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Storo - Wikipedia

Storo

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Wikipedia:WikiProject/Progetto geografia/Antropica/Comuni Storo
Stato: Italia
Regione: Trentino-Alto Adige
Provincia: Trento
Coordinate:
Latitudine: 45° 51′ 0′′ N
Longitudine: 10° 35′ 0′′ E
Mappa
Altitudine: 409 m s.l.m.
Superficie: 62,88 km²
Abitanti:
4.575 2006
Densità: 72 ab./km²
Frazioni: Darzo, Lodrone, Riccomassimo 
Comuni contigui: Condino, Condino, Bagolino (BS), Brione, Tiarno di Sopra, Bondone
CAP: 38089
Pref. tel: 0465
Codice ISTAT: 022183
Codice catasto: I964 
Nome abitanti: storesi 
Santo patrono: San Floriano 
Giorno festivo: 4 maggio 
Comune
Posizione del comune nell'Italia
Sito istituzionale
Portale:Portali Visita il Portale Italia

Storo è un comune di circa 4.600 abitanti della provincia di Trento.

Indice

[modifica] Geografia

Storo ridente e vago: ha per corona i monti e per confine il lago recita una semplice rima popolare. Storo è posto nella parte meridionale occidentale del Trentino a confine con la Lombardia ove la Strada Statale 237 del Caffaro che da Brescia porta a Madonna di Campiglio si incrocia con la Strada Statale 240 di Loppio e Val di Ledro che collega la Valle del Chiese con la Valle di Ledro Riva del Garda fino al lago di Loppio e termina all'incrocio con la E45 a Rovereto. Il territorio del Comune di Storo è in effetti una piccola contrada, stretta tra rupi alte e scoscese e il lago d'Idro, verso il quale si estende e s'allarga una fertile campagna devastata nei secoli dalle correnti impetuose di fiumi e torrenti. Questi elementi naturali, assieme alla collocazione geografica in una valle prealpina lontana dai centri urbani, hanno segnato nei secoli la storia e l'economia della zona, dando alla gente che la abita una inconfondibile identità.

[modifica] Storia

[modifica] Testimonianze della preistoria e della protostoria

Fitte tenebre avvolgono ancora oggi le origini della comunità di Storo e dei paesi vicini. Soltanto nel sec. XIV la gente che abita il paese di Storo vede precisato il proprio territorio nei rapporti con le comunità vicine e possiede un suo chiaro e strutturato ordinamento interno. Analoga considerazione generale può essere fatta per le comunità di Darzo, Lodrone e Riccomassimo che sono le frazioni, le quali con Storo costituiscono oggi il Comune.

Le prime testimonianze certe della presenza dell'uomo nella zona risalgono a 5.000 anni fa. Nella bella conca di San Lorenzo sulle pendici della Rocca Pagana, di fianco al Dosso Cingol, dove sul finire del medioevo la comunità di Storo erigerà una fortificazione, la cosiddetta "Bastia", sono apparse tracce di un abitato riferibile al neolitico, documentate da numerosi cocci ceramici di stoviglie e vasi e da alcuni strumenti di pietra scheggiata.

Il terrazzo di San Lorenzo era un ambiente particolarmente favorevole ai primi insediamenti umani: presenza d'acqua, possibilità di trovare pascoli, luoghi riparati e soleggiati, con punti di controllo e avvistamento. La piana alluvionale di fondovalle a quel tempo era inabitabile, occupata com'era da un vasto acquitrino frammisto a sterpi e boscaglia e sempre in ebollizione per l'irruenza stagionale delle acque del Chiese e del Palvico. Gli insediamenti umani erano arroccati ai margini, sulle pendici della montagna.

Risalendo nei secoli ed addentrandoci nell'età del bronzo (1800 - 900 a. C.), i ritrovamenti diventano più consistenti e più diffusi. Ne sono avvenuti ancora a San Lorenzo, ma anche in località Nader (o Nar, secondo la forma popolare del toponimo). Qui sono stati trovati numerosi frammenti di ceramica che per le loro caratteristiche si possono far risalire a circa 3.500 anni fa, cioè al periodo corrispondente all'epoca delle palafitte di Ledro.

L'uomo era arrivato a stabilirsi nella nostra terra risalendo a ritroso il corso del Chiese. Il territorio era stato sicuramente cercato come terra di rifugio e la cultura e la civiltà vi si svilupparono in ritardo rispetto ad altre contrade trentine e bresciane.

Verso il 500 a. C. i Galli Cenomani risalirono le valli alpine, combatterono con le popolazioni indigene, edificarono ripari su colline facilmente difendibili (castellieri). Uno di essi sorse, probabilmente, nella zona di San Lorenzo, un altro sul dosso che ospiterà in seguito la Rocca di Santa Barbara. A opporsi alla tribù gallica, nella nostra valle, sono gli Stoni. Ne deve essere seguita una convivenza inizialmente difficile, che portò lentamente alla formazione di una popolazione abbastanza omogenea, tanto che l'irradiazione latina indicherà spesso le popolazioni alpine con l'unica denominazione di Reti.

I Reti avevano insediamenti abbastanza consistenti, disposti attorno alla sorgente comune, senza mura, con abitazioni unifamiliari, seminterrate, con intonaci ed infissi in legno. Forse un loro piccolo villaggio sorse proprio a ridosso del cimitero di Storo, dove sono già apparsi numerosi frammenti di suppellettili domestiche ed artigianali appartenenti al periodo preromano. Sono visibili anche alcune strutture murarie a secco e numerosi ciottoli fluviali che forse rappresentano i resti di pavimento. Possiamo dunque già pensare a un vero e proprio villaggio: fu questo il primo nucleo abitato dell'antica Storo!

[modifica] L'arrivo dei Romani

Al momento della conquista romana il territorio del lago d'Idro era abitato dalla tribù retica degli Edrani. I Romani li conquistarono durante il primo secolo a.C., ma già vi avevano fatto un'apparizione, non senza spargimento di sangue, nel 118 a.C., quando il console Quinto Marcio Re aveva compiuto una spedizione contro gli Stoni. L'occupazione definitiva si ebbe sotto l'impero di Augusto, nel corso di quella che i latini definirono "guerra retica", nella quale l'imperatore impegnò i suoi due figliastri Druso e Tiberio. L'intervento dei romani condusse ad una soluzione radicale: fu condotta via dalla regione la maggior parte della gioventù e la più robusta e fu lasciato nelle valli solamente un numero di abitanti bastante alla coltivazione dei campi ma tale da non avere forze sufficienti per ribellarsi.

Durante l'occupazione romana, la Valle del Chiese appartenne al municipio di Brescia assieme al resto delle Giudicarie e al Basso Sarca. Il legame politico-amministrativo con Brescia durerà per le nostre zone oltre 500 anni, fino cioè in piena epoca longobarda.

La presenza romana lasciò parecchie tracce nel territorio di Storo: un fermaglio in bronzo, un frammento di pane di bronzo, un moneta usata dagli antichi coloni greci di Marsiglia, qualche moneta consolare e imperiale. C'è comunque qualcosa di più vivo ancora oggi, tra noi, che testimonia l'antica e prolungata presenza romana e che - purtroppo - rischia di scomparire o quanto meno di snaturarsi irrimediabilmente: sono i moltissimi termini del dialetto locale che traggono origine dalla lingua latina.

[modifica] Dal paganesimo al cristianesimo

Con la loro civiltà le truppe romane avevano portato nelle nostre valli anche il culto dei loro dei, che avevano messo alla pari se non al di sopra delle potenze superiori adorate dagli indigeni. Nella Rezia si diffusero soprattutto i culti del dio Mitra e del dio Saturno.

Al seguito dei soldati e dei mercanti romani si propagò poi anche la nuova religione di Cristo, che trovò resistenze nell'attaccamento alle credenze antiche e nella diffidenza naturale dei montanari delle valli. Due dati sono fondamentali per la storia della diffusione e dell'affermazione del cristianesimo: il 313 e il 380. Nel 313, per ragioni di opportunità politica, l'imperatore Costantino garantì libertà al culto cristiano, sino allora perseguitato. Sessantasette anni dopo la situazione fu totalmente ribaltata: nel 380 l'imperatore Teodosio dichiarò infatti il cristianesimo religione di stato.

Anche la dottrina cristiana, come le civiltà precedenti, entrò nella regione trentina risalendo a ritroso il corso dei fiumi: lungo i solchi dell'Adige, del Brenta, del Sarca e - per noi - del Chiese. Le prime voci sulla nuova fede furono portate da mercenari romani, soldati e veterani, funzionari. Raccontavano di uomini che si ritenevano fratelli, senza distinzione di classe, pronti a morire piuttosto che versare un po' d'incenso agli dei; parlavano di gente che buttava i risparmi per aiutare i meno fortunati, che predicava il perdono.

Poi, un po' alla volta, alle voci si aggiunsero i fatti e l'esempio. C'erano persone - i cristiani appunto - che raccoglievano e ospitavano il viandante lungo le impervie valli montane, soccorrevano l'ammalato e il bisognoso, suscitando stupore e ammirazione. Sorsero così i primi centri di assistenza, semplici e familiari, chiamati asylum o ospitium. Molti di questi luoghi, dopo Costantino, vennero dedicati al diacono (=servitore) Lorenzo. Ce n'era uno probabilmente anche sul colle di San Lorenzo di Storo, ove nel secolo XV la comunità fece erigere l'attuale chiesetta sul posto o in vicinanza di una precedente struttura religiosa e caritatevole, a fianco della strada che dalla Valle del Chiese portava in Val di Ledro superando in quota la forra dell'Ampola.

Su un terreno già predisposto arrivarono infine i primi missionari dalle comunità vicine. È il periodo in cui a Trento è vescovo Vigilio, a Milano Ambrogio. Poiché la Valle del Chiese faceva parte del municipio di Brescia, è pensabile che proprio dal Bresciano siano giunti a noi i primi missionari. È certo tuttavia che San Vigilio estese il confine della diocesi tridentina verso le Giudicarie, e ciò presuppone che egli abbia evangelizzato questo territorio. Il suo lavoro missionario lungo la direttrice delle Giudicarie, della Valle del Chiese e della Val Trompia è testimoniato dalle molte chiese, cappelle e capitelli a lui dedicati in questa regione. Nel Comune di Storo abbiamo la chiesetta di San Vigilio al cimitero di Lodrone.

I romani davano il termine pagus (dal latino pangere, coltivare) a ogni distretto rurale o boschivo scarsamente abitato. Per estensione il pagus si avvicinava agli attuali comprensori trentini. L'aggettivo pagano finì col diventare poco a poco sinonimo di tutto ciò che era avverso al cristianesimo, il quale si era propagato inizialmente nelle città e nelle valli principali. Il toponimo Rocca Pagana documenta la tardiva evangelizzazione di Storo, situato allora proprio alle pendici di quel monte. La dedicazione della chiesa di Storo a San Floriano martire (morto nel 304 a Lorch, nella zona di Linz, in Austria) collega invece la cristianizzazione del paese ad un culto diffuso in epoca tardo-romana.

[modifica] I secoli bui

Il periodo che segue la cristianizzazione della zona alpina è tra i più tristi e certo il più confuso della nostra storia. A causare e segnare al tempo stesso la fine del grande impero romano è il susseguirsi delle irruzioni di popoli che da anni vivevano più o meno sotto controllo nelle pianure dell'Europa centro-orientale. La loro penetrazione in territorio romano avviene in forme massicce e violente: scontri armati iniziali fanno strada ad una vera e propria migrazione di popoli con donne, bambini, vecchi, carriaggi, armenti. Hanno bisogno di tutto: bottino per i guerrieri, vitto per la gente, foraggio per gli animali. Va ricordato tuttavia che i barbari non erano gente priva di ogni civiltà: avevano anch'essi le loro leggi, differenti ovviamente da quelle di Roma.

Sono scarse le notizie certe sulle invasioni barbariche nella nostra zona, ma qualcosa si può congetturare e dedurre con sufficiente sicurezza dai fatti più noti che interessano l'Italia settentrionale. Nel 451 Attila pone il suo accampamento nei pressi del lago di Garda, mentre orde dei suoi unni risalivano le valli alpine in cerca di preda: non è fantasia pensare che attraverso la Valle Sabbia qualcuno sia arrivato fino alla piana a nord del lago d'Idro. Nei venti anni successivi la zona alpina, ormai totalmente sguarnita dalle legioni romane, è ripercorsa da varie orde barbariche: la popolazione cerca rifugio nei vecchi castellieri, forniti di spazio e di scorte sufficienti per sopravvivere nei momenti più violenti di un'evasione.

Con la discesa dei longobardi in Italia - siamo nel 568 - inizia un periodo di oltre duecento anni che è importantissimo per la storia della Valle del Chiese. I vinti, già decimati dalla terribile pestilenza del 569 e dalla carestia del 570, furono eliminati o ridotti alla condizione di semiliberi, destinati alla coltivazione dei campi o ad altri servizi, privati della possibilità di entrare nell'esercito. Diversamente dalle precedenti, l'occupazione dei longobardi ebbe carattere definitivo. Il loro regno, la cui capitale era a Pavia, era diviso in ducati. La Valle del Chiese rimase legata inizialmente alle sorti delle terre bresciane.

Ogni ducato era diviso in contee (o gastaldie) e in circoscrizioni minori dette plebes (= pievi) con a capo una persona incaricata di amministrare la giustizia e di sorvegliare la riscossione delle pesanti imposte. La pieve era un'antichissima istituzione cristiana, che esprimeva esternamente la reale comunanza dei credenti in un’unica famiglia, operante su un territorio. In epoca longobarda essa si trasforma: da semplice aggregazione religiosa viene ad assumere connotazioni più marcatamente civili e diviene una struttura ecclesiastica ed amministrativa che sarà tipica del medioevo.

In epoca medioevale il territorio di Storo, Darzo e Lodrone appartenne alla pieve di Condino, oggi sede decanale. È assai probabile che tale legame sia stato inaugurato in epoca longobarda e che esso sia stato fin dagli inizi mal tollerato dagli storesi: in questa difficile convivenza amministrativa, iniziata 1500 anni or sono, affonda probabilmente le radici l'attuale agonismo campanilistico esistente tra gli abitanti di Storo e Condino.

La Valle del Chiese, come del resto le Giudicarie, non rientrava inizialmente nel ducato di Trento, pur facendo parte, fino dal tempo del vescovo Vigilio, della diocesi tridentina. Durante il sec. VII il ducato di Trento assorbe nel proprio complesso amministrativo la Judicaria Summa Laganensis, una suddivisione che col Sommolago del Garda comprendeva la Valle del Sarca e la Valle del Chiese (l'antico distretto sopravvive oggi solo nell'ambito d'azione del Centro Studi Judicaria). La nostra divenne così terra di confine. Il confine, più o meno marcato che d'ora in poi la attraverserà per tanta parte della sua storia, costituisce come una sorta di filo rosso che ci conduce a scoprire le ragioni della sua povertà e della sua ricchezza. "Gente di confin, o ladri o assassin!" recita l'adagio popolare trentino: noi vorremmo che i nostri padri non l'avessero interpretato troppo alla lettera.

D'ora in poi la storia della Valle del Chiese presenterà per così dire due volti: da una parte farà sempre più riferimento all'ambito tedesco, al quale è legata con Trento, dall'altra manterrà gli antichi e naturali legami economici con le terre della Padana.

Negli ultimi anni della dominazione longobarda va collocato un fatto che avrà notevole risonanza nelle vicende successive delle comunità di Storo e Lodrone. Il re longobardo Desiderio aveva fondato in Brescia il monastero di S. Salvatore, detto poi di S. Giulia, di cui fu prima badessa sua figlia Ansberga che aveva preso il velo sotto la regola di San Benedetto, e lo aveva dotato di possedimenti sulle montagne dei nostri paesi che furono successivamente confermati dagli imperatori germanici Lotario nell'837 e Ottone I nel 926.

Esiste nel nostro Archivio comunale una voluminosa raccolta di documenti che testimoniano come per secoli la comunità di Storo abbia rivendicato tenacemente, nei confronti del monastero di S. Giulia, il possesso dell'ampia zona compresa tra Lorina e l'Alpo, comprendente tutto il bacino del Rio Torto e la Valle del Comune. Gli storesi continuarono a negare l'esistenza dell'atto di donazione di Desiderio. Le liti, con i relativi processi, cessarono in epoca moderna in seguito ad un atto col quale il monastero donava quei boschi e pascoli agli uomini di Storo e di Bondone (il territorio controverso forma oggi il Comune Catastale di Bondone-Storo, la cui divisione tra i Comuni amministrativi non è ancora ben definita).

Al monastero di Brescia è collegato anche il convento di Santa Giulia di Lodrone. È probabile che la sua vecchia ed elegante costruzione, risalente al secolo XV, abbia rimpiazzato una piccola dimora, che ospitava poche monache benedettine. Assieme ai fratelli di San Benedetto e il limitato clero locale, le monache furono benemerite per la zona, non solo per la bonifica della campagna a nord del lago, ma anche per l'organizzazione ospedaliera ed assistenziale.

Nel 774 alla dominazione longobarda subentrò quella franca: il Trentino - e con esso la Valle del Chiese - cessò di essere terra di confine e divenne zona centrale dell'immenso impero che Carlo Magno aveva costruito in Europa. La nostra si trasformò dunque in terra-ponte, strada - anche quella del Chiese, accanto a quelle più importanti dell'Adige e del Sarca - per la quale si compì l'avvicinamento tra il mondo latino e quello germanico riunificati dai franchi.

Il legame col Nord Europa fu rafforzato nel 962, quando il Trentino fu aggregato al regno di Germania: da quel momento anche la storia politica ed amministrativa della Valle del Chiese rimarrà indissolubilmente legata - con Trento - alle vicende tedesche fino al 1918. Prima indirettamente, attraverso il principato vescovile, la cui fondazione avvenne nel 1004, poi, a cominciare dal 1802, direttamente, come parte integrante dei domini austriaci.

Riepiloghiamo e sottolineiamo: terra di confine, terra-ponte, terra economicamente e geograficamente orientata verso le fertili pianure e le città della Padana, ma legata sul piano politico ed amministrativo a Trento ed al mondo germanico. Si vengono a delineare alcuni degli aspetti che hanno costruito nei secoli la nostra identità.

La nascita del principato di Trento fu voluta per calcoli politici e strategici dall'imperatore, che intese così garantirsi un sicuro collegamento tra il Nord Europa e l'Italia. Il piano funzionò: su 80 discese di sovrani germanici in Italia tra il 950 e il 1250, contiamo 45 passaggi per il Brennero. Alcuni di essi, come ad esempio quelli degli imperatori Federico Barbarossa nel 1166 e di Enrico VII nel 1311, sfruttarono anche la direttrice del Chiese.

All'inizio del nostro millennio, la Valle del Chiese passò così sotto la sovranità dei vescovi di Trento, il cui principato si estese fino al 1311 anche a Bagolino e alla Valle del Caffaro. Per la gente non cambiò proprio nulla. La stragrande maggioranza della popolazione neppure si accorse della nuova istituzione. Per oltre 800 anni essa avrà tuttavia nel vescovo un riferimento dal duplice volto: vedrà in lui il pastore spirituale e al tempo stesso il signore temporale. Potere politico e religioso rimasero confusi nella stessa persona. Sacro e profano, spirituale e terreno s'intrecciarono fino al punto che sulla figura religiosa prevalse la seconda, quella di natura politico-terrena. Da allora, nominando il vescovo i nostri antenati cominciarono a pensare prima di tutto a chi dettava e confermava le leggi del vivere civile, pronunciava sentenze, imponeva e riscuoteva tasse e tributi, arruolava eserciti. Anche questo fu un aspetto che, col passare dei secoli, segnò la nostra identità.

[modifica] I primi documenti scritti su Storo, Darzo e Lodrone

Sono posteriori all'anno 1000 i primi documenti scritti che parlano dei paesi dell'attuale Comune di Storo. Il più antico, risalente proprio all'anno 1000, contiene un invito che le genti abitanti a nord del lago d'Idro rivolsero ad alcuni monaci benedettini affinché venissero a fondare un monastero sul Pian d'Oneda. Un secondo documento del 1086 riferisce che i vicini di Lodrone, Onesio e Villa del Ponte affittarono a quelli di Anfo alcuni pascoli presso il Caffaro e il diritto di pesca sul lago. Alcuni storici, al posto di Onesio, leggono e scrivono Drusio, Darvo o Darzo. In tal caso le due frazioni del Comune di Storo troverebbero qui affermata la loro esistenza. Villa del Ponte potrebbe identificarsi con Villo, piccolo centro abitato situato allora tra Storo e Darzo, vicino a quello che, risalendo nei secoli, i documenti chiameranno spesso "Ponte di Storo" e che oggi più comunemente indichiamo come "Ponte di Casa Rossa".

Storo compare invece nei documenti solo 34 anni dopo. Tra il 1124 e il 1220 il toponimo si legge nei documenti con diverse varianti: Setorium, Sutorum, Subtaurum, Setourum, Setaurum, Sitourum.

Quattro storesi sono nominati come testimoni in un documento che riporta l'accordo stipulato ne 1124 tra il vescovo di Trento ed alcuni abitanti di Riva: sono Umberto, Alberto, Adelardo e Marchione "de Setorio". Poiché Storo non è espressamente nominato nel brano di documento del 1000 né in quello del 1086, Setorio è la più antica forma scritta del toponimo.

Per sei volte si trovano poi citate persone di Storo nei documenti del "Codice Vanghiano", una vasta raccolta di leggi che il principe vescovo di Trento Federico Vanga (1207-1218) fece raccogliere per fissare e salvaguardare i diritti del suo principato: nel 1161 troviamo a Riva un "Visica de Sutoro"; due anni dopo un "Mainentinus de Subtauro" interviene come testimone in una località poco a sud di Bolzano; il 22 luglio del 1185 un "Monfredinus de Setouro" è presente ad un atto sottoscritto dal vescovo di Trento nei pressi di un passaggio sull'Adige a nord di Trento; il 24 novembre 1211 un altro storese - "Purcardus de Setauro" - è presente a Castel Valer, in Val di Non, quando si discute una questione relativa alla riscossione di alcuni censi; infine un "Parisius de Sitouro" assiste il principe vescovo a Riva il 13 luglio del 1220.

I documenti esaminati testimoniano che in origine la S iniziale del toponimo era seguita da una vocale. "Stor" e "Storro" sono forme posteriori, contratta e troncata la prima, contratta e rafforzata col raddoppiamento la seconda. Le troveremo ricorrenti nei documenti in volgare dei nostri archivi fino al 1800.

"Taur" in gallico significa rupe, monte. Sub-Taur, ossia "sotto il monte", bene risponde alla originale posizione di Storo, ai piedi di colossali rocce brulle. Il villaggio si estese infatti sul conoide che scende alla piana soltanto nel secondo millennio e lo fece inizialmente in senso verticale, lungo i piccoli corsi d'acqua che discendono dalla Rocca Pagana, il Proäs e il Dòs, lungo il corso dei quali la gente poteva attingere acqua, portare ad abbeverare il bestiame, sistemare mulini ed officine.

Qualcosa di analogo accadde anche a Darzo e Lodrone, posto l'uno sul conoide formato dal Rio Carbonare e dal Rio Capre, l'altro su quello del torrente Santa Barbara.

Tra i documenti citati non abbiamo menzionato i due più importanti per la nostra storia. Il 24 agosto 1189 il vescovo di Trento Corrado di Beseno, il predecessore del Vanga, affidò in feudo il castello di Lodrone a tredici uomini de "Setauro". L'infeudazione era stata preceduta, il 4 giugno, da un accordo giurato nella chiesa di S. Floriano di Storo: erano presenti 14 viri illustres del paese, rappresentanti di sette famiglie. Ecco i loro nomi: Adelardo Nero per la prima famiglia; Adelardo Bianco per la seconda; Boninsegna e Focolare per la terza; Ottobono, Graziolo e Manfredo per la quarta; Montanario, Riprando ed Edoardo per la quinta; Malastreva, Guglielmo e Zeredo per la sesta; infine Guidotto per la settima. Tredici di questi (uno di essi infatti, Ottobono, non giurò) si obbligarono ad aiutarsi vicendevolmente per ottenere l'infeudazione di tutti i beni dati a Calapino di Lodrone.

Di Calapino di Lodrone, che è il primo personaggio storico di questa casa, parlava un documento del 27 agosto 1185 col quale il conte Enrico di Appiano rinunciava, a favore del vescovo di Trento, a tutti i suoi possedimenti in Giudicarie facendo eccezione di pochi vassalli tra cui appunto il Lodrone.

I due documenti del 1189 dimostrano che nei più antichi tempi la storia della gente di Storo s'intreccia con quella dei Lodron. Ma chi erano questi signori di Storo che i documenti definiscono viri illustres rappresentanti di sette capita, cioè di sette famiglie, cui allude probabilmente l'attuale stemma comunale con le sette torri quadrate? Qualcuno propende a credere che si trattasse di semplici uomini del luogo, altri è invece incline a ritenerli appartenenti ad una nobile casa del vescovado. Certamente essi non erano soltanto liberi contadini o nobili di campagna, ma vassalli dei principi vescovi, appartenevano cioè alla cosiddetta "nobilis manicata sancti Vigilii", avevano patrimonio non sottoposto agli oneri feudali, godevano di feudi e disponevano di servitù che potevano dare in pegno al vescovo. Erano insomma membri di una delle più distinte famiglie del vescovado. Essi scompaiono nel corso del secolo XIV, ma da loro discende la nobile casa dei conti Lodron.

[modifica] I Lodron

Più di 100 anni i Lodron - o meglio gli Storo-Lodron - impiegarono per diventare signori incontestati e temuti di tutta la Valle del Chiese e solo all'inizio del Trecento essi cominciarono ad estendere il loro controllo sulle Giudicarie. Nel frattempo la comunità di Storo (che contava in questo periodo circa 300 anime) si organizza, mantenendosi sempre sganciata dai vicini signori feudali, che si limita a nominare arbitri nella secolare lite che ha con la vicina comunità di Bondone per i pascoli dell'Alpo e nella controversia con Tiarno per l'uso dei pascoli e boschi di Val Lorina. I paesi di Darzo e Lodrone (che contavano rispettivamente non più di 100 anime) fanno parte invece del contado Lodron e la vita delle loro comunità è maggiormente legata alle vicende dei signori feudali.

Nel 1361 la famiglia Lodron si divise nei due rami di Castel Romano e Castel Lodrone; al secondo facevano capo i feudi di Lodrone, Darzo, Bondone, Bagolino e Val Vestino. A partire da questo periodo compaiono tra i Lodron condottieri in cui la fedeltà e la devozione si accompagnarono ad inganno e tradimento, l'eroismo si accoppiò ad assassinio, una raffinata sensibilità artistica rinascimentale si alternò a rozzezza di costumi, crudeltà di comportamenti, sfrenate passioni.

I signori di Castel Lodrone ebbero presto ragione dei parenti di Castel Romano e alla fine del Trecento i possedimenti della famiglia furono nuovamente riuniti, notevolmente accresciuti, nelle mani di una sola persona, Pietro di Castel Lodrone. Egli è ritratto probabilmente nell'affresco della battaglia che fino al 1913 ornò le pareti di Castel Romano ed oggi è conservato al Museo Diocesano di Trento.

Nel corso del Quattrocento i Lodron estesero il loro potere oltre le Giudicarie. Ciò avvenne col figlio di Pietro, Paride il Grande, uno dei migliori condottieri del suo tempo, promesso sposo alla Giulietta di shakespeariana memoria, e coi figli di questi, Pietro e Giorgio.

Il coraggio e la tenacia di Paride diedero un contributo essenziale al successo della Repubblica di Venezia contro il ducato di Milano durante le guerre che si svolsero per gran parte sulle montagne tra l'Adige, il Garda e le Giudicarie. La Valle del Chiese fu attraversata, saccheggiata e insanguinata da eserciti mercenari, tra cui quelli del Gattamelata e del Piccinino.

L'alleanza con la Serenissima procurò ai Lodron nuovo prestigio e nuove ricchezze. Paride ricevette la contea di Cimbergo in Val Camonica, beni sul Garda a Gargnano, case a Venezia, Verona e Padova. Quando egli morì nel 1439, lasciò agli eredi una signoria consolidata, matura per ricevere i più alti riconoscimenti. E infatti il 6 aprile dell'anno del 1452, i figli Giorgio e Pietro furono nominati - a Roma - conti del Sacro Romano Impero.

I due fratelli proseguirono insieme una politica di spregiudicate e alternanti alleanze: furono amici del principe vescovo di Trento, dal quale ebbero la conferma degli antichi feudi e il capitanato delle Giudicarie, ossequiosi verso il duca del Tirolo, fedeli sempre alla Repubblica di Venezia. Nel 1456 i cavalli dei conti Giorgio e Pietro raggiunsero e conquistarono alcune terre della Val Lagarina. I due fratelli furono infatti incaricati dal principe vescovo Giorgio Hack di impadronirsi con la forza delle roccaforti di Castelnuovo, Castellano, Nomi e Castelcorno, che i Castelbarco non intendevano riconoscere come feudi di Trento. I primi due castelli furono poi lasciati ai Lodron. Pietro, che già possedeva Castel Romano, rimase allora in Val Lagarina, mentre il fratello maggiore Giorgio tenne il feudo di Castel Lodrone e quello di Rendena.

A partire dalla seconda metà del Cinquecento i Lodron assunsero progressiva influenza anche in territorio bresciano: ampliarono via via i possedimenti sul Garda (per molti anni la famiglia ebbe a Salò un collegio e un seminario riservato ai chierici del contado), a Concesio (l'attuale palazzo Montini era dei Lodron) e in Val Camonica, dove già tenevano la contea di Cimbergo.

Nei decenni e secoli successivi i cavalli dei Lodron portarono i loro signori in tutta Europa al seguito dell'imperatore e degli altri sovrani del tempo, al servizio dei quali misero le loro truppe traendone ricca ricompensa. Un Ludovico cadde nel 1537, combattendo contro i Turchi, nella battaglia di Osijek; 34 anni dopo un altro Ludovico, che tra l'altro aveva fatto costruire a Trento il palazzo di famiglia di via Calepina (oggi sede del TAR), fu capitano imperiale nella battaglia di Lepanto.

Il più celebre rappresentante di casa Lodron è l'arcivescovo Paride, che fu principe di Salisburgo per 34 anni, dal 1619 al 1653. Il suo busto è collocato oggi nel Walhalla di Regensburg, che è il tempio degli eroi germanici, come simbolo di illuminato principe ecclesiastico. Paride discende dai Lodron di Val Lagarina. Ad aprire la strada verso le terre tedesche erano stati alcuni membri della famiglia che negli ultimi decenni del Cinquecento erano diventati canonici a Trento, a Innsbruck (era dei Lodron il palazzo al n. 7 della Maria-Theresien-Strasse) ed a Salisburgo.

Durante il suo governo l'arcivescovo Paride ampliò e consolidò i possedimenti della sua famiglia, mettendola in grado di gareggiare con le più ricche del tempo: istituì il maggiorascato di primogenitura (che aveva il suo centro a Gmünd in Carinzia) assegnandolo a suo fratello Cristoforo e successivamente a ogni primogenito, e il maggiorascato di secondogenitura, con centro a Himmelberg, sempre in Carinzia, dove vive oggi il conte Niccolò. Le proprietà dei due maggiorascati, acquistati per gran parte dall'arcivescovo, erano costituite da un patrimonio di quasi 20 mila ettari di fertili pascoli e boschi.

I nuovi domini spostarono decisamente e definitivamente al di là delle Alpi gli interessi della famiglia e quando, nel 1703, si estinse la linea di Val Lagarina e ad essa subentrò quella delle Giudicarie, anche questa divenne sempre più tedesca. I Lodron che restarono in Valle del Chiese divennero sempre più insignificanti signorotti, talora inesperti e stravaganti.

Va notato che altri tre Lodron, appartenenti alla linea delle Giudicarie, furono elevati alla dignità vescovile: i primi due furono chiamati dall'arcivescovo Paride a governare tra il 1630 e il 1652 la diocesi di Gurk in Carinzia, il terzo occupò per quasi quattro decenni la sede vescovile di Bressanone in epoca napoleonica.

[modifica] Le antiche comunità

Non è possibile scrivere la storia dei paesi che formano oggi il Comune di Storo senza seguire le vicende dei Lodron, ma si tradirebbe questa loro storia se non riconoscessimo le forme di autogoverno che si svilupparono in particolare nelle antiche comunità di Storo e Darzo.

Storo ebbe proprie regole scritte di autogoverno (Statuti), confermate dal principe vescovo di Trento, soltanto a partire dal 1480, ma l'autonomia di questa comunità è testimoniata fin dai primi anni del Trecento e comunque mai essa fu legata ai Lodron da rapporti feudali.

I primi Statuti di Darzo sono invece del 1445. Essi furono approvati e divulgati dai Lodron, alla cui contea Darzo apparteneva. Qualche studioso ha visto in questo documento l'atto di nascita della comunità di Darzo: pur restando legati ai Lodron i capifamiglia darzesi precisano qui i confini del proprio territorio indiviso e stabiliscono i compiti dei loro organismi di autogoverno.

Sorte ben diversa toccò agli abitanti di Lodrone, che furono sempre sudditi dei vicini signori feudali e mai possedettero un territorio "comune" e propri Statuti. Per questa ragione Lodrone non ha oggi un'amministrazione separata dei beni di uso civico (Asuc), che troviamo invece a Darzo e Storo.

Tra l'antica comunità rurale e il Comune attuale esistono profonde differenze: a) nel nome: "comune" significava allora la parte indivisa del territorio comunitario, distinta dalla piccola parte del "diviso", cioè del privato, costituito da orti e campi adiacenti all'abitato; b) nella natura: l'antica comunità esisteva fondamentalmente in funzione della proprietà fondiaria indivisa; c) nel rapporto istituzione-cittadino: nell'istituzione antica i componenti, chiamati "vicini", rispondevano personalmente ed in solido di ogni azione assunta in pubblica regola, cioè nell'assemblea generale dei capifamiglia, che era l'organismo più importante dell'antica comunità.

La regola era convocata dal saltaro al suono della campana (la rènga a Storo) o di una tavola di legno con battente in ferro (la tambèla, rimasta a Storo solo nella liturgia del Venerdì Santo); si riuniva sul sagrato della chiesa, in una piazzetta o nella taverna comunale; nominava i vari uffici comunali: il console, corrispondente al nostro sindaco; i sindaci o procuratori, cioè i delegati per trattare cause particolari, soprattutto con le comunità vicine; il saltaro o comparo, che aveva il compito di custodire il territorio comunale; il massaro, vale a dire il cassiere della comunità; altri uffici particolari come gli addetti alle fontane e gli stimatori dei danni.

Sono membri effettivi della comunità tutti i vicini, cioè i proprietari del territorio comunale. Sono detti e considerati forestieri invece coloro che abitano nel territorio della comunità senza esserne proprietari; gli Statuti li obbligano a prestare lavoro per il comune e a versare una tassa di incolato; possono diventare vicini su decisione della pubblica regola e dietro compensi piuttosto alti. Anche qui le differenze con la situazione attuale sono profondissime: è arduo trovare oggi sia la gelosa chiusura della comunità antica che la responsabilità solidale che caratterizzava in passato la vita amministrativa.

Con privilegio concesso dal principe vescovo nel 1648 Storo (che 12 anni prima era stato proclamato "borgo") ebbe un proprio vicario che poteva giudicare nelle cause civili fino ad un determinato importo. Le cause concernenti materie di valore superiore e quelle criminali restavano invece di competenza del vescovo o del suo capitano di Trento; più tardi esse vennero deferite al capitano di Stenico. I privilegi vescovili sopra citati misero una pietra definitiva sopra il grave delitto compiuto nel 1491 da alcuni giovani storesi che avevano ucciso e bruciato il sacerdote Giacomo che teneva la cura d'anime locale.

In pieno periodo napoleonico anche le comunità di Storo e di Darzo, intese come gestione autonoma di un territorio, furono abolite. In particolare furono abolite la pubblica regola e la giurisdizione signorile e fu tolta la differenza tra vicini a forestieri. Nel nostro Archivio comunale è conservato il registro delle entrate e delle spese che la comunità di Storo ebbe nel 1805, che fu l'ultimo anno della sua esistenza: il paese contava 250 fuochi (il censimento del 1804 attesta che la popolazione era di 889 unità), aveva avuto un bilancio pari a 40.000 giornate di lavoro ed aveva ricavato i soldi soprattutto dalla tassa sulle "bore" fluitate sul Chiese e dalla vendita del legname; tra i servizi gestiti direttamente o indirettamente dalla comunità in quell'anno troviamo malghe, fontane e "masere", seghe e fucine, mulini e "pistorie", osteria e "beccaria".

Alle antiche comunità subentrarono in epoca napoleonica due nuovi enti comunali: i Comuni di Storo e di Darzo-Lodrone. Lodrone fu frazione di Darzo fino al 1910, quando divenne Comune autonomo. Con Regio Decreto dell'1.1.1928 il Comune di Storo ebbe aggregati anche quelli di Darzo-Lodrone e Bondone. Nel 1953 Bondone riebbe la sua autonomia comunale.

[modifica] Commerci e paure attorno al fiume

La lettura delle "carte di regola" (così sono spesso denominati gli Statuti delle nostre antiche comunità) ci svela come una delle preoccupazioni costanti dei nostri padri fosse quella di regolare l'uso del territorio indiviso, salvaguardando l'unica fonte di ricchezza che essi possedevano: quella del legname. Si scrissero e si fecero osservare norme precise e minute che regolavano la gestione delle aree pubbliche e private e si stabilirono severe sanzioni per i trasgressori. Si protessero ad esempio gli orti e i campi "divisi", si proibì di tagliare alberi di castagno perché il loro frutto era da sempre un prezioso alimento e un'utile risorsa commerciale, si diedero disposizioni per la pulizia dei boschi, si elencarono norme dettagliate per la tenuta delle malghe e dei pascoli, si regolamentò persino la raccolta della legna occasionalmente disseminata per le campagne dalla furia delle acque.

Il manto meraviglioso di foreste che rivestiva allora le nostre montagne si prolungava nei secoli trascorsi in ampie zone del fondovalle, costituendo un autentico patrimonio per la comunità. Era una risorsa invidiata e cercata dai mercanti della Padana, ma insidiata sovente anche dai locali, una risorsa quindi da difendere con ogni mezzo contro i tentativi di appropriazione indebita e da mettere a frutto con opportuni commerci in modo da farne una preziosa fonte di reddito per comunità che dovevano quotidianamente fare i conti con la dura realtà di un'aspra vita fra i monti. Le comunità di Storo e Darzo trassero vantaggio più dalle tasse sul passaggio del legame nel loro territorio che non dalla vendita di piante cresciute nei boschi indivisi delle montagne.

Questi commerci, stando sempre ai nostri antichi documenti, erano da tempo già consuetudine quando di essi cominciano a parlarne le antiche carte. Lo si deduce dalla sentenza del principe vescovo di Trento Giorgio Hack del 1455 (conservata in una pergamena del nostro Archivio) con la quale il sovrano interviene in alcune liti sorte tra la comunità di Storo ed alcuni commercianti della Pieve di Bono. La fluitazione in grande stile era iniziata probabilmente nei primi anni del Quattrocento, quando il fiume non disponeva di argini rinforzati né di adeguati porti. Continuò, tra accordi e liti, fino ad Ottocento inoltrato. Ad interromperla furono due fatti tra loro collegati: il progressivo impoverimento dei boschi e le terribili alluvioni che a partire dalla seconda metà del Settecento sbrecciarono in più parti gli argini del Chiese, rendendone il corso del tutto insicuro.

Si potrebbe scrivere la storia dei paesi del Comune di Storo usando come canovaccio i suoi corsi d'acqua dispensatori di fertilità e di vita, via di commercio e forza motrice per fucine e mulini. Tale storia però apparirebbe spesso intessuta di paura e sgomento per i disastri prodotti nei secoli dalla acque torrenziali. La gente invocò impotente l'intervento del Cielo, inviò suppliche al governo centrale, alzò e riparò argini, liberò i campi dalla ghiaia. I nostri avi svolsero un secolare ed incessante lavoro di difesa e di risanamento, tipico della gente contadina abituata a ricominciare sempre da capo, senza mai arrendersi.

Nel triennio 1756-1758 la piana di Storo fu colpita da una serie ravvicinata di inondazioni che la mise in ginocchio. I guasti prodotti dalla prima piena furono così violenti che i contadini non riuscirono a riparare gli argini in tempo per trattenere l'ondata del settembre dell'anno successivo, quando "per tutta la nostra bella Campagna niuna parte ecetuata scoreva laqua all'altezza di un homo sembrando la sfortunata non gia campagna ma un profondo largo e longo navigabile lago". Sono parole tolte dalla relazione che i sudditi di Storo rivolsero al governo di Vienna per ottenere lo sgravio dalle steore. La piena del luglio dell'anno successivo completò l'opera, rendendo incolta un quarto della fertile campagna.

Nei decenni che seguirono i contadini rialzarono gli argini e liberarono molti campi dalla ghiaia. Il pericolo però era sempre imminente, anche perché Chiese e Palvico scorrevano ormai in un letto più alto del livello delle campagne circostanti. Prima o poi il peggio doveva capitare e capitò nei due giorni d'inferno del 7-8 novembre 1906. Fu una vera catastrofe. Straripò per primo il Caffaro che sfondò il ponte di confine, abbatté le muraglie del palazzo Lodron e invase la campagna arrivando fino al cimitero di S. Vigilio, dove si unì alla corrente del S. Barbara formando un unico grande flusso che travolse anche il ponte di Formighèr. Molto maggiori furono i danni provocati dal Palvico e dal Chiese, ai quali dettero man forte i rii Proäs e Dòs. Non appena la buriana si fu placata, il sindaco di Storo Ermenegildo Scaglia scrisse desolato alla Camera dei Deputati di Vienna: "Con ciò non andrà guari che quest'intera plaga di campagna verrà ridotta ad una vera palude e la brava e laboriosa popolazione di Storo sarà costretta ad emigrare in massa per sottrarsi alla miseria e alla malaria".

La minaccia avanzata dal sindaco non era fuori luogo, poiché i suoi concittadini avevano alle spalle una lunga storia di emigrazione: prima in forma abbastanza stabile a Venezia, nei secoli XVII e XVIII, quando s'era insediata in Laguna quella colonia di benestanti e generosi storesi che aveva dotato la chiesa di San Floriano di ricchi pezzi di argenteria; poi, nel secolo XIX, verso le terre di Lombardia e Piemonte dove molti si recarono stagionalmente a "trar la séga", cioè a segare a mano i grossi tronchi ricavandone assi; infine, a cavallo tra Ottocento e Novecento, al di là dell'Atlantico. Gli storesi che sbarcarono a New York cento anni fa andarono a finire quasi tutti nelle miniere di carbone di Cambria, un centro minerario dello stato dello Wyoming, sulle Montagne Rocciose.

Dopo la terribile piena del 1906, i privati e le amministrazioni si dettero subito da fare. Dopo i primi provvisori interventi, fu licenziato un grande progetto che avrebbe dovuto mettere fine alla secolare guerra col Chiese e coi suoi torrenti. Il progetto però non ebbe seguito perché si scatenò il primo grande conflitto mondiale. A guerra finita lo Scaglia ripropose l'opera alla burocrazia italiana, che apparve subito una macchina più lenta, meno efficiente ed anche meno ricca di quella asburgica. Gli argini furono comunque lentamente rinforzati e furono a più riprese abbassati i letti del Chiese e del Palvico, prima per intervento del ministero romano e poi del governo regionale.

Oggi le acque del Chiese sono trattenute e regolate dalle potenti dighe dell'Enel e nel suo letto triste e vuoto scorre quasi sempre soltanto un rigagnolo. La gente ha perso il rapporto abituale col fiume buono e cattivo, ma la paura non è stata eliminata. Il pericolo si è spostato a monte e solo una cieca fiducia nella tecnica ci fa dormire sonni tranquilli. Certo, per scongiurare il cataclisma, che sarebbe totale e fatale per tutta la valle se saltassero gli sbarramenti a monte, i paesani non sfilano più in devote processioni né affollano le chiese ad invocare la protezione dei defunti come avevano fatto in passato. Il bene che il fiume ha recato alle campagne ed ai commerci non è stato tuttavia dimenticato e perciò la gente di oggi si sente derubata vedendo che altri ne sfruttano la ricchezza e giudica inadeguati gli indennizzi che entrano nelle casse comuni tramite il Consorzio dei Comuni del Bacino Imbrifero del Chiese.

[modifica] Terra di frontiera e campo di battaglia

E' necessario a questo punto fare un nuovo passo indietro nella nostra storia, in modo da illustrare e sottolineare una delle più marcate costanti storiche della nostra terra, quella di essere stata per secoli tagliata da un confine. I nostri padri vissero quindi come gente di frontiera. Essi mandarono a padroni diversi le decime tratte dai campi bonificati e sovente dovettero scappare verso i prati e i boschi della montagna per sfuggire agli eserciti che, schierati sotto stendardi sconosciuti, scendevano alla Padana o salivano verso le terre tedesche. Li osservarono in silenzio e impauriti, riprendendo ogni volta a lavorare e soffrire come chi sa di essere stato destinato ad abitare un territorio avaro, lontano dai grandi centri commerciali, toccato solo di passaggio - eppure con grave danno - dal gioco dei potenti.

Ai tronchi che per quattro secoli, dal Quattrocento all'Ottocento, scesero ondeggiando sulle acque del Chiese verso la pianura mantovana capitò più volte d'incontrare o di essere affiancati da torme d'armati che risalivano o discendevano la valle. All'inizio furono squadroni scomposti di mercenari, guidati da audaci condottieri di ventura come i già citati Gattamelata e Piccinino, che usarono la strada del Chiese come sicura scorciatoia per sfuggire al nemico o per raggiungere i luoghi da conquistare e saccheggiare. Ad essi seguiranno le schiere ordinate della Repubblica di Venezia, i drappelli di Napoleone e poi ancora, in pieno Risorgimento, l'accozzaglia dei Corpi Franchi del 1848 e la truppa multicolore dei garibaldini nel 1866, fino all'entrata in terra tirolese delle truppe italiane negli ultimi giorni del maggio 1915.

Ricordiamo a brevi flash questi episodi. I più antichi li troviamo narrati nelle "Memorie per servire alla storia delle Giudicarie", scritte dal più insigne studioso storese, il cappuccino Padre Cipriano Gnesotti, nato a Storo nel 1717 e morto nel convento di Condino nel 1796; i più recenti sono stati esplorati dai ricercatori della Cooperativa "Il Chiese" e presentati sulla rivista di storia locale "Passato Presente".

Nel settembre del 1438 la piana fu attraversata da 2.000 fanti e 3.000 cavalieri del Gattamelata, condottiero al servizio di Venezia contro Milano, durante la memorabile marcia Brescia-Durone-Verona compiuta in soli quattro giorni. L'esercito di Milano entrò invece in Valle del Chiese l'anno dopo, al comando di Taliano del Friuli, ma fu battuto da Paride Lodron, alleato di Venezia: dopo due giorni di lotte accanite, oltre 1.000 cadaveri giacevano sul campo di battaglia e oltre 500 furono i prigionieri gettati nei sotterranei delle fortezze lodroniane; vano risultò il successivo tentativo dell'esercito milanese del Piccinino di punire l'indomito Paride.

Venezia aveva dunque fatto la sua comparsa nel territorio del lago d'Idro. A vigilare il confine con le Giudicarie, tra il 1450 e il 1490 la Serenissima edificò la Rocca d'Anfo. Il baluardo inaugurò lo strategico intreccio di costruzioni difensive che si sviluppò nei secoli seguenti dall'Idro all'Ampola, da Lardaro alle trincee d'alta montagna e che ancora oggi sono i segni del destino di frontiera toccato per secoli alla nostra terra. Queste fortificazioni costituiscono un percorso storico che meriterebbe degna valorizzazione.

Nel 1526 la nostra valle fu visitata dai lanzichenecchi diretti verso la Città Santa, dove si abbandonarono al memorabile saccheggio che è passato alla storia come "Sacco di Roma". La truppa scomposta dei luterani era guidata da Georg Von Frundsberg, un cognato dei Lodron. Superate le Alpi, il condottiero evitò i passaggi del Garda e dell'Adige, occupati dal nemico, e puntò sul territorio bresciano attraverso le montagne che sovrastano il Chiese e il lago d'Idro.

Dopo questi tumultuosi avvenimenti, la nostra zona conobbe una sostanziale tranquillità fino alla comparsa di Napoleone. Il confine del Caffaro separava i domini di Venezia da quelli del principe vescovo di Trento e dell'Austria. Gli influssi dei commerci e dell'arte veneziana si estesero tuttavia anche a nord del confine ed anche dai nostri paesi molti contadini e boscaioli raggiunsero la Laguna in cerca di fortuna. E a Venezia anche gli storesi, con i cugini giudicariesi e valsabbini, si rivolsero per lamentare le gravi difficoltà economiche in cui si trovano da sempre a vivere, per chiedere e ottenere il libero commercio dei prodotti della terra e delle officine, esenzioni dai dazi, difesa dalle truppe straniere.

Gli eserciti ricomparvero in valle con insospettata violenza nell'estate del 1796, a poche settimane dalla morte di Padre Cipriano Gnesotti, quando i soldati di Napoleone, dopo aver battuto a più riprese quelli piemontesi ed austriaci ed aver calpestato la neutralità veneziana, attaccarono direttamente l'Austria dirigendosi verso il Trentino. Del passaggio di Napoleone a Storo si ha notizia da parecchie fonti, sebbene il fatto non si trovi documentato nell'Archivio comunale: il Bonaparte entrò in paese il 16 agosto del 1796 scortato da 400 dragoni e vi tenne un banchetto al quale partecipò una cinquantina di ufficiali francesi che studiarono accuratamente i piani per l'occupazione del Trentino.

Nei venti anni che seguirono i nostri padri cambiarono padrone più volte: ai francesi successero per tre volte gli austriaci, quindi la zona fu aggregata prima al regno di Baviera, poi al regno d'Italia, infine definitivamente al Tirolo e all'Austria. Forse anche ai pensieri dei paesani di quel periodo potrebbe applicarsi quanto ebbe a riferire, nel 1866, un cronista garibaldino: "Mi trovavo a Darzo - scrisse - col povero maggiore Castellini, ed egli andava interrogando dei buoni paesani, larghi d'informazioni e di buona volontà: "Vede signore, diceva uno di loro, qua da noi non è questione di simpatia per loro o per gli austriaci, ma bensì di polenta. La guerra devasta i campi, e il contadino teme sempre vedersi dattorno la sua famiglia domandargli da mangiare, ed egli non averne".

Dopo la parentesi napoleonica gli austriaci s'insediarono per la prima volta anche in Valle Sabbia così che il Caffaro non fu più linea di confine per alcuni decenni, fino cioè alla conclusione della seconda guerra d'indipendenza nel 1859. Nel frattempo avvenne un nuovo disordinato fatto d'arme: la spedizione dei Corpi Franchi del 1848. A metà di quell'anno un battaglione austriaco risalì in ritirata la Valle Sabbia diretto a Trento, impressionando moltissimo i paesani, che s'erano abituati a ritenere invincibili le forze imperiali. E, dietro gli austriaci, invasero la valle 5.000 volontari, pieni di entusiasmo e di fervore, ma rappresentanti del fiore e della feccia della società d'allora.

Furono nuovi dolori per i contadini del luogo. Al primo passaggio agli inizi d'aprile i patrioti italiani superarono di corsa i nostri paesi, ma nel ritorno, dopo la sconfitta loro inflitta a Toblino, si ritirarono verso Brescia nel disordine più assoluto e gettarono nello sgomento la nostra terra. La piana tra Storo e il lago d'Idro fu per alcuni mesi terra di nessuno. "Un'ora vi era gli Italiani, ed un'ora gli Austriaci", scrisse la contadina di Darzo Luigia Rinaldi. Soltanto in estate la truppa scomposta ebbe l'ordine di abbandonare definitivamente la linea del Caffaro, ma le loro ruberie e le successive rappresaglie austriache s'impressero a fondo nella memoria dei paesani.

Ecco perché nel 1866 il vecchio contadino, appena vide avanzare la truppa altrettanto disordinata dei garibaldini, pensò tra sé: "Rieccoli! Tornano quelli del '48! ". Ma i nostri padri, come si addice a gente di frontiera addestrata da secoli di scorribande, avevano ormai educato l'animo al timore ed avevano imparato a piegare il comportamento al calcolo. Fecero quindi buon viso a cattivo gioco, chiusero un occhio sulla grande diversità culturale dei garibaldini, toccarono con mano che si poteva guadagnare qualche denaro, scorsero un'abbondanza di viveri mai vista per il passato, neppure al passaggio dell'esercito napoleonico, e lentamente si sgelarono, si fecero disponibili, collaborarono, giunsero persino a familiarizzare coi nuovi arrivati. Fu un benessere effimero, perché le campagne furono calpestate e devastate, molte case bruciate e saccheggiate.

Sul finire del secolo, l'Austria, presaga della conclusione ormai imminente della sua lunga avventura italiana, fortificò il famoso "catenaccio delle Giudicarie" che faceva capo ai forti di Lardaro, preparandosi a resistere sulle alture a un attacco ormai inevitabile. A presidiare il ponte del Caffaro e la linea di confine che correva in direzione di Baitoni rimasero soltanto pochi benevoli funzionari ed alcune guardie a guardare svogliatamente i contadini che, da una parte e dall'altra, quasi ignari del confine che li divideva, attendevano al lavoro dei loro campi.

Soltanto nell'estate del 1914, quando sull'Europa si scatenò la bufera della Grande Guerra, i cancelli al ponte si chiusero ed i fossi di confine furono attentamente sorvegliati. Non tanto però da impedire ad alcuni uomini validi di Storo, Darzo e Lodrone di saltarli e passare in terra italiana, evitando così di partire per il fronte dei Carpazi.

Il confine di stato del Caffaro cadde definitivamente il 24 maggio del 1915 quando l'Italia entrò in guerra contro l'Austria. Gli austriaci si erano da qualche giorno ritirati sulle posizioni fortificate, così che le truppe italiane entrarono nei nostri paesi senza colpo ferire. Come già nel 1866, i nostri paesi furono invasi da un'abbondanza di vettovaglie. In particolare Storo fu trasformato in caserma e la sua vita economica e sociale ne fu stravolta, ma anche lacerata perché oltre 150 suoi giovani, reclutati nell'esercito di Francesco Giuseppe, furono inviati a combattere sul fronte dei Carpazi ed oltre 50 di loro vi persero la vita.

Dopo le incursioni aeree e le martellanti azioni di artiglieria dei primi mesi di guerra, il settore delle Giudicarie tornò ad essere relativamente tranquillo. Eppure nei cimiteri civile e militare di Storo furono sepolti 242 soldati, molti dei quali deceduti a seguito dell'epidemia di spagnola che mieté parecchie vittime anche tra i civili.

Con la prima guerra mondiale si chiuse una pagina della nostra storia: da confine di stato quello del Caffaro divenne semplice confine regionale. S'incrementò sul piano economico il legame con le terre lombarde, mentre sul piano politico ed amministrativo si rafforzò il rapporto col governo regionale e provinciale di Trento, caratterizzato da un'autonomia invidiata fino ad oggi dai cugini bresciani.

[modifica] La fine della società contadina

Dopo la prima guerra mondiale la vita tornò a scorrere nella piana di Storo come era stata per l'innanzi, scandita dal ritmo delle stagioni e da un calendario agricolo tramandato di padre in figlio. La maggior parte della popolazione era infatti composta da piccoli proprietari terrieri, ma il frazionamento di campi e prati del fondovalle aveva assunto ormai proporzioni per nulla funzionali, tali da scoraggiare la meccanizzazione del lavoro. Veniva considerato discreto un terreno di 1000 mq. di estensione. Molte energie lavorative e parecchio tempo utile si consumavano così in spostamenti quotidiani, di solito a piedi, tra il paese ed i vari appezzamenti di uno stesso proprietario, distanti tra loro e da casa anche qualche chilometro. Soltanto sui monti vi erano proprietà di prato e bosco di media grandezza.

In campagna si coltivavano granoturco, frumento, segala, orzo, soia, patate e fagioli, tutti prodotti che, come i prodotti lattiero-caseari, erano destinati al sostentamento del nucleo familiare che tentava così di rendersi autosufficiente nell'alimentazione. Le poche piante da frutto - meli, peri, ciliegi, peschi, noci e fichi - erano sparse in campagna e lasciate crescere pressoché selvaticamente. Fino al 1947 fu molto diffusa la coltivazione del baco da seta (nella campagna più vicina ai paesi c'erano moltissimi gelsi) che fornì alla famiglia i pochi spiccioli necessari a procurarsi quegli indispensabili prodotti che venivano da fuori. Verso la metà del secolo si diffuse la coltivazione del tabacco, ma l'esperimento fallì in pochi anni per una malattia che colpiva le piantine e fu chiuso anche l'essiccatoio.

L'allevamento fu più diffuso che sviluppato: ogni famiglia manteneva in stalla tutte le bestie consentite dal foraggio raccolto in campagna e nelle radure del bosco. Era comunque raro trovare case con più di quattro mucche, un paio di capre, un cavallo o un asino, un maiale. In estate le mucche rimanevano per tre mesi nelle malghe, il cui diritto d'uso era gestito dal Comitato Asuc. I contadini di Storo disponevano di tre malghe per le bestie da latte (Alpo, Vacil, Serodine, quest'ultima venduta verso il 1870 al Comune di Brione, dal quale gli storesi l'affittavano regolarmente) e di due per le giovenche (Dosso Rotondo, di proprietà dei conti Lodron, e Casina). Anche Darzo aveva pascoli e malghe di sua proprietà, sufficienti per le bestie allevate dai paesani, mentre i pascoli e le cascine della montagna di Lodrone rimarranno di proprietà privata fino ai nostri giorni.

All'inizio del Novecento si affacciò in zona un'idea socio-economica del tutto nuova, la cooperazione, che trovò un terreno fertilissimo, svolse un'azione di servizio del mondo contadino ed aiutò la popolazione a combattere la miseria. Sorse per prima la Famiglia Cooperativa di Storo (1897), seguita dalla Casse Rurali di Storo e di Darzo e Lodrone (nate entrambi nel 1902) e dal Consorzio Elettrico (fondato nel 1904). Il successo ottenuto da questi primi enti favorì più tardi il nascere di altri, come la Famiglia Cooperativa di Darzo e il Caseificio Sociale di Storo.

Le nuove società non si posero tuttavia come motore di cambiamento del sistema economico locale, che rimase sostanzialmente stabile e chiuso fino al secondo dopoguerra. Dopo il primo conflitto mondiale cessò l'emigrazione, ma le condizioni economiche rimasero difficili e addirittura si aggravarono a causa della scelta del fascismo a favore di un'economia autarchica. Gli stabilimenti per l'estrazione della barite, presenti sulla montagna di Darzo e Storo fin dagli ultimi anni dell'Ottocento, convissero con l'attività agricola, che continuò ad essere la prevalente, portando un certo cambiamento di sistema soltanto a Darzo, attraverso l'indotto dei trasporti.

Il passaggio dalla società contadina a quella industriale avvenne nel secondo dopoguerra e fu determinato da due fattori esterni: l'arrivo in zona di fabbriche dalla Lombardia e la costruzione delle centrali sul Chiese tra il 1952 e il 1960. I due fenomeni portarono lavoro e denaro in tutte le famiglie. A Storo aprì per prima la Sapes, industria che operò nel settore metalmeccanico e che giunse ad impiegare fino a 150 operai. Essa favorì anche il sorgere di numerose officine meccaniche collaterali, che si affiancarono alle botteghe artigianali tradizionali, pure esse in forte espansione. Ad un certo punto il Comune risultò essere il più industrializzato del Trentino in rapporto al numero di abitanti. Lo sviluppo fu successivamente favorito dalla costruzione di una zona industriale a Storo e di una zona artigianale a Darzo.

La forte richiesta di manodopera provocò un'autentica rivoluzione economico-sociale: i contadini si trasformarono in operai e l'improvvisa disponibilità di denaro favorì uno sviluppo edilizio senza precedenti e spesso caotico. La montagna venne in un primo tempo abbandonata, i vecchi fienili ed i prati si degradarono. Torneranno ad essere frequentati e valorizzati negli anni 60 come luogo di villeggiatura estiva.

La campagna del fondovalle invece non fu mai abbandonata. Dopo l'arrivo delle fabbriche sorsero alcune piccole e moderne aziende per l'allevamento del bestiame e la gente nel tempo libero continuò a lavorare i suoi piccoli appezzamenti di terreno a dimostrazione che l'industrializzazione non aveva del tutto modificato la mentalità contadina dei neo operai.

[modifica] Evoluzione demografica

Abitanti censiti


[modifica] Cultura

[modifica] Gastronomia

[modifica] Polenta gialla

È una polenta di mais fatta con il granoturco della varietà Marano solo nella zona di Storo.

[modifica] Polenta carbonera

È una polenta sempre fatta con la farina gialla di Storo con aggiunta di salame (fatto rosolare nel vino rosso), burro, e diversi tipi di formaggio stagionato.

[modifica] Capù

Impasto fatto con pane raffermo, salame, verza, formaggio grattugiato, noci, aggiustato di sale, uovo per amalgamare il tutto. Vengono fatte delle polpette avvolte in foglie di verza. Cotti in acqua, i capù vengono mangiati spesso accompagnati dalla tipica polenta gialla.

[modifica] Festività

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