Battaglia degli Altipiani
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Battaglia degli Altipiani Strafexpedition |
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Parte della Prima guerra mondiale | |||||||
![]() Quello che rimane della vegetazione alpina dopo un assalto sull'Asiago |
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Schieramenti | |||||||
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Comandanti | |||||||
Luigi Cadorna, Roberto Brusati sostituito da Guglielmo Pecori Giraldi | Conrad von Hötzendorf, arciduca Eugen von Habsburg-Lothringen, conte Viktor Dankl, Hermann Kovess | ||||||
Effettivi | |||||||
172 battaglioni, 850 pezzi d'artiglieria (stime) | 300 battaglioni, 2.000 pezzi d'artiglieria (stime) | ||||||
Perdite | |||||||
circa 140.000 (12.000 morti, 80.000 feriti e 50.000 prigionieri) | circa 100.000 (15.000 morti, 75.000 feriti, 15.000 fra prigionieri e dispersi) |
Fronte Italiano Grande Guerra |
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1a-Isonzo – 2a-Isonzo – 3a-Isonzo – 4a-Isonzo – 5a-Isonzo – Altipiani – 6a-Isonzo – 7a-Isonzo – 8a-Isonzo – 9a-Isonzo – 10a-Isonzo – Ortigara – 11a Isonzo – Caporetto – Piave – Vittorio Veneto |
La Battaglia degli Altipiani fu una dura battaglia combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916 tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico, impegnato in quella che era stata definita Strafexpedition (dal tedesco spedizione punitiva).
Indice |
[modifica] I preparativi austro-ungarici
Già da tempo il Capo di Stato Maggiore austro-ungarico, generale Conrad von Hötzendorf, propugnava l'idea di una Strafexpedition che colpisse letalmente l'ex-alleato italiano, reo di avere tradito la Triplice Alleanza, e negli anni precedenti aveva fatto esplorare la frontiera con l'Italia per studi, ancora teorici, sulla possibilità di una guerra d'invasione.
Il problema era apparso serio, anche perché la gran parte della frontiera correva in alta montagna, e i pochi guadagni territoriali italiani nel 1915 avevano per certi versi peggiorato la situazione, chiudendo la possibilità di un'avanzata in grande stile al di là di pochi fondovalle come la Valsugana e la Val Lagarina (peraltro servite da una ferrovia) e gli altipiani di Lavarone, Folgaria e Asiago.
La posizione geografica delle direttrici per l'avanzata lasciavano dunque spazio al progetto originario della spedizione, il cui scopo era arrivare da Trento fino a Venezia isolando la Seconda e la Terza Armata italiane, impegnate sull'Isonzo, nonché la Quarta, posta a difesa dell'alto bellunese e del Trentino orientale.
I preparativi per la battaglia iniziarono nel dicembre 1915, quando Hötzendorf propose al suo omologo tedesco, il generale Erich von Falkenhayn, lo spostamento di un certo numero di divisioni dal fronte orientale in Galizia al Tirolo, sostituendole con unità tedesche. Dopo aver ricevuto un diniego da parte del tedesco, che non avrebbe ordinato il rimpiazzo e sconsigliava vivamente l'austro-ungarico di iniziare l'offensiva, Hötzendorf si decise ad operare autonomamente. L'Undicesima armata austro-ungarica al comando del conte Dankl avrebbe operato lo sfondamento, seguita in rincorsa dalla Terza di Kovess.
Nei mesi precedenti l'offensiva, in Tirolo vennero accumulati mezzi e armamenti, ma non fu un'impresa facile: il 15 marzo 1916 una slavina di terra, neve e fango travolse una colonna militare su una delle direttrici più affollate per l'afflusso al fronte, il passo della Fricca (che collega Trento a Folgaria) e gran parte del traffico pesante, già aggravato dalle diverse deviazioni che doveva fare per non destare sospetti negli osservatori italiani, dovette essere deviato lungo arterie alternative più vicine al fronte e quindi più esposte.
Gran parte dei Kaiserjäger (tedesco: cacciatori imperiali – normali reggimenti di fanteria, da non confondere con i Landesschützen, le truppe da montagna dell'Austria-Ungheria, corrispondenti agl Alpini italiani) arrivò in Trentino per ultima e gradualmente, mentre il grosso dei materiali era già stato spostato; eppure, soprattutto a causa degli smottamenti e dei problemi logistici, l'offensiva non poté avere luogo in aprile come previsto. La data d'inizio venne fissata così al 15 maggio, sperando nel miglioramento meteorologico e in una stabilizzazione del fronte balcanico, dove l'intervento della Bulgaria aveva reso infinitamente meno difficoltoso gestire l'avanzata in territorio serbo.
[modifica] Le reazioni italiane
La Prima Armata del generale Roberto Brusati era allora impegnata in alcune azioni offensive atte a conquistare cime e agglomerati strategicamente importanti (Altissimo, il Pasubio, Ospedaletto) in Valsugana) con lo scopo di accorciare e razionalizzare la difesa del fronte, troppo esteso e frastagliato per garantire una difesa efficace. Era però diventato chiaro, in seguito ad alcune osservazioni, che al di là del fronte qualcosa di grosso si stava muovendo: ne venne perciò informato Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore italiano.
Sin dal mese di febbraio, disertori di nazionalità trentina, istriana, austro-ungarica e ceca passavano le linee per riferire la presenza di un imponente movimento di uomini e materiali. L'interrogatorio dei disertori, che avveniva nel Quartier Generale di Udine, era possibile solo per coloro che masticavano l'italiano, poiché nessuno degli alti ufficiali italiani parlava tedesco: nessuno di essi, per assurdo, si dichiarava comunque disposto a credere anche a chi parlasse italiano, sospettando di trovarsi di fronte a spie mandate col solo scopo di distrarre forze dall'Isonzo.
Il 22 marzo 1916, quasi due mesi prima dell'inizio della battaglia, Brusati ricevette l'ordine telegrafato da Cadorna di ripiegare e difendersi sulle posizioni principali di resistenza, concetto non ulteriormente chiarito e controproducente rispetto alle posizioni avanzate appena conquistate. Queste infatti accorciavano il fronte di svariate decine di km (da 380 a 213), e riducevano le direttrici d'attacco a circa metà della sua lunghezza, poiché passavano attraverso passi troppo impervi anche per la fanteria di montagna.
Brusati, restìo ad abbandonare le posizioni guadagnate, contravvenne agli ordini e stabilizzò la propria linea del fronte, promuovendo a linea di ripiego i capisaldi di Coni Zugna, Col Santo, Monte Maggio, Spitz Tonezza e il forte di Vezzena: egli era infatti convinto che il miglior modo di spezzare un'offensiva nemica era attaccare a propria volta, e non volle prendere in considerazione l'idea di arretrare neanche quando il 26 aprile 1916 il tenente Anton Krecht, disertore austro-ungarico del 4° battaglione dell'81° reggimento di fanteria, rese noto agli italiani il termine Strafexpedition per indicare l'offensiva in preparazione. Anche se nessun documento ufficiale austro-ungarico riferisce questo termine, di fatto veniva utilizzato nei comandi locali, e pare che fosse noto a tutti gli ufficiali in forza a von Hötzendorf.
Per quanto pattuglie esplorative venissero continuamente in contatto con gli Italiani in Valsugana, e per quanto sopra le teste dei soldati fischiassero proiettili diversi dal solito, più potenti del previsto (erano i tiri d'aggiustamento delle batterie medie e pesanti, che gli austro-ungarici ancora non avevano schierato sull'Isonzo), Cadorna non volle credere alle voci di un'offensiva austro-ungarica. Nei primi di maggio, durante un'ispezione sul fronte Trentino, Cadorna si rese conto che Brusati aveva pienamente contravvenuto ai suoi ordini e lo sostituì, deferendolo alla Corte Marziale (la quale lo riabilitò nel 1919). Il suo posto venne preso da Guglielmo Pecori Giraldi, che però non arretrò la linea del fronte per il pericolo concreto di essere colti dall'assalto austro-ungarico in linea di ripiegamento.
Su un piano strategico, la data del 15 maggio era perfetta, soprattutto perché l'Isonzo viveva qualche settimana di relativa calma, con piccole schermaglie. Il tempo consentiva di stare relativamente bene anche in alta montagna, e la sistemazione delle vie di accesso aveva consentito di spostare da altri fronti alcuni pezzi di grosso calibro, di fatto concepiti da cannoni di marina (381 e 420 mm) e capaci di fare danni tremendi sull'obbiettivo.
Convinto finalmente dell'attacco – ma sottovalutandolo, non credendo che due intere armate austro-ungariche si fossero schierate in Valsugana e in Val Lagarina, né che l'attacco potesse avvenire attraverso i massicci montuosi –, ordinò alla 15° divisione di farsi avanti tra Borgo Valsugana e Levico, spostando il fronte in una zona pericolosamente esposta, e difficilmente difendibile. Il 15 maggio, le truppe italiane si fecero così trovare in capisaldi troppo avanzati.
[modifica] Lo scontro
Nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916 l'artiglieria austro-ungarica cominciò un bombardamento a tappeto (tecnica finora mai utilizzata sul fronte italiano) sulle linee nemiche, e che di fatto colse impreparati molti comandi locali.
L'artiglieria italiana, più che doppiata nel numero e relativamente inferiore nella potenza, non reagì, avendo ricevuto in molte zone l'ordine di non fare nulla a meno di contrordini diretti da parte del Comando Supremo — ordini che non arrivarono mai, poiché molti degli ufficiali si trovavano in brevi periodi di vacanza in preparazione della seguente offensiva sul Carso.
Le fanterie italiane, pressate e di fatto private delle proprie difese dai grossi calibri avversari, non arretrarono un po' per ostinazione e un po' per mancanza di una diretta coordinazione che rendesse il ripiegamento organico. Ciò, effettivamente, non consentì il rafforzamento di quelle seconde e terze linee che si sarebbero poi piegate all'avanzata nemica.
Le prime fasi dell'attacco austro-ungarico, dunque, non potevano che essere coronate da successo: l'Undicesima e la Terza Armata austro-ungariche attaccarono su un fronte lungo 70km, concentrando il proprio attacco lungo le grandi valli di sbocco al Veneto.
In Valsugana gli italiani furono respinti dal XVII Corpo d'armata austro-ungarico fino a Ospedaletto, che divenne una città fortificata e dove il fronte si stabilizzò dopo diversi giorni. Dalla Val Lagarina il VII Corpo d'armata dilagò prendendo le posizioni della Zugna Torta, Pozzacchio e Col Santo, ma la resistenza italiana seppe tenere sul Coni Zugna, sul Pasubio e sul Passo Buole (dai 10 ai 15 km più indietro); quest'ultimo passò poi alla storia come Termopili d'Italia.
La XXXV Divisione italiana fu una delle più colpite dall'attacco nemico: pur controllando solo 6 km di fronte, si abbatté sui suoi uomini il fuoco di più di 300 pezzi (di cui un'ottantina di medio calibro e una trentina di grosso calibro), seguite dal poderoso attacco del XX Corpo d'armata austro-ungarico dell'arciduca Carlo.
La notizia delle vittorie austro-ungariche seminò panico tra gli alti comandi italiani, e Cadorna ordinò la mobilitazione delle ultime leve, assieme alla creazione di una 5a Armata che si disponesse tra Vicenza e Treviso al comando del generale Frugoni. Per prendere parte alla difesa del Paese arrivarono uomini da tutta Italia; furono coinvolti anche 120 battaglioni già impegnati sull'intero fronte isontino, spostati con una complessa e magistrale operazione logistica che coinvolse l'intero Veneto settentrionale. Vennero allestite sette divisioni di riserva, di cui una composta di uomini rimpatriati in tutta fretta dall'Albania e dalla Libia.
Cadorna richiamò anche l'attenzione degli alleati russi, impegnati sul fronte in Galizia, affinché lanciassero un'offensiva di larga scala approfittando della minore copertura ungherese sul fronte orientale: se era vero che alcune divisioni si erano spostate in Tirolo a partire da quelle posizioni, alcuni vuoti di guardia dovevano essere rimasti.
L'altopiano di Asiago divenne teatro di combattimenti asperrimi, poiché mancava di appoggio sulla destra, vista l'evacuazione verso Ospedaletto. Su 5 km di fronte aprirono il fuoco più di duecento pezzi d'artiglieria, di cui venti di grosso calibro. Il III Corpo austro-ungarico sorpassò le difese italiane anche grazie al terreno in gran parte nevoso (gli italiani non trovavano appigli per muoversi, e restavano indietro rispetto agl'invasori, finendone prigionieri), e occupò Arsiero e Asiago tra il 27 e il 28 maggio; la resistenza, ridotta all’orlo meridionale della conca di Asiago, non riuscì a impedire la caduta di Gallio, prospettando agli austro-ungarici uno sbocco sull'alta pianura vicentina. I forti di Verena, Campolongo e Punta Corbin vennero fatti saltare per non lasciarli in mani austro-ungariche.
Cadorna a questo punto lavorò in modo pedissequo e preciso: preparò un accurato piano di ripiegamento delle unità isolate e sbandate, sostituì attraverso continue e puntigliose ispezioni quei comandanti che manifestavano evidenti segni di cedimento o depressione, evitò il panico (suo e altrui) quando gli austro-ungarici, premendo in modo tremendo dalla Posina all'altipiano dei Sette Comuni, presero il monte Cengio.
Il 2 giugno venne ordinata la controffensiva: la 1a Armata di Pecori Giraldi sarebbe avanzata nell'altopiano d'Asiago, dove le linee di rifornimento austro-ungariche non raggiungevano più le prime linee proprio a causa della formidabile avanzata delle due settimane precedenti. Il disegno di Cadorna era quello di aprire il fronte al centro, sugli altipiani, e aggirare le forti compagini laterali in Valsugana e Val Lagarina. Gli austro-ungarici però tennero bene, anche grazie a un fronte d'attacco che si faceva sempre più stretto e alla solita, cronica mancanza di artiglierie da parte italiana.
Il 4 giugno dalla Russia partì un'offensiva su larga scala che sovrastò le sguarnite linee austro-ungariche, prive di qualunque rimpiazzo da parte tedesca. Il rapido e precoce ripiegamento delle linee austro-ungariche richiese l'appoggio e l'intervento di rinforzi, che potevano confluire solo dal Tirolo.
L'avanzata italiana, costante pur nella sua lentezza, minacciava i capisaldi laterali e, per evitare ulteriori perdite di uomini e mezzi, il 15 giugno Hötzendorf ordinò il ripiegamento su basi prestabilite e già pronte. Approfittando di un rallentamento dell'avanzata italiana, attardata dalla mancata copertura di artiglierie da montagna, il 25 l'arciduca Eugenio ordinò la rottura del contatto, attestandosi a Roana (alla sinistra del Posina), sul monte Zebio e sull'Ortigara. Gran parte delle nuove linee – tranne rare eccezioni – erano a una manciata di chilometri davanti a quelle prima della battaglia.
Il 27, Pecori Giraldi interruppe qualunque azione controffensiva, essendo evidente il bisogno di un riordinamento operativo e organizzativo delle linee italiane.
Curiosamente, si trattò dell'unica battaglia a cui abbia preso parte Benito Mussolini.
[modifica] Conseguenze
L'alto numero di perdite su entrambi i fronti, nonché il furore di alcuni scontri, determinarono l'avvio di una serie di considerazioni tattiche, strategiche e politiche.
Tatticamente, era ormai consolidato l'uso di massicci sbarramenti di artiglieria per colpire le difese e sconquassare le compagini avversarie, e gli Altipiani evidenziarono quanto fosse efficace se si era in grado di colpire un nemico sguarnito. Eppure, queste straordinarie battaglie di materiale stavano dando, come a Verdun, risultati molto scarsi, e i principi che regolavano un conflitto così strutturato non sarebbero cambiati fino all'invenzione, tutta tedesca, del Blitzkrieg.
Strategicamente, le perdite lasciarono il segno. In Italia, si diffuse la psicosi dell'invasione da parte degli austro-ungarici, i quali, come provato da questa battaglia, si erano mostrati capaci di sconvolgere le aspettative dei comandi italiani: se era stato necessario mobilitare uomini da tutto il Paese per fermare l'avanzata nemica, era ovvio che i comandi militari avevano appena concluso un periodo di eccezionali sottovalutazioni di chi stava dall'altra parte del fronte. Ne sia a riprova la disposizione delle forze italiane lungo la frontiera del Tirolo, sul quale si disponevano 400.000 soldati: lo sforzo per mantenerli avrebbe rimesso a dura prova le capacità logistiche dello staff generale italiano, soprattutto in prospettiva della successiva battaglia in Venezia Giulia. L'Austria-Ungheria, presa com'era da due fronti in cui infuriavano battaglie cruente e dopo il ripiegamento in Tirolo, non sarebbe più stata in grado di sferrare campagne offensive senza l'aiuto tedesco; peraltro, l'aiuto tecnico-tattico tedesco sarebbe stato determinante nello sfondamento operato a Caporetto.
Politicamente, i più grandi sconvolgimenti si ebbero in Italia. Benché il disastro fosse stato quasi miracolosamente evitato, la Strafexpedition provocò una grave crisi politica.
A livello popolare, aveva destato grande scalpore la morte o la cattura (e la conseguente esecuzione) di alcuni tra i più illustri e conosciuti personaggi dell'irredentismo italiano, quali Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Cesare Battisti, Nazario Sauro, Enrico Toti. La vita e la morte di questi personaggi avrebbero guidato, in Italia, molte delle campagne d'arruolamento e molta parte della letteratura propagandistica del periodo.
A livello istituzionale, il Presidente del Consiglio dei Ministri, Antonio Salandra, stava per prendere a pretesto l'attacco austro-ungarico per sollevare Cadorna dal comando, ma il 10 giugno 1916 perse l'incarico a seguito di un voto di sfiducia. Prese il suo posto Paolo Boselli, decano della Camera, il quale aumentò il numero dei ministri per una manovra politica atta a soddisfare il maggior numero possibile di capigruppo e creare un governo quanto più unito possibile; eppure, le capacità decisionali del Parlamento italiano ne risultarono ancor più indebolite. Agli Esteri rimaneva Sidney Sonnino.
Forse proprio per questo motivo il Regno prese una decisione che Salandra aveva fino ad allora accuratamente evitato: il 27 agosto venne consegnata agli ambasciatori dell'Impero Germanico la dichiarazione di guerra, che di fatto integrava nel conflitto mondiale quello che fino ad allora era rimasto un regolamento di conti con l'Austria-Ungheria.