fedeltà prestato al re.
  3. De Felice, op. cit.
  4. Indro Montanelli, L'Italia in camicia nera, Rizzoli, Milano, 1976
  5. Secondo Montanelli questa frase l'avrebbe detta a Dino Grandi, appena rimpatriato da una missione diplomatica all'estero.
  6. De Felice, op.cit.
  7. I dettagli sul colloquio furono narrati nel dopoguerra dalla figlia di Facta.
  8. Giovanni Ansaldo, "Giovanni Giolitti, il ministro della buon vita", Le Lettere, Firenze, 2002 - L'Ansaldo menziona in realtà un telegramma del giorno 27.

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