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Fatti del G8 di Genova - Wikipedia

Fatti del G8 di Genova

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«La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.»

Gli episodi di violenza avvenuti nei giorni da giovedì 20 a domenica 22 luglio 2001 in concomitanza con la riunione del G8, sono una delle pagine più dolorose della storia di Genova in anni recenti, e vengono ricordati come fatti del G8 di Genova.

La riunione fu fortemente contestata dai movimenti no-global e dalle associazioni pacifiste e non che dettero vita a manifestazioni di dissenso poi sfociate in gravi tumulti di piazza con gravi danni alla città.

Indice

Preoccupazioni, polemiche e proteste prima del G8

La decisione di tenere a Genova una riunione del G8 aveva suscitato polemiche, proteste e preoccupazioni fin dai mesi precedenti. Nel corso delle ultime riunioni di organismi internazionali si erano verificate forti mobilitazioni di manifestanti contrari alle tendenze economiche neoliberiste, in alcuni casi sfociate in scontri.

Il movimento no-global aveva preso chiaramente forma a Seattle il 30 novembre 1999 alla Conferenza dell'Organizzazione Mondiale del Commercio ed era cresciuto con gli anni,[1]; per questo veniva definito nei primi tempi come Popolo di Seattle. Nel 2001 manifestazioni e scontri si erano verificati a Davos in occasione del World Economic Forum[2] [3] (27 gennaio), a Goteborg, per il Summit europeo (15 giugno) e a Napoli [4] dal 15 al 17 marzo, dove la contestazione al Global Forum sfociò in violenti scontri tra manifestanti e forze dell'ordine.

Le proteste erano finalizzate a contrastare il potere di un gruppo ristretto di capi di Stato e di governo che, forti della loro potenza economica, politica e militare, erano, a detta dei manifestanti, in grado di decidere le sorti di vaste porzioni dell'umanità. Inoltre si contestavano le politiche e le ideologie neoliberiste adottate dalle organizzazioni sovranazionali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio e il Fondo Monetario Internazionale.

Il governo italiano, insediato da poco, criticò il precedente governo per la scelta di Genova. La città era considerata inadatta a garantire una buona gestione della sicurezza e dell'ordine pubblico.

I genovesi dal canto loro erano già da tempo preoccupati per i rischi connessi alla presenza in città di migliaia di persone e di capi di stato. Nelle occasioni sopra citate si erano registrati duri scontri e danni materiali da parte di gruppi di contestatori, alcuni dei quali avevano utilizzato la tecnica del Black bloc, in genere violenta. I genovesi furono invitati ad abbandonare la città mentre i mass media diedero notevole risalto alle misure di sicurezza attuate, come l'installazione delle grate di delimitazione della zona rossa o la chiusura dei tombini per timore di attentati dinamitardi.

Un fascicolo riservato di 36 pagine, intitolato "Informazioni sul fronte della protesta anti-G8", preparato dalla Questura di Genova, sulle possibili strategie dell'ala più problematica dei manifestanti e reso pubblico dal quotidiano genovese "Il Secolo XIX" alcuni giorni dopo il termine del G8, elencava alcune probabili azioni dei vari gruppi di manifestanti tra cui: lancio di "frutta con all'interno lamette di rasoio" o di "letame e pesce marcio" tramite catapulte, "blocchi stradali e ferroviari", lancio di "migliaia di "palloncini" con sangue umano" all'interno, uso di "fionde tipo "falcon" per lanciare a distanza biglie di vetro e bulloni allo scopo di perforare gli scudi di protezione e i parabrezza dei mezzi in uso alle forze dell'ordine limitandone la capacità di movimento", lancio di copertoni in fiamme, rapimento di esponenti delle forze dell'ordine e uso di auto con targhe dei Carabinieri falsificate per avere accesso ai varchi della zona rossa[5]. Dopo la pubblicazione del documento è stata evidenziata da più parti (sopratutto tra i gruppi di riferimento dei manifestanti) un'apparente anomalia: il dossier infatti, oltre alle possibili strategie violente di cui sopra, metteva in guardia le forze dell'ordine anche da una serie di iniziative non violente e del tutto legittime, come il "costituire gruppi con conoscenze giuridiche per affrontare tutte le problematiche relative ad eventuali problemi giudiziari e legali con le Forze dell'ordine", il "munirsi di computer portatili e radio ricetrasmittenti nonché di telecamere per trasmettere in tempo reale sul circuito Internet le immagini della protesta" o l'"affittare, anche per poche ore, un canale satellitare per divulgare la protesta a livello mondiale".

La città blindata

Le misure di sicurezza prevedevano una zona gialla, ad accesso limitato, ed una zona rossa assolutamente riservata, definita da qualcuno Fortezza Genova[6], accessibile ai soli residenti attraverso un numero limitato di varchi.

Furono poste sotto controllo strade ed autostrade; chiusi il porto, le stazioni ferroviarie e l'aeroporto, dove furono installate batterie di missili terra-aria in seguito alla segnalazione da parte dei servizi segreti del rischio di attentati per via aerea. Furono anche adottate apparecchiature capaci di disabilitare temporaneamente i telefoni cellulari.

Nel clima teso della vigilia, molti genovesi decisero di abbandonare la città e di chiudere i negozi anche nelle zone della città lontane dai luoghi interessati.

Furono molti gli allarmi-bomba, il più delle volte ingiustificati[7]. Un pacco-bomba ferì un carabiniere [8] e un altro, a Cologno Monzese, la segretaria del giornalista Emilio Fede [9].

Il Genoa Social Forum e la zona rossa

Alle manifestazioni di protesta parteciparono 700 gruppi e associazioni di diversa ispirazione e nazionalità, afferenti al Genoa Social Forum, organizzatore e coordinatore delle manifestazioni.

Il GSF chiese tramite i portavoce Vittorio Agnoletto e Luca Casarini, l'annullamento del G8. Secondo il GSF infatti la riunione dei capi di Stato e di governo era da considerarsi illegittima perché pochi uomini potenti avrebbero preso decisioni destinate a condizionare popoli non rappresentati dal G8 e perché il divieto di entrare liberamente nella zona rossa era considerato limitativo delle libertà costituzionali. Il governo rifiutò la richiesta, adducendo a motivo gli impegni internazionali presi dall'Italia, ancorché presi dal precedente governo, che in ogni caso prescindono dal governo pro-tempore in carica.

Galleria

Cronaca dei giorni del G8

I fatti del G8 si svolsero nell'arco di quattro giorni: da giovedì 19 a domenica 22 luglio.

Giovedì 19 luglio

Il 19 luglio si svolse una pacifica manifestazione di rivendicazione dei dirtti degli extracomunitari e dei migranti a cui parteciparono moltissimi gruppi stranieri, cittadini genovesi, rappresentanti della Rete Lilliput ed anche - in coda al corteo - un piccolo gruppo di anarchici. Fu stimata la presenza di 50 000 persone.

Nel frattempo, in vista soprattutto di due grandi cortei organizzati per venerdì e sabato, continuarono ad affluire gruppi organizzati e singole persone, alloggiati in aree predisposte in varie zone di Genova.

Venerdì 20 luglio

La giornata di venerdì 20 luglio fu la più drammatica e si concluse con la morte di Carlo Giuliani e con gravi danni alla città.

Erano previste diverse manifestazioni in varie zone della città, tra cui:

  • un corteo di lavoratori in sciopero (tra Sampierdarena (Piazza Montano) e piazza Di Negro), poi svoltosi senza incidenti degni di nota;
  • un corteo della Rete Lilliput, di Rete Contro G8, Legambiente e Marcia mondiale delle donne, in partenza alle 10 da Piazza Manin a piazza Goffredo Villa, nel quartiere di Castelletto, con sit-in davanti ai varchi della zona rossa di piazza Corvetto;
  • un corteo dei Cobas e del Network per i Diritti Globali in piazza Paolo da Novi a mezzogiorno, dedicato al tema del lavoro. Era prevista la partecipazione delle Tute Bianche, intenzionate a violare la zona rossa. Al corteo si unirono manifestanti che potevano essere interessati alla tecnica di manifestazione del Black bloc. Iniziarono i primi scontri della giornata;
  • un corteo delle Tute Bianche e di altri gruppi intenzionati a violare la zona rossa, che partì dallo stadio Carlini alle 11.30. Le Tute Bianche, capeggiate da Luca Casarini, parteciparono al corteo con l'intenzione di violare i blocchi a protezione della zona rossa, con i propri membri dotati di caschi, protezioni in gommapiuma e scudi di plexiglass. Esse avrebbero dovuto essere privi di armi di offesa , che avrebbero dovuto essere ricercate in precedenza dalle forze dell'ordine allo stadio Carlini, dove alloggiavano le Tute Bianche;
  • un corteo di Globalise Resistance che partì da piazzale Kennedy, nella zona della Foce, alle 12, con l'intenzione da parte di diversi manifestanti di violare pacificamente la zona rossa;
  • da Piazza Carignano era previsto il corteo dell'Attac, dell'Arci, di Rifondazione Comunista, della Fiom Cgil, dall'UDS e dall'UDU;
  • Attac France sfilò da piazzale Kennedy verso piazza Dante, una ragazza e un anziano riuscirono a violare la zona facendosi poi arrestare senza opporre resistenza.
  • nella mattinata un tentativo di oltrepassare la zona rossa da parte di un gruppo di attivisti di Greenpeace per via aerea, tramite un aquilone gonfiabile, viene bloccato dalla polizia.

I possibili simpatizzanti della tecnica del Black bloc

Venerdì, prima dell'inizio delle manifestazioni, in alcune zone del centro vennero ripresi gruppi di manifestanti, (gruppi anarchici ed esponenti di estrema sinistra ed estrema destra) considerati possibili interessati ad azioni di tipo black bloc . Intenti a procurarsi pietre e benzina (danneggiando alcuni distributori), per fabbricare bombe molotov, si mossero quasi sempre indisturbati per tutta la durata del G8: i rari interventi delle forze dell'ordine furono in genere tardivi e inefficaci, cosicché i potenziali autori di black blocs riuscirono spesso a disperdersi e a confondersi tra i manifestanti. Un altro gruppo di persone interessate ad azioni di tipo "Black Bloc" si procurò a spese di un distributore Q8 situato in via Tolemaide 13 gestito da Ernesta Neri i mezzi per attuare un attacco tipo "Black Bloc". (fonte relazione del P.M.)

La presidente della Provincia di Genova, Marta Vincenzi segnalò, tramite i canali ufficiali e rilasciando interviste nelle dirette televisive, la presenza di uno di questi gruppi sospetti in un edificio vicino alla sede della provincia. Lo stesso fecero, come si scoprì durante i processi, anche molti cittadini residenti in zona e diversi manifestanti. Le segnalazioni non portarono a nulla: i primi controlli negli edifici in oggetto arrivarono a G8 ormai concluso e si limitarono a constatare i danni.

È da notare che il termine Black Block originariamente non definisce i partecipanti alle manifestazioni o agli scontri, ma un determinato tipo di manifestazione e di scontri che prevede delle azioni tipiche (marciare in blocco, vestiti di nero, allo scopo di creare un forte effetto visivo, uso sistematico del vandalismo, deviare dai percorsi imposti dalle autorità ai cortei autorizzati, costruire barricate, o anche sit-in pacifici di protesta, e così via), ma molti giornali usano spesso questo termine per indicare genericamente i manifestanti violenti e quest'ultima definizione, perlomeno in Italia, è ormai la più conosciuta ed abusata.

Il termine fu usato dai "media" per il suo valore emotivo e senzazionalistico. In realtà tra le centinaia di fermati ed arrestati durante i giorni del vertice, nessuno risulterà aver a che fare con il sistema dei Black Bloc. Il sistema in quanto tale smentì la sua partecipazione ai fatti del G8 di Genova e per smarcarsi dalla cattiva fama fattagli dai giornalisti cambiò il suo nome da "Black Bloc" = "Blocco nero", a "Antrax Bloc" = "Blocco antracite".

Gli scontri

Già dal primo pomeriggio manifestanti violenti, possibili simpatizzanti della tecnica del black bloc, incominciarono ad inserirsi nei cortei causando lunghi e violenti scontri (con l'uso di bastoni, lanci di Molotov e sassi) nei pressi della stazione Brignole. Per sfuggire alle cariche delle forze dell'ordine i manifestanti violenti si disperdevano tra la folla dei manifestanti pacifici. Negli scontri si impiegarono lacrimogeni e furono esplosi alcuni colpi di arma da fuoco in aria (le relazioni di servizio dei Carabinieri riferiranno di diciotto colpi sparati nella giornata, azione in almeno un caso immortalata dai fotografi[10]. Alcuni filmati amatoriali e televisivi mostrarono gli scontri tra manifestanti violenti e altri manifestanti che, intenzionati a preservare lo svolgimento pacifico della manifestazione, cercavano di dissuaderli dallo scontrarsi con la polizia o dal compiere atti di vandalismo come distruggere ed incendiare automobili.

Esistono inoltre numerose testimonianze, riprese e immagini fotografiche di individui su scooter nell'atto di sparare[citazione necessaria] e in alcune occasioni sono stati visti individui con il viso coperto e con abbigliamento scuro, simile a quello usato da gran parte dei violenti che stavano attuando atti vandalici al di fuori dei cortei, mentre parlano in tutta tranquillità con poliziotti, carabinieri ed agenti dei servizi di sicurezza, anche all'interno del perimetro di caserme dei Carabinieri [11][12].

Defilatosi dalla zona degli scontri, un gruppo di manifestanti si allontana dalla zona rossa verso il carcere di Marassi. Verso le 14:30 una parte di questi si separa dal gruppo e punta verso l'ingresso del carcere, dove, adottando la tecnica del black bloc, ne danneggia le telecamere di sorveglianza esterne ed il portone. Le forze dell'ordine abbandonarono il presidio della piazza (dai filmati e dalle testimonianze al momento dell'arrivo dei manifestanti erano presenti 4 blindati e 2 defender dei carabinieri, una volante della polizia e due auto della polizia municipale) davanti al carcere subito dopo l'arrivo del gruppo, fornendo in seguito una ricostruzione dei fatti diversa (circa 100 manifestanti staccati dal gruppo principale di circa 1000 persone avrebbero attaccato le forze dell'ordine armati di spranghe e lanciando diverse molotov, sassi e bottiglie di vetro, a questi se ne sarebbero aggiunti in seguito altri 200, che avrebbero tentato di accerchire i mezzi nonostante il lancio di lacrimogeni, costringendoli alla fuga) da quanto dichiarato dal personale del carcere e da quanto mostrato da alcune riprese amatoriali (acquisite dalla magistratura), incluse quelle raccolte dal regista Davide Ferrario nel suo documentario Le strade di Genova (in questi si vede un gruppo di alcune decine di manifestanti violenti che si avvicina al piazzale antistante il carcere lanciando alcuni oggetti, i mezzi dei carabinieri che, con il gruppo ancora a distanza, ripiegano dopo aver lanciato solo due lacrimogeni, uno dei quali finito nel greto del torente Bisagno lontano dai manifestanti ed un altro gruppo di manifestanti più numeroso che, ancora più distante, sta spingendo e facendo rotolare alcune campane della raccolta differenziata sul ponte che attraversa il torrente dirigendosi nella direzione del carcere)[13][14].

Gli scontri si induriscono

Nel primo pomeriggio avanzano circa 300 carabinieri a piedi, blindati e camionette che, a causa degli attacchi, trovano grosse difficoltà a muoversi nelle strette vie genovesi.

Erano diretti verso piazza Giusti [15], dove un gruppo di manifestanti violenti stava da alcune ore compiendo vandalismi contro un distributore, un supermercato, una banca e gli arredi urbani. Secondo le testimonianze dei residenti, la polizia, benché sollecitata, non intervenne perché l'ordine era di limitarsi a passare le segnalazioni alla centrale. Inoltre alcuni manifestanti pacifici si sarebbero uniti ai manifestanti violenti nel saccheggio di un supermercato, mentre i possibili autori di azioni tipo black bloc (una quindicina) si toglievano i vestiti scuri per essere più difficilmente individuabili[16].

I carabinieri che stavano sopraggiungendo sarebbero dovuti giungere da via Tolemaide per poi passare per il sottopasso ferroviario di via Archimede, senza venire quindi in contatto con il corteo pacifico, proveniente da corso Gastaldi e diretto in via Tolemaide, e avrebbero quindi dovuto bloccare i gruppi estremisti che da piazza Giusti stavano intanto avanzando verso il quartiere di Marassi. Ma, non conoscendo la città e avendo sbagliato strada, arrivarono invece dalla parallela via Giovanni Tomaso Invrea per poi posizionarsi davanti al sottopasso ferroviario di corso Sardegna. Qui, dopo alcuni attimi di sosta, ufficialmente per liberare la strada e per contrastare il fitto lancio di oggetti di cui erano bersaglio, caricarono per alcune centinaia di metri (fino all'incrocio con via Caffa) la testa del corteo autorizzato (tra i primi il gruppo delle "Tute Bianche") che stava sopraggiungendo.

Descrivendo questo cambio di obiettivo, diversi giornalisti presenti riferirono durante il processo di "un lancio simbolico con non più di due o tre sassi" contro le forze dell'ordine da parte di alcuni manifestanti molto giovani, esterni al corteo (secondo le testimonianze provenienti non da quest'ultimo, ma da un gruppo di manifestanti violenti): la versione fornita dalle forze dell'ordine indica un "fitto" lancio di sassi[17] [18]. Gli stessi giornalisti ed altri testimoni riferiranno al processo del comportamento incomprensibile da parte delle forze dell'ordine, che avrebbero tollerato per alcune ore gli atti vandalici dei manifestanti violenti, mentre il corteo autorizzato veniva fatto bersaglio di numerosi lanci di lacrimogeni e successivamente caricato, dopo solo poche decine di secondi di contatto visivo.

La stranezza del comportamento delle forze dell'ordine emerse anche durante il processo, in cui furono ascoltate delle registrazioni provenienti dalla Questura. In una di queste registrazioni si sentono sia un operatore urlare: "Nooo!... Hanno caricato le tute bianche porco giuda! Loro dovevano andare in piazza Giusti, non verso Tolemaide... Hanno caricato le tute bianche che dovevano arrivare a piazza Verdi"[19] sia le ripetute richieste del dirigente del Commissariato di Genova, responsabile della sicurezza del corteo, relative al far ritirare il gruppo dei Carabinieri dalla zona per evitare di fare da "tappo" e bloccare il corteo in arrivo.

Molti manifestanti ed alcuni giornalisti si allontanarono, dopo i primi lanci di lacrimogeni, per cercare riparo nelle strade laterali, ma nonostante ciò alcuni di essi non riuscirono ad evitare di essere coinvolti negli scontri e di subire il pestaggio da parte delle forze dell'ordine. Il capitano dei Carabinieri che aveva ordinato le cariche sostenne al processo che si trattava di cariche "di alleggerimento", ammettendo però di non conoscere la topografia della zona e di non essersi reso conto che così facendo aveva chiuso le vie di fuga.

Dopo questa prima carica i carabinieri iniziarono a ripiegare, per permettere il passaggio del corteo, ma nel frattempo alcuni manifestanti pacifici, a cui si erano aggiunti dei manifestanti violenti, provenienti dal sottopasso di corso Sardegna, avevano assaltato e poi dato fuoco ad un mezzo blindato in panne (dalle analisi del materiale fotografico e delle riprese, effettuate nei vari processi, si scoprì che dal blindato, dopo l'uscita del personale e prima che venisse dato alle fiamme, fu sottratta una mitraglietta, che si vede in alcune foto successive semidistrutta su un marciapiede vicino). A questo punto la centrale operativa perse i contatti radio con gli uomini presenti che, avendo già impiegato tutti i lacrimogeni a disposizione (infatti diversi agenti, seppur protetti dalle maschere, e molti manifestanti accusarono negli anni successivi problemi respiratori cronici a causa dell'enorme quantità di lacrimogeni impiegata), ripresero le cariche.

Durante i violentissimi scontri i manifestanti reagirono alle cariche ed ai lanci di lacrimogeni incendiando i cassonetti dell'immondizia e le automobili, utilizzandoli come barricata, e compiendo altri atti vandalici.

Lo scontro di Piazza Alimonda

Piazza Gaetano Alimonda [20] è una piccola piazza del quartiere Foce che divide in due via Caffa nel suo percorso da via Tolemaide a piazza Niccolò Tommaseo. Via Caffa è lunga in tutto circa 250 metri: 90 da via Tolemaide a piazza Alimonda, circa 60 sulla piazza (della quale costituisce il lato più esteso) e poco più di 100 da piazza Alimonda (angolo via Ilice) a piazza Tommaseo. Perpendicolare a via Caffa è via Giovanni Tomaso Invrea, che collega la parte alta di via Giuseppe Casaregis, parallela a via Caffa, con Piazza Alimonda. Dalla parte opposta, dietro la chiesa che si affaccia sulla piazza, collegata da via Ilice e via Odessa, corre via Crimea.

Come testimoniato da alcune fotografie scattate verso le 15:00 del 20 luglio da un balcone su via Caffa, verso via Tolemaide, nella piazza, affollata da numerosi passanti e manifestanti di passaggio, la situazione era tutto sommato tranquilla rispetto agli scontri in corso nelle vicinanze in seguito all'attacco portato dalle forze dell'ordine contro il corteo autorizzato delle "Tute Bianche", lungo via Tolemaide. Ma, poco dopo le 15.00, iniziò il lancio di lacrimogeni da parte dei carabinieri, da via Invrea, verso i manifestanti in piazza. In diversi punti furono posti cassonetti dei rifiuti al centro della strada per rendere difficoltoso il movimento dei mezzi; contro uno di questi sbarramenti si fermò l'auto dei carabinieri da cui fu successivamente sparato il colpo di pistola contro Giuliani.

Attorno alle 16:00 carabinieri e polizia iniziarono le cariche ed i pestaggi nei confronti dei manifestanti in piazza e nelle vie limitrofe e, grazie anche all'aiuto di numerosi mezzi, riuscirono a prendere il controllo dell'area. Un filmato ripreso dalla telecamera posta nel casco di un carabiniere, e presentato agli atti nel procedimento aperto dalla magistratura genovese in relazione alla morte di Giuliani, mostra un gruppo di carabinieri picchiare un manifestante rimasto isolato e poi trascinarlo insanguinato da via Crimea a via Ilice e per circa ottanta metri sino in piazza Alimonda. In quei frangenti giungeva in piazza, da via Invrea, il Defender con a bordo l'allora tenente-colonnello dei carabinieri Giovanni Truglio, comandante dello stesso reparto cui apparteneva Placanica. Il manifestante ferito fu prelevato da un'ambulanza verso le 17:00.

Poco dopo le 17, la compagnia del CCIR Echo dei Carabinieri, sotto il comando del capitano Claudio Cappello[21] e seguita da due Land Rover Defender, ferma insieme ad altre forze di polizia tra via Caffa e Piazza Tommaseo [22], attraversò i 200 metri di via Caffa e caricò parte dei manifestanti che erano nell'incrocio con via Tolemaide (dove stavano avvenendo gli scontri) protetti da barricate improvvisate.

Secondo la versione ufficiale la carica era stata effettuata per timore che i manifestanti attaccassero il gruppo delle forze dell'ordine. In alcune foto relative alla costruzione di questa barricata compare Carlo Giuliani.

Durante le inchieste su quei giorni si è fatto notare che questa carica precludeva ogni possibile via di fuga ai manifestanti (a parte l'impossibile manovra di tornare indietro lungo via Tolemaide verso le cariche delle altre forze dell'ordine). Infatti alcuni manifestanti, vistasi preclusa ogni via di fuga, avevano cercato di contrattaccare le cariche della polizia per farsi strada nella direzione opposta.

Fasi preliminari alla morte di Carlo Giuliani

Arrivati allo scontro, le decine di carabinieri impiegati (dalle foto e dalle testimonianze circa 50/60) non furono però in grado di disperdere i manifestanti e, alla reazione di questi, indietreggiarono precipitosamente, inseguiti dai manifestanti, verso l'inizio di via Caffa, dove erano posizionati i poliziotti. Durante i processi, sulla presenza dei due Defender, Cappello affermò che vi fu un arretramento disordinato. Io non mi sono reso conto che dietro di noi vi erano anche le due Land Rover, anche perché non c'era alcun motivo operativo.

L'aggressione al Defender

In questa precipitosa ritirata una Land Rover Defender dei Carabinieri, con tre giovani militari a bordo (l'autista Filippo Cavataio di anni 23, Mario Placanica carabiniere ausiliario (di leva) di anni 20 e Dario Raffone carabiniere ausiliario (di leva) di anni 20), restò bloccata contro un bidone dei rifiuti mentre stava attraversando Piazza Alimonda (secondo la testimonianza dell'autista a causa di una manovra errata dell'altro mezzo, inoltre si spense il motore).

Una quindicina di persone, appartenenti ad un gruppo più numeroso di manifestanti violenti, dotati in gran parte di elmetti e bastoni, come si vede dalle foto, (circa settanta, come comprovato dalle fotografie agli atti) che aveva inseguito i carabinieri in ritirata fino nella piazza, misero in atto un'azione tipo Black Bloc, circondarono ed attaccarono violentemente i tre carabinieri, il mezzo fu danneggiato a tergo e dal lato destro, con pietre, spranghe, bastoni, una palanca di legno e un estintore rosso marca Sima di circa 5 kg.
Furono rotti i vetri superiori sul tetto, sul lato destro e sulla parte posteriore.
Dall'Ordinanza del P.M. Silvio Franz: "Si leggano le dichiarazioni rese dagli abitanti della zona. Si riporta quanto detto da Luciano Salvati: "vi era un gran frastuono, sulla camionetta della forza dell'ordine arrivava di tutto, presumibilmente pietre, e tutto intorno vi era gente che urlava inveendo contro gli occupanti, sembrava un assalto organizzato nei confronti del mezzo che purtroppo era rimasto isolato dagli altri.""

I carabinieri Placanica e Raffone furono feriti dagli assalitori. Placanica al viso da pietre, ci fu pure un tentativo di aprire le porte posteriori del mezzo e di tirare fuori i carabinieri. Il carabiniere Placanica, pure lui ferito e con il viso insanguinato, cercò di proteggere il collega Raffone, colpito al volto e al costato. Il carabiniere Placanica urlava "finitela, andatevene!".

L'aggressore con la palanca, M.M., dichiarerà al magistrato: “il rumore era assordante ed io trovata a terra una trave, cominciai a colpire il tetto del mezzo; l’ultimo colpo lo diressi all’interno del mezzo il cui finestrino posteriore destro era già frantumato. Vidi per un attimo il volto del carabiniere che era posizionato nella mia direzione ne colpii la sagoma , poi lo vidi accucciarsi. Mentre avveniva tutto ciò la gente intorno urlava frasi di disprezzo e minaccia nei confronti dei CC quali “bastardi, vi ammazziamo”

L'assalto al mezzo fu documentato da diversi filmati e numerose foto (il tutto successivamente acquisito dalla magistratura).

Un manifestante, James Matthews, la sera stessa, intervenendo ad una riunione la cui registrazione è inclusa tra gli atti giudiziari, sostenne di aver cercato di dissuadere i manifestanti dalla violenta aggressione: "io corsi davanti alle persone che lanciavano oggetti contro il furgone e dissi loro di smettere. Se la polizia (quelli sul furgone) volevano ritirarsi doveva esserle permesso. Era il motivo per il quale eravamo lì non per uccidere dei poliziotti."

La morte di Carlo Giuliani

Uno degli aggressori raccoglie un estintore e lo scaglia contro il mezzo. L'estintore colpirà la ruota di scorta, per poi ricadere a terra.
Un altro degli aggressori, con il volto coperto da un passamontagna, più tardi identificato nella persona di Carlo Giuliani, solleva da terra l'estintore e si dirige, con l'estintore sollevato, verso la parte posteriore del Defender, dove si trovava il carabiniere Placanica. In questa fase viene colpito.

Il proiettile che colpisce Carlo Giuliani viene sparato da Mario Placanica, che, come testimoniano alcune fotografie, aveva nel frattempo già estratto ed armato la propria pistola e intimato ai manifestanti di allontanarsi[23]. Placanica ha dichiarato di aver sparato due colpi in aria, uno dei quali ha colpito Giuliani. L'altro proiettile colpì il muro di una chiesa, lasciando un segno riconosciuto solo dopo alcuni mesi.

Giuliani cadde a terra in fin di vita (secondo l'autopsia morirà alcuni minuti dopo) e venne investito due volte dal mezzo che era riuscito a ripartire e si allontanava dalla piazza mettendo in salvo i carabinieri: la prima volta in retromarcia, la seconda a marcia avanti. Quando, dopo circa mezz'ora, il personale medico di un'ambulanza arrivò in soccorso, Giuliani era già morto. L'evento, documentato da diversi filmati e da numerose fotografie, venne trasmesso da molte stazioni televisive in tutto il mondo, rendendo evidente il drammatico livello di violenza raggiunto dagli scontri di Genova.

Secondo il consulente tecnico del P.M., la distanza tra il Giuliani e l'arma da fuoco veniva valutata a m. 1,75 circa, e Giuliani "viene colpito nel mentre ha sollevato l'estintore sopra la testa ed è nell'atto di lanciarlo (più precisamente nel momento in cui lo lancia)"; secondo lo stesso C.T. le macchie rosse che appaiono in un filmato ripreso dalle forze dell'ordine sono da attribuirsi ad effetti cromatici. (dall'Ordinanza del P.M.).

Secondo i consulenti tecnici della persona offesa, Carlo Giuliani fu colpito mentre si trovava a 337 centimetri dalla bocca dell'arma da fuoco e teneva l'estintore dietro la nuca: ciò sarebbe dimostrato da un fiotto di sangue, visibile mentre egli è in tale posizione, mostrato in un filmato ripreso dalle forze dell'ordine[24].

Tali conclusioni, in contrasto con quelle cui erano giunti i consulenti del P.M., non furono accolte dal G.I.P. che archiviò il procedimento (v. la sezione relativa ai procedimenti). Ciò ha precluso la possibilità di eseguire una perizia in sede dibattimentale da parte di periti nominati dal giudice.

Diversi mesi prima di ricevere l'incarico di consulente del P.M. Silvio Franz (febbraio 2002), uno dei consulenti nominati del P.M., il Prof. Paolo Romaninini, esperto balistico di chiara fama, aveva pubblicato nel numero di settembre 2001 della rivista specialistica che dirigeva, Tacarmi, un editoriale nel quale prendeva decisamente partito a favore della tesi della legittima difesa quale causa di non punibilità per Placanica[25].

Una foto scattata da Dylan Martinez, dell'agenzia Reuters, con una prospettiva molto schiacciata causata dall'impiego di un teleobiettivo, fa apparire Giuliani immediatamente di fronte al finestrino posteriore sfondato, nel quali si intravvede Placanica. [5]. La stessa fotografia mostra altri particolari: l'aggressione dal lato destro e posteriore, le dimensioni e la morfologia reali della palanchina in legno utilizzata contro il defender, e la pistola impugnata all'interno del mezzo dei Carabinieri, puntata tenendo il calcio in orizzontale e ad altezza d'uomo[26].

Altre foto e riprese laterali, tra le quali quelle trasmesse da Rai News 24[27], fanno apparire Giuliani a diversi metri[28] dal mezzo nel momento in cui fu colpito [6] [7].

La ripartenza del Defender

Gli spari, uditi da numerosi testimoni (inclusi fotoreporter e giornalisti) furono registrati da una telecamera posta in via Ilice, spinsero gli aggressori ad allontanarsi[29]

Subito dopo il defender ripartì, passando due volte sul corpo di Carlo Giuliani. Interrogato dal magistrato, l'autista Cavataio dichiarò di non aver udito alcun colpo d'arma da fuoco e di non essersi accorto di essere passato sul corpo di Giuliani (credendo che i sobbalzi del mezzo fossero dovuti ad un «sacchetto delle immondizie»). I consulenti tecnici incaricati dal PM Silvio Franz, affermano che il doppio arrotamento subito dal corpo da parte di un mezzo del peso a vuoto di circa 18 quintali e con almeno tre persone a bordo, non avrebbe provocato alla vittima lesioni interne apprezzabili. Conclusione contestata dalla parte offesa. L'archiviazione del procedimento rese impossibile il confronto tra consulenti e l'ulteriore approfondimento da parte di periti terzi.

Solamente quattro degli aggressori furono identificati, Carlo Giuliani perché cadde nell'assalto, M.M. e E.P., genovesi, facilmente riconosciuti dalle numerose foto si consegneranno spontaneamente, un altro, L.F., di Pavia, estraneo al gruppo dei genovesi, verrà identificato durante le indagini dalla Digos di Pavia. Nel Corriere mercantile del 6 settembre M.M. farà un appello a farsi avanti e a testimoniare ma nessuno si presenterà.

L'impressione di un isolamento ed assedio del mezzo, ricavata dalla maggior parte del materiale foto e video mostrato dai media, è tuttavia argomento di discussione, dato che in numerose foto, prese da angolazioni diverse, compaiono alcuni carabinieri che, a poche metri di distanza (in via Caffa direzione piazza Tommaseo), osservano lo svolgersi degli eventi facendo segno ai colleghi poco distanti di raggiungerli [30], senza tuttavia avere il tempo di intervenire (l'azione è concitata, ma dura in realtà solo pochi secondi).

Un manifestante, James Matthews, presente ai fatti- la sera stessa, intervenendo ad una riunione la cui registrazione è inclusa tra gli atti giudiziari, sostenne di aver cercato di dissuadere i manifestanti dall'aggressione: "io corsi davanti alle persone che lanciavano oggetti contro il furgone e dissi loro di smettere. Se la polizia (quelli sul furgone) volevano ritirarsi doveva esserle permesso. Era il motivo per il quale eravamo lì non per uccidere dei poliziotti."

Al processo James Matthews riferì di aver tentato invano di avvisare gli occupanti del Defender della presenza al suolo di Giuliani[31]. Matthews - tra i primi a tentare di soccorrere Giuliani[32]

Alcuni carabinieri poco distanti dal mezzo assistettero alla scena senza intervenire[33].

Anche il comandante del reparto, Giovanni Truglio, distante poco più di una decina di metri dal defender (ritratto in alcune immagini mentre si trova sulle strisce pedonali che attraversano via Caffa all'angolo tra piazza Alimonda e via Ilice), dichiarò di non aver udito i colpi di pistola.

I danni al Defender

Furono sfondati tre vetri su nove del mezzo: il vetro posteriore, un oblò sul tetto, un semivetro sulla parte destra, presumibilmente già sfondato in precedenza e dietro il quale era stato posto, incastrato tra telaio del finestrino e sedili interni, uno scudo protettivo[34], contro il quale cozzava la palanca che nelle foto si vede impugnata da un aggressore, M.M., il quale confessò poi al giudice, l'uso della stessa. La presenza dello scudo fu del tutto omessa da gran parte della stampa, che per anni ha alimentato la leggenda di una trave di legno, definizione del tutto impropria a descrivere la palanca impiegata nell'occasione. Nessun vetro fu infranto nella parte anteriore e sinistra, in quanto il mezzo fu attaccato solo da tergo e dal lato destro.

Le ferite dei carabinieri Placanica e Raffone

Mario Placanica fu portato al pronto soccorso, per essere poi prelevato per testimoniare sui fatti e riportato al pronto soccorso, dove gli furono riscontrate lievi escoriazioni con una prognosi di 7 giorni. Anche Dario Raffone fu portato al pronto soccorso (prognosi di 8 giorni). Iniziate le indagini il P.M., data la gravità del caso, disporrà una ulteriore successiva perizia d'ufficio, che darà il seguente esito, "Placanica Mario il 20/7/2001 a seguito di traumatismi contusivi vari riportò un trauma cranico con ferita lacero-contusa al vertice, una contusione semplice all'avambraccio destro, ed una forte contusione alla gamba destra con edema diffuso a tutta la gamba. La ferita lacero-contusa al vertice è del tutto compatibile con una pietrata. Le altre lesioni non hanno avuto caratteristiche tali da consentire un'identificazione precisa del mezzo contundente" ; "Raffone Dario riportò una contusione escoriata alla metà destra del viso, una contusione escoriata in sede scapolare destra, nonché contusioni varie agli arti superiori. La lesione al viso era compatibile con una pietra, mentre quella in sede scapolare destra appare compatibile con un colpo di un corpo dotato di uno spigolo ad angolo retto. Le altre contusioni non presentavano caratteristiche tali da consentire ipotesi per precisare il mezzo contundente. (Estratti dalla richiesta di archiviazione del procedimento a loro carico, stilata dal sostituto procuratore di Genova, Silvio Franz)

Chi è morto?

Le prime notizie di stampa, non smentite da fonti ufficiali, riferirono della morte di un ragazzo spagnolo, colpito da un sasso.

Probabilmente era possibile risalire subito all'identità del ragazzo (sul cui corpo esanime qualcuno, dopo la fuga dei manifestanti, procurò una larga ferita verosimilmente colpendolo con forza con una pietra), poiché le forze dell'ordine rinvennero il telefono cellulare che aveva in tasca.

Verso le 21.00, preoccupata dalle notizie della morte di un giovane manifestante, la sorella di Carlo Giuliani chiamò il fratello sul cellulare, in possesso degli inquirenti. Una persona la cui identità resta ignota, rispose alla chiamata, e dopo averle chiesto chi fosse, dichiarò di essere un amico del Giuliani e la rassicurò sulle condizioni di salute del fratello[35]. Solo più tardi le autorità avvertirono la famiglia della morte di Carlo Giuliani.

La tensione in Piazza Alimonda era altissima. Il fotoreporter Eligio Paoni, che fotografava il corpo di Giuliani prima dell'arrivo delle forze dell'ordine, fu malmenato (ferite alla testa e frattura di una mano), gli fu distrutta una macchina fotografica e fu costretto a consegnare una pellicola che aveva cercato di nascondere[36]. Anche il prete della chiesa di Nostra Signora del Rimedio che tentò di benedire il corpo di Giuliani non venne fatto avvicinare.

Circa mezz'ora dopo la morte di Giuliani, alcuni giornalisti di Libero filmarono l'allora vicequestore Adriano Lauro mentre inseguiva per pochi metri un esponente delle Tute Bianche, urlandogli di aver ucciso Giuliani con un sasso.

Le fotografie scattate da un abitante della zona e diffuse nel 2004 mostrano un acceso diverbio tra carabiniere e un poliziotto. Ne parla anche Bruno Abile, un fotografo freelance francese presente in piazza Alimonda, in un'intervista all'ANSA del 21 luglio 2001.
Qualcuno avrebbe messo un sasso a fianco della testa di Giuliani mentre il corpo era circondato dalle forze dell'ordine e procurato una profonda ferita sulla fronte in modo da far pensare ad una sassata.[37]. A sostegno di questa tesi alcune fotografie mostrano il sasso prima ad alcuni metri a sinistra dal corpo e poi accanto alla testa, sul lato destro, dove prima c'era solo un accendino bianco).

Il ruolo delle forze dell'ordine nella morte di Giuliani diventa evidente verso le 21 con la diffusione delle immagini scattate da un fotografo della Reuters. I parenti di Carlo Giuliani furono avvisati verso le 22 e le emittenti televisive comunicarono il nome della vittima.

Le cariche di Piazza Manin/Via Assarotti

La manifestazione iniziata la mattina della Rete Lilliput, presente in piazza Piazza Manin (poco meno di un chilometro a nord della zona rossa), sta proseguendo in maniera tranquilla, sono presenti tra gli altri i gruppi di Legambiente e della Comunità di San Benedetto al Porto di Don Andrea Gallo, della Marcia Mondiale delle Donne, e dei Beati i Costruttori di Pace: Oltre ai gruppi presenti vi sono i proprietari di diversi negozi ed importatori aderenti al Commercio equo e solidale che hanno portato campioni dei loro prodotti e li tengono esposti in piccole bancarelle. Parte dei manifestanti, che si sono colorati di bianco le mani come simbolo di pace, è scesa lungo via Assarotti per arrivare davanti agli accessi della zona rossa in piazza Corvetto, dove verrà effettuato un sit-in durante il quale non si verificheranno particolari problemi: alcuni manifestanti e rappresentati dei gruppi si avvicineranno per parlare con il personale delle forze dell'ordine presente dietro alle grate e su queste verranno legate delle sciarpe e delle bandiere.

Intorno alle 14 si iniziano a diffonde notizie sugli scontri che si stavano svolgendo negli altri quartieri più vicini al mare. Alcuni gruppi stranieri si uniscono e insieme a parte dei manifestanti e deviano verso la vicina piazza Marsala, dove ci saranno alcuni sporadici tentativi di scavalcare le grate, respinti con l'uso di idranti e alcuni lanci di lacrimogeni, che porteranno i manifestanti a tornare verso via Assarotti.

Poco prima delle 15 il corteo inizia a risalire verso piazza Manin e iniziano a circolari voci sul possibile arrivo di alcuni possibili Black bloc provenienti dal quartiere di Marassi. Alcune decine di minuti dopo giunge effettivamente in piazza Manin un gruppo di persone vestite di nero, alcune con il viso parzialmente o totalmente coperto, tutte molto giovani secondo le testimonianze, inseguite a distanza dalle forze dell'ordine, che cerca di inserirsi all'interno del gruppo dei manifestanti e scendere lungo via Assarotti, ma l'azione non ha successo grazie all'intervento dei manifestanti presenti nella piazza che creano un cordone di sicurezza per non far mischiare i due gruppi. Dalle ricostruzioni effettuate dopo la manifestazione si scoprirà che questi erano parte dei possibili Black bloc che avevano assalito il carcere per poi risalire la scalinata Leonardo Montaldo e poi proseguire, per gran parte del percorso indisturbati, fino a piazza Manin.

Dopo alcuni minuti di tensione, le forze dell'ordine iniziano un lancio di lacrimogeni verso i due gruppi, e mentre i possibili Black bloc fuggono, viene eseguita una violenta carica, che si prolungherà anche per parte di via Assarotti e che finirà per colpire i manifestanti pacifici, tra cui quelli che stavano cercando di bloccare l'accesso alla via ai possibili Black bloc, provocando diverse decine di feriti. Tra i feriti vi sarà anche Elettra Deiana, parlamentare di Rifondazione Comunista e una pediatra triestina, volontaria di Medici con l'Africa Cuamm e presente a Genova con la famiglia, che, mentre era intenta a soccorrere un manifestante ferito nella carica, riceverà una forte manganellata al capo che le procurerà una ferita da diversi centimetri di lunghezza e che citerà il Ministero dell'Interno per danni, chiedendo la cifra record 100.000 euro (annunciando che, qualsiasi sarà la cifra ottenuta con il risarcimento, sarà interamente devoluta in beneficenza). Il gruppo dei possibili Black bloc nel frattempo proseguirà per via Armellini e si disperderà poi lungo la circonvallazione a monte bruciando alcune auto lungo il percorso.[38] [39] [40][41] [42] [43]

L'ordine di sparare

Fecero scalpore le dichiarazioni che alcuni mesi dopo fece Claudio Scajola, ministro dell'Interno. Ammise di aver ordinato alle forze di polizia, nella serata del 20 luglio (dopo gli scontri della giornata e la morte di Carlo Giuliani), di sparare sui manifestanti nel caso avessero sfondato la zona rossa, motivandolo con la situazione di forte tensione e con il rischio che l'eventuale ingresso dei manifestanti nella zona rossa potesse favorire attentati terroristici contro i partecipanti al summit. Fonti del Viminale affermarono successivamente che la direttiva non aveva comunque determinato il mancato rispetto da parte di polizia e carabinieri delle norme che regolano l'uso delle armi durante i servizi di ordine pubblico.

La dichiarazione di Scajola provocò aspre critiche da parte di parlamentari di opposizione e rappresentanti del movimento no-global che ne chiesero le dimissioni. Furono espresse critiche sulla tardiva ammissione di Scajola e dubbi sulla possibilità che il ministro avesse impartito l'ordine venerdì, dopo e non prima della morte di Giuliani. Pochi giorni dopo i funzionari di Polizia e Carabinieri presenti a Genova affermarono di non aver ricevuto nessun ordine relativo alla necessità di sparare in caso di invasione della zona rossa e che in ogni caso si sarebbero rifiutati di eseguirlo in quanto "manifestamente criminoso" ed inutile, visto che all'interno della zona rossa era stata creata una seconda cintura di sicurezza [44].

Ascoltato dalla commissione Affari Costituzionali del Senato, Scajola ritrattò le proprie dichiarazioni. Disse di non aver dato l'ordine di sparare, ma di "alzare il livello delle misure di sicurezza all'interno della zona rossa", per timore di attentati, e di non averlo riferito al Parlamento nel timore di danneggiare le fonti che avevano informato l'intelligence italiana del possibile attentato.

Sabato 21 luglio

Gli avvenimenti di venerdì 20 luglio portarono a diverse richieste di annullamento della manifestazione dell'indomani, respinte dai vertici del Genova Social Forum.

I disordini del 21 luglio

La manifestazione del 21 luglio doveva svolgersi lungo corso Italia, per poi concludersi nella zona della Foce, dove si trovavano le forze dell'ordine, parte delle quali alloggiate nella Fiera di Genova.

Come era successo il giorno precedente, anche sabato 21 luglio tra i manifestanti pacifici si inseriscono gruppetti di manifestanti violenti, che provocheranno scontri, incendi, distruzioni di auto, banche, negozi.

I primi disordini iniziarono la mattina in piazza Rossetti, quando un gruppo di qualche decina di manifestanti, molti dei quali vestiti di nero secondo i residenti, inizia a distruggere auto e vetrine e assale un chiosco. Sempre secondo le testimonianze dei residenti anche in questa occasione furono fatte numerose telefonate al 113, senza che però intervenissero né le vicine forze dell'ordine, che erano poste a presidiare la zona della Fiera, né eventuali volanti della polizia. Alcuni gruppi di manifestanti, tra cui quello della "Confédération paysanne" (un sindacato dei lavoratori agricoli francese [8]), una volta giunti in zona, cercheranno di fermarli, ma senza successo. Il vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, aggregato presso la questura di Genova durante i giorni della manifestazione, confermerà durante il suo interrogatorio di aver assistito ad atti di vandalismo e devastazione, oltre a lancio di oggetti contro le forze dell'ordine, da parte di un gruppo di una cinquantina di persone, dalla mattina alle 10:30 per circa 6 ore, ma che solo verso le 15:30/16:00, mentre il corteo stava già transitando, verrà ordinata una carica per disperdere i dimostranti violenti[45].

Alcune ore dopo, quando arriva il corteo che svolta e si dirige verso il quartiere di Marassi, dove doveva terminare la manifestazione, un gruppo di alcune centinaia di manifestanti (400 persone secondo la valutazione del Ministero degli Interni) si stacca da vari punti di questo e inizia a fronteggiare le forze di polizia schierate davanti a piazzale Kennedy, accatastando bidoni, transenne e altro materiale per formare delle barricate. Per quasi un'ora questo gruppo di manifestanti si limita al blocco della strada, a slogan urlati contro le forze dell'ordine e a qualche lancio di oggetti in risposta del quale le forze dell'ordine effettuano alcuni lanci di lacrimogeni.

Il corteo, per tutto questo tempo, continua a fluire e a svoltare verso l'interno seppur con qualche rallentamento. A questo punto si aggiungono anche alcuni gruppi di manifestanti vestiti di nero, che inizieranno un fitto lascio di oggetti verso la polizia, oltre a rovesciare un'auto e a rompere alcune delle vetrine rimaste ancora integre. In questi frangenti si registrano dei tentativi da parte di alcuni dei violenti di reinserirsi all'interno del corteo ufficiale, respinti però dai servizi d'ordine dei vari gruppi che stavano sfilando, che nel frattempo deviano il percorso del corteo verso via Casaregis, in quanto il percorso previsto era troppo vicino alle devastazioni dei manifestanti violenti e al fumo dei lacrimogeni. Dopo alcune decine di minuti iniziano le cariche della polizia e il fitto lancio di lacrimogeni, sia verso corso Italia, da cui stava ancora arrivando la coda del corteo, in un punto in cui c'erano poche vie di fuga, sia verso via Casaregis, in cui il corteo stava svoltando, ma i gruppi di violenti fanno velocemente perdere le loro tracce nel caos generale e le cariche finiscono per colpire, come accaduto il giorno prima, i partecipanti al corteo pacifico, ormai spezzato in due. Il secondo spezzone del corteo pacifico è costretto di fatto a sciogliersi, mentre le persone che si trovavano nella parte finale del primo spezzone si disperdono e vengono inseguite dalle forze dell'ordine nelle vie del quartiere; molti manifestanti riportano ferite da trauma e da inalazione di lacrimogeni. Diversi abitanti della zona offrono riparo ai manifestanti negli androni del palazzi, fornendogli anche delle bottiglie d'acqua con cui cercare di placare l'effetto del gas lacrimogeno.

Alcuni manifestanti sposteranno diverse auto, dandogli poi fuoco, per formare delle barricate in mezzo al lungomare di corso Italia dove stavano avanzando lentamente le forze dell'ordine che effettueranno altre brevi cariche contro i manifestanti, a volte provocate dal lancio di oggetti da parte di manifestanti violenti che si inseriscono tra la polizia e il corteo che si stava ritirando. Le immagini e i filmati mostrati dalle televisioni, relativi ad appartenenti al corteo pacifico, tra cui anziani e feriti, intenti a scappare, si riferiscono alle cariche di quest'ultima ora di scontri.

Gli scontri durano alcune ore e provocano centinaia di feriti tra i manifestanti e alcune decine di arresti. Verso le 16, al termine di una carica in corso Italia, verranno ritrovate dal vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione in una siepe di una strada laterale due Molotov, che consegnò ad un suo superiore (il generale Valerio Donnini, che non essendo un ufficiale di polizia giudiziaria non era tenuto a verbalizzare il ritrovamento) [45] e che vennero poi portate alla sera dalle forze dell'ordine nella scuola Diaz ed esibite successivamente come prova della presenza di violenti all'interno dell'edificio. Anche durante questi scontri, come nel giorno precedente, Indymedia e altri gruppi hanno raccolto filmati e foto amatoriali che mostrano persone vestite in borghese o di scuro parlare con esponenti delle forze dell'ordine per poi tornare nella zona degli scontri.

Gli organizzatori hanno stimato che fossero presenti al corteo circa 250.000/300.000 persone, nonostante molti gruppi avessero rinunciato alla loro presenza dopo gli scontri del giorno precedente.

L'assalto alla scuola Diaz

La scuola Diaz e l'adiacente scuola Pascoli, nel quartiere di Albaro, erano state concesse dal comune di Genova al Genoa Social Forum, in un primo tempo come sede del loro media center, poi anche come dormitori (in seguito alla pioggia insistente che aveva costretto ad evacuare alcuni campeggi).

La sera di sabato 21 luglio la segnalazione di un attacco ad una pattuglia di poliziotti porta diversi gruppi di poliziotti e carabinieri a dare l'assalto alla scuola Diaz (e, ufficialmente per errore, alla vicina scuola Pascoli), dove stanno dormendo 93 persone tra ragazzi intenzionati a lasciare Genova nei giorni successivi e giornalisti (la maggior parte dei quali accreditati), in gran parte stranieri. Il verbale della polizia parla di una perquisizione: si sospettava che la scuola fosse una delle sedi di possibili simpatizzanti del Black block. Nonostante ciò resta tuttora senza motivazione ufficiale l'uso della tenuta antisommossa per effettuare la perquisizione.

Tutti gli occupanti saranno arrestati e la maggior parte picchiata, sebbene non avessero opposto alcuna resistenza. I giornalisti accorsi alla scuola Diaz vedono decine di persone portate fuori in barella. La portavoce della Questura dichiara, in una conferenza stampa, che 63 di essi avevano pregresse ferite e contusioni e mostra il materiale sequestrato, senza rispondere agli interrogativi della stampa. Uno degli arrestati resterà in coma per due giorni. Le immagini delle riprese mostrano muri e pavimenti sporchi di sangue. A nessuno degli arrestati viene comunicato di essere in arresto, né i reati dei quali sarebbe accusato. Molti di loro scopriranno solo in ospedale (a volte attraverso i giornali) di essere stati arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio (gli arrestati però non si conoscevano tra di loro), resistenza aggravata e porto d'armi. Dei 63 feriti tre avranno prognosi riservata: la studentessa tedesca ventottenne di archeologia Melanie Jonasch (che presentava trauma cranico cerebrale con frattura della rocca petrosa sinistra, ematomi cranici vari, policontusioni al dorso, spalla e arto superiore destro, frattura della mastoide sinistra, ematomi alla schiena e alle natiche), il tedesco Karl Wolfgang Baro (che presentava trauma cranico con emorragia venosa) e il giornalista inglese Mark Covell (che presentava perforazione del polmone, trauma emitorace, spalla e omero e trauma cranico, oltre alla perdita di 10 denti, e il cui pestaggio, avvenuto a metà strada tra le due scuole, venne ripreso in un video)[46][47][48][49][50] [51].

La versione ufficiale della polizia di stato sostiene che l'assalto sarebbe stato motivato da una sassaiola proveniente dalla scuola verso una pattuglia delle forze dell'ordine che transitava in strada. Il vicequestore Massimiliano Di Bernardini, in servizio alla Mobile di Roma e in quei giorni aggregato a Genova, in un primo tempo, riferirà di aver transitato "a passo d'uomo" (a causa di alcune vetture presenti nella strada molto stretta) davanti alla scuola con quattro vetture, che il cortile della scuola e i marciapiedi della strada "erano occupati da un nutrito gruppo, circa 200 persone, molti dei quali indossanti capi di abbigliamento di color nero, simile a quello tipicamente usato dai gruppi definiti Black bloc" e che questi avevano fatto bersagli i mezzi di "un folto lancio di oggetti e pietre contro il contingente, cercando di assaltare le autovetture", ma che queste riuscirono poi ad allontanarsi "azionando anche i segnali di emergenza" nonostante la folla li inseguisse e continuasse a farli bersaglio di oggetti contundenti.[52]. Le forze dell'ordine tuttavia non saranno in grado di fornire indicazioni precise sui mezzi coinvolti, né su chi li guidava e le testimonianze sulla presenza di centinaia di simpatizzanti dei black bloc non verrà confermata da altre fonti; successivamente Di Bernardini ammetterà di non aver partecipato ai fatti, ma solo di aver riportato quanto riferitogli da altri. Tempo dopo tre agenti sosterranno che un grosso sasso aveva sfondato un vetro blindato del loro furgone (un singolo mezzo, rispetto ai quattro dichiarati in un primo tempo) e che il mezzo venne poi portato in un officina della polizia per le riparazioni. L'episodio però non risulta dai verbali dei superiori, stilati dopo l'irruzione, che invece riportano di una fitta sassaiola, né sarà possibile neppure questa volta identificare il mezzo che sarebbe stato coinvolto. Testimonianze successive di altri agenti, rese durante le indagini, sosterranno al contrario il lancio di un bullone (evento a cui i superiori non avrebbero assistito) e di una bottiglia di birra, lanciata in direzione di quattro auto della polizia, ad una delle quali si era aggrappato un manifestante. Alcuni giornalisti e operatori presenti all'esterno della Pascoli racconteranno invece di aver visto solo una volante della polizia in coda insieme ad altre auto dietro un autobus (che si era fermato in mezzo alla strada per far salire i manifestanti diretti alla stazione ferroviaria) che, arrivata all'altezza delle due scuole, accelerava di colpo "sgommando", al seguito della quale veniva lanciata una bottiglia (che si infrangeva a terra a diversi metri di distanza dall'auto ormai lontana); versione confermata in parte da altri testimoni all'interno dell'edificio (che affermeranno di aver sentito il rumore di forte accelerata seguito pochi istanti dopo da alcune urla e da quello di un vetro infranto). Queste versioni contrastanti e date in tempi diversi, hanno posto fortemente in dubbio l'effettivo verificarsi del fatto che motivò l'irruzione.

L'asserito lancio di sassi verso le forze dell'ordine - che aveva motivato l'irruzione della scuola al fine di assicurare alla giustizia i presunti manifestanti violenti - è stato tuttavia escluso nel corso del processo dall'analisi dei filmati disponibili da parte del RIS.[53].

L'arresto in massa senza mandato di cattura venne giustificato attraverso l'unico reato della giurisdizione italiana (a parte i casi di flagranza) che lo prevede, ovvero il reato di detenzione di armi in ambiente chiuso: dopo la perquisizione, le forze dell'ordine mostrano ai giornalisti gli oggetti rinvenuti, tra cui sbarre metalliche, che si riveleranno provenire dal cantiere per la ristrutturazione della scuola, e 2 bombe molotov, che si scoprirà per puro caso essere state sequestrate il giorno stesso in tutt'altro luogo e portate all'interno dell'edificio dalle stesse forze dell'ordine per creare false prove (un video dell'emittente locale Primocanale, visionato ad un anno dei fatti, mostra infatti il sacchetto con le molotov in mano ai funzionari di polizia al di fuori della scuola e la scoperta di questo video porterà alla confessione di un agente, che ammetterà di aver ricevuto l'ordine di portarle davanti alla scuola) [54][55].

Inoltre col tempo cadranno tutte le accuse ai manifestanti per quanto riguarda l'accoltellamento di un agente, fatto che verrà smentito dalle perizie del RIS secondo cui i tagli sarebbero stati procurati appositamente (l'agente peraltro cambierà versione sull'avvenimento diverse volte).

Nella stessa operazione viene perquisita (per errore, stando alle testimonianze dei funzionari durante i processi) anche l'adiacente scuola Pascoli, che ospitava l'infermeria, il media center ed il servizio legale del Genoa Social Forum, che lamenterà la sparizione di alcuni dischi fissi dei computer e di supporti di memoria contenenti materiale sui cortei e sugli scontri, oltre alle testimonianze di molti manifestanti circa i fatti dei giorni precedenti (sia su supporto informatico che cartaceo). Alcuni dei computer che erano stati dati in comodato al Genoa Social Forum dal Comune e dalla Provincia e alcuni computer portatili dei giornalisti e dei legali presenti verranno distrutti durante la perquisizione. Poche ore prima dell'assalto, in un comunicato stampa diffuso dal Genoa Legal Forum, si annunciava che il giorno successivo sarebbe stata sporta denuncia contro le forze dell'ordine per quanto avvenuto in quei giorni, avvalendosi di questo materiale. La Federazione nazionale della stampa si costituirà parte civile al processo contro questa irruzione.

Tutti gli arrestati della scuola Diaz e della scuola Pascoli sono stati in seguito rilasciati, alcuni la sera stessa, altri nei giorni successivi.

La devastazione e i responsabili

Finite le manifestazioni, domenica 22 luglio, Genova conta gli ingenti danni. Gli scontri avvenuti durante le manifestazioni sono stati molto violenti e hanno prodotto molti danni, e a distanza di anni la maggioranza dei responsabili non sono ancora stati identificati (e difficilmente lo saranno mai) e la maggior parte dei fermati dalle forze dell'ordine nei giorni degli scontri sono poi risultati estranei ai fatti, o non sono stati individuate responsabilità specifiche.

In particolare agli scontri partecipò ll gruppo delle "tute bianche".

Alcuni sospettarono la partecipazione di simpatizzanti del movimento internazionale Black block, il cui arrivo dell'ala più integralista in Italia era stato preannunciato una settimana prima delle manifestazioni dalle autorità tedesche a quelle italiane, ma, nonostante i simpatizzanti del movimento solitamente siano fieri e si facciano vanto di altre azioni di guerriglia compiute in passato, questa volta negarono la loro responsabilità. Prove della loro partecipazione non sono state trovate, perlomeno per quello che riguarda una partecipazione organizzata. Da testimonianze di manifestanti e giornalisti che seguivano il corteo risulterebbe che parte dei componenti del gruppo di manifestanti violenti che vestivano di nero e che si mossero liberamente per la città durante le manifestazioni, non sembrava parlare italiano, ma una notevole parte dei manifestanti erano stranieri.

Pochi giorni dopo il G8 il quotidiano Il Secolo XIX pubblicò parte di un documento della questura di Genova compilato ai primi di luglio 2001 dal titolo "Informazioni sul fronte della protesta anti-G8", che comprendeva un analisi dei vari gruppi che dovevano partecipare alle manifestazioni, tra questi venivano individuati come intenzionati a provocare incidenti e disordini sia gruppi vicini alle diverse realtà dei centri sociali italiani (definiti Blocco Blu e Blocco Giallo, che potevano organizzare per esempio "episodi di generico vandalismo", "blocchi stradali e ferroviari" e attacchi mirati contro le Forze dell'ordine) e ai movimenti anarchici (definiti Blocco Nero, che potevano organizzare blocchi nelle strade cittadine e organizzare azioni con piccoli gruppi di "10 o 40 elementi ciascuno"), sia gruppi legati alle organizzazioni di destra, con "Forza Nuova, Fronte Nazionale e Comunità politica di avanguardia effettuerebbero a Genova una manifestazione antiglobalizzazione" (la cui presenza di esponenti era effettivamente stata segnalata alla Questura dal Genoa Social Forum il 18 luglio) e in specifico alcuni membri di Forza Nuova che "costituirebbero un nucleo di 25-30 militanti fidati da infiltrare tra i gruppi delle tute bianche allo scopo di confondersi tra i manifestanti anti-G8. Tale gruppo in possesso di armi da taglio avrebbero come obiettivo principale colpire, in caso in cui si dovessero verificare incidenti, i rappresentanti delle forze dell'ordine, screditando contestualmente l'area antagonista di sinistra anti-G8." [5]. Su questi ultimi gruppi di destra il dipartimento di pubblica sicurezza del Viminale dichiarerà, in risposta a articoli sulla stampa, che durante il vertice le forze di polizia di Genova non avevano rilevato "la presenza di provocatori o estremisti di destra né nel corso delle manifestazioni, né tra gli arrestati coinvolti nei disordini".

Tuttavia non risulta individuato nessuno appartenente a questi gruppi, nè di sinistra, nè anarchici, nè di destra.

Susciterà polemiche anche la presenza dell'allora vice-presidente del Consiglio Gianfranco Fini nella sala operativa della Questura genovese, presenza che, da diversi giornalisti e politici vicini al movimento no-global, viene messa in relazione ai molti abusi poi compiuti dalle forze dell'ordine.

La caserma di Bolzaneto

Le persone fermate e arrestate durante i giorni della manifestazione furono in gran parte condotte nella caserma di Genova Bolzaneto, che era stata approntata come centro per l'identificazione dei fermati. Saranno poi trasferite in diverse carceri italiane. Secondo il Rapporto dell'ispettore Montanaro, frutto di un indagine effettuata pochi giorni dopo il vertice, nei giorni della manifestazione transitarono per la caserma 240 persone (di cui 184 in stato di arresto, 5 in stato di fermo e 14 denunciate in stato di libertà), ma secondo altre testimonianze di agenti gli arresti e le semplici identificazioni furono molte di più, quasi 500 [56].

In numerosissimi casi, i fermati accusano il personale delle forze dell'ordine di violenze fisiche e psicologiche, e di mancato rispetto dei diritti legali degli imputati (impossibilità di essere assistiti da un legale o di informare qualcuno del proprio stato di detenzione): gli arrestati raccontano di essere stati costretti a stare ore in piedi, con le mani alzate, senza avere la possibilità di andare in bagno, cambiare posizione o ricevere cure mediche. Inoltre riferiscono di un clima di euforia tra le forze dell'ordine per la possibilità di infierire sui manifestanti, e riportano anche invocazioni a dittatori e ad ideologie dittatoriali di matrice fascista, nazista e razzista e minacce a sfondo sessuale nei confronti di alcune manifestanti.

L'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, che aveva visitato la caserma nelle stesse ore, dichiarerà di non essersi accorto di nulla e lo stesso confermò il magistrato antimafia Alfonso Sabella, che durante il vertice ricopriva il ruolo di ispettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ed era responsabile delle carceri provvisorie di Bolzaneto e San Giuliano (ma Sabella fu comunque tra i primi, già la settimana dopo il G8, ad ammettere la possibilità che ci fossero state violenze da parte delle forze dell'ordine contro i manifestanti arrestati, ma appunto escludeva che queste fossero state commesse da parte di quelle che erano a Bolzaneto sotto la sua responsabilità [57]).

I giudici scarcereranno, nei giorni successivi, tutti i manifestanti, per l'insussistenza delle accuse che ne avevano provocato l'arresto.

Successivamente sia alcuni agenti [58] [56] che alcuni infermieri presenti a Bolzaneto [59] affermarono sia di aver assistito (o per lo meno percepito) ad episodi di violenza, sia di aver visto arrivare nella caserma manifestanti già pesantemente feriti.

Il 4 febbraio 2004 il magistrato Alfonso Sabella, durante un interrogatorio, disse che la caserma di Bolzaneto doveva servire per un piano anti-black-block, elaborato durante un vertice in prefettura svolto il 7 luglio: in base a questo piano la caserma doveva essere operativa entro il 17 luglio o anche prima, subito dopo (e quindi prima dell'inizio del vertice) sarebbero dovuti avvenire dei fermi preventivi contro i "black bloc" già noti, e poi, grazie ad una apposita scansione dei tempi della giustizia (24 ore di fermo di polizia sommati a due giorni per effettuare gli interrogatorio da parte del pm e ad altri due giorni per essere ascoltati davanti al gip) li si sarebbe potuti trattenere fino al termine della manifestazione (Sabella sosterrà di non essere stato molto favorevole ad usare la contestazione di reati per giustificare questi fermi preventivi, ma che il tutto veniva giustificato col permettere di bloccare i gruppi più violenti in modo da far svolgere la manifestazione in maniera pacifica, anche per la sicurezza stessa dei manifestanti). In base a questa pianificazione la caserma di Bolzaneto doveva servire solo per arrestare e immatricolare questi piccoli gruppi, da trasportare poi nelle carceri tradizionali, mentre nei fatti il piano non verrà messo in atto e nessuno dei sospetti già noti verrà fermato, e in caserma il primo arrestato arriverà solo il 20 luglio quando ormai gli scontri erano già iniziati e nei giorni seguenti riceverà centinaia di fermati, un numero ben maggiore rispetto a quello per cui era stata pensata. Alessandro Garassini, l'avvocato che assisteva Sabella, a proposito delle dichiarazioni del suo assistito dichiarerà ai giornalisti: "La domanda che mi pongo dopo aver sentito il racconto del mio assistito non solo da avvocato ma anche da cittadino è chiara: perché nessuno ha fermato i violenti prima del vertice? Eppure ci sono state le riunioni preparatorie, che confermano come le segnalazioni fossero correttamente arrivate. C'era anche un piano studiato nei dettagli. Ma al momento giusto non è accaduto nulla" [60].

Il dolore per la morte di Carlo Giuliani

Sicuramente l'evento che aveva colpito maggiormente l'opinione pubblica era la morte di Carlo Giuliani che i media avevano trasmesso e pubblicato impietosamente.

Ciò aveva portato ad un pellegrinaggio in piazza Alimonda a rendere onore alla vittima. A pochi metri da dove Carlo Giuliani aveva trovato la morte, sulla cancellata della chiesa di Nostra Signora del Rimedio, era stata improntata velocemente un'area dove per alcuni anni sono stati lasciati biglietti e ricordi di ogni genere, soprannominata dai media "altare laico".

I processi e le decisioni giudiziarie (parziali e definitive)

Sull'attacco ai Carabinieri in piazza Alimonda e sulla morte di Giuliani furono avviate diverse inchieste giudiziarie.
Solamente tre degli assalitori, identificati dalle foto, furono rintracciati e interrogati: M.M. e E.P. di Genova, e L.F. di Pavia.
M.M. si presentò agli inquirenti e si appellò agli altri affinché si presentassero a testimoniare[61], E.P. si presentò il 6 settembre, L.F., estraneo al gruppo, fu riconosciuto dalle foto dalla Digos di Brescia. Essi non diedero chiare spiegazioni sulle motivazioni dell'assalto alla camionetta, ma descrissero l'elevata condizione di tensione creatasi in seguito alle cariche delle forze dell'ordine alle quali, secondo la versione di alcuni di loro, avevano avevano cercato di sfuggire dirigendosi verso via Caffa dove furono nuovamente caricati.

I carabinieri Mario Placanica e Filippo Cavataio furono indagati per omicidio; i tre aggressori identificati furono indagati per tentato omicidio. Il 5 maggio 2003 il procedimento sulla morte di Carlo Giuliani è stato archiviato: il GIP Elena Daloiso prosciolse Placanica per uso legittimo delle armi, oltre che per legittima difesa come richiesto dal PM Silvio Franz. [62]

I tre aggressori identificati furono rinviati a giudizio per vari reati.

Nel giugno 2006 Haidi Giuliani ha effettuato l'invio di una raccomandata a Mario Placanica per interrompere il decorso dei termini di prescrizione in ordine alla morte del figlio Carlo. La signora Giuliani ha precisato di non averlo fatto al fine di citare Placanica per danni, ma di volere giungere ad un processo "che faccia luce non solo su piazza Alimonda, su chi ha effettivamente sparato, ma anche sulle responsabilità politiche e sulla catena di comando".[63]

Le immagini dell'irruzione alla scuola Diaz smentiranno la prima versione dei fatti, mentre seguirà un rimpallo delle responsabilità ed accuse reciproche tra i diversi dirigenti di Pubblica Sicurezza circa la responsabilità primaria dell'azione. Nella relazione della Procura di Genova, con cui si chiedeva il rinvio a giudizio di 28 poliziotti per le violenze alla scuola Diaz, i magistrati affermeranno anche di aver scoperto la sparizione di alcuni filmati amatoriali sull'irruzione, spediti dalla polizia, senza autorizzazione da parte della magistratura, in Svizzera e in Germania per il riversamento su DVD, e di cui si sono poi perse le tracce.

Il 10 giugno 2002, il vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione riconosce, tramite foto e riprese, le due molotov sequestrate ufficialmente nella scuola Diaz come quelle da lui stesso ritrovate in alcuni cespugli di una traversa di Corso Italia, al termine di una carica durante gli scontri del Sabato, facendo sorgere i primi sospetti sulla provenienza delle molotov.

Successivamente il 4 luglio 2002 Michele Burgio, l'agente che guidava il mezzo in cui vi erano le bottiglie ("un magnum blindato in dotazione al reparto mobile di Napoli"), confesserà di aver avvertito il generale Valerio Donnini (che era sul mezzo di cui Burgio era autista) della presenza di queste e chiedendo se era opportuno portarle in questura, ricevendo però una risposta brusca ("lui si è rivolto a me in modo alterato, come se avessi fatto una domanda stupida o che comunque non dovevo fare"), e affermerà di aver ricevuto successivamente l'ordine dal vicequestore Pasquale Troiani di portare le molotov davanti alla Diaz. In questi giorni viene ritrovato in maniera fortuita un video dell'emittente locale Primocanale (che verrà classificato col nome "Blu Sky"), che aveva seguito con le sue dirette tutti i giorni della manifestazione, girato nel cortile della scuola durante l'irruzione, in cui si vedrebbero i responsabili delle forze dell'ordine che stavano guidando la perquisizione intenti a parlare tra loro e al telefono, con in mano il sacchetto azzurro in cui erano contenute le molotov.

Il vicequestore Pasquale Troiani (che teoricamente non ricopriva nessun ruolo durante l'operazione), si contraddirà alcune volte durante i successivi interrogatori, affermerà sia di aver ricevuto effettivamente le molotov fuori dalla scuola, da Burgio, sia che probabilmente era già stato avvertito della presenza delle bottiglie sul mezzo prima di arrivare alla Diaz e che forse ne aveva parlato con il vicequestore Di Bernardini. Ammetterà tuttavia di aver detto a quest'ultimo che "erano state trovate nel cortile o nell'immediatezza delle scale d'ingresso. Questa è stata la mia leggerezza, e me ne rendo conto".

Spartaco Mortola l'ex capo della Digos genovese (che stando a quanto riferito dai media è una dei superiori che compaiono nel filmato di Primocanale) sosterrà invece che le molotov gli furono segnalate da due agenti del reparto mobile che le avevano trovate dentro alla scuola, e che con lui in quel momento vi erano due colleghi, forse La Barbera e Gratteri, e di aver visto al piano terra della scuola una cinquantina di manifestanti tranquilli e apparentemente senza lesioni o ferite.

Francesco Gratteri (presente, sempre secondo le notizie date dai media, nel succitato filmato) durante l'interrogatorio nell'ottobre 2003 sosterrà, a proposito del finto accoltellamento, che "Io penso che l'episodio dell'accoltellamento simulato sia stato determinato dal fatto che qualcuno ha esagerato... Che l'episodio dell'accoltellamento potesse in qualche maniera parare, giustificare, coprire l'eccesso di violenza usato", aggiungerà che non si ricordava né i momenti in cui vennero consegnate le molotov, né da gli erano state indicate e di aver trovato anomala la presenza delle telecamere delle televisioni subito dopo il loro arrivo.

Giovanni Luperi, vice di La Barbera, dirà che il sacchetto delle molotov era passato di mano in mano tra gli ufficiali presenti, per rimanere infine a lui quando questi se ne erano andati mentre stava telefonando (lo consegnerà ad alla dottoressa Mengoni della Digos di Firenze). Sulla presenza delle molotov una volta portate all'interno della scuola dirà che "Le ho viste, queste due bottiglie molotov, stese su uno striscione. Ritengo che fosse un qualche suggerimento ad uso stampa. Qualcuno aveva intenzione di far riprendere le immagini fotografiche del materiale sequestrato all'interno della Diaz". Riferirà di essere andato alla Diaz solo per seguire il suo superiore, La Barbera, e di aver cercato, pur senza averne la responsabilità, di coordinare le azioni perché le forze dell'ordine erano in un "bailamme in cui nessuno capiva più nulla", cessando però di interessarsi alla perquisizione dopo l'arrivo del superiore. Dopo che La Barbera se ne era andato senza che lui se ne accorgesse e che anche Mortola della Digos genovese aveva abbandonato la scuola, era rimasto bloccato sul posto senza mezzi.[64] [65] [66] [67] [54] [68]

Un esponente delle forze di Pubblica Sicurezza, il sovrintendente Giuseppe De Rosa, è stato condannato in primo grado con il rito abbreviato a 20 mesi per aver picchiato un manifestante minorenne, a sua volta denunciato e assolto da ogni addebito. La scena era stata ripresa dalla troupe del TG5.

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Per quello che riguarda le cariche effettuate in piazza Manin verrano sporte dai manifestanti feriti circa sessanta querele per le lesioni subite: il Ministero dell'Interno verrà condannato a risarcire numerosi manifestanti, una volta appurato l'ingiustificato uso della violenza nei loro confronti, ma nessun responsabile delle forze dell'ordine verrà identificato a causa dei caschi della tenuta antisommossa e dei fazzoletti indossati davanti al viso. Sempre per i fatti di piazza Manin quattro agenti del reparto mobile di Bologna verranno indagati e rinviati a giudizio per falso calunnia, in quanto avevano arrestato due giovani spagnoli con l'accusa di resistenza (secondo la versione degli agenti uno li avrebbero aggrediti con un tubo di ferro, mentre il secondo avrebbe lanciato una molotov) e il sospetto che facessero parte del "blocco nero", mentre un filmato acquisito dalla magistratura (di proprietà di Luna rossa, un associazione di registi italiani indipendenti presenti durante il G8) mostrerebbe uno dei due giovani che, senza apparente motivo, viene arrestato, ed il secondo che avvicinandosi per chiedere spiegazioni subisce la stessa sorte. Le indagini successive sui due giovani dimostreranno poi come loro non fossero presenti nel gruppo dei manifestanti violenti giunti in piazza, scagionandoli completamente.[69] [70] [71][40]

Sono invece ancora in corso procedimenti giudiziari contro diversi manifestanti per gli incidenti, e contro diversi esponenti delle forze dell'ordine per le violenze a danno dei manifestanti esercitate nella caserma di Bolzaneto e nelle strade di Genova. Per l'episodio della scuola Diaz sono stati rinviati a giudizio 28 esponenti delle forze dell'ordine.

Sia 200 denuncie penali per lesioni contro esponenti delle forze dell'ordine per violenze a danno dei manifestanti durante gli scontri, sia 60 denunce relative alla perquisizione della Diaz sono state archiviate (le prime già durante il 2003) per l'impossibilità di identificare gli agenti responsabili dei fatti, a causa del casco dell'uniforme e dei fazzoletti che molti di loro portavano sul viso, nel giugno 2005 erano ancora in corso numerose cause in sede civile contro il Ministero degli Interni. Inoltre, secondo i PM del processo per le presunte violenze nella caserma di Bolzaneto, i processi contro gli esponenti delle forze dell'ordine, visto l'elevato numero di udienze previste, rischiano di concludersi con la prescrizione (i cui tempi sono stati ulteriormente ridotti dall'introduzione della legge Pecorella, ex-Cirelli) prima di una sentenza di primo grado. E uno sconto di pena di 3 anni, dovuto all'approvazione di un indulto il 29 luglio 2006, verrebbe applicato, in caso di condanna, a tutti i reati per cui risulta indagato il personale delle forze dell'ordine, e alla maggioranza dei reati per cui risultano indagati i manifestanti; verrebbero esclusi dell'indulto eventuali condannati per associazione sovversiva.

Il 17 gennaio 2007, nel corso di un'udienza del processo relativo all'irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz, gli avvocati difensori degli agenti e dei funzionari di Polizia imputati hanno reso noto che le due molotov usate come prova per giustificare l'irruzione (che successivamente si scoprirà, grazie ad un fortuito filmato dell'emittente Primocanale e alla testimonianza di un'agente, erano state ritrovate lo stesso giorno in una traversa di Corso Italia e portate nella scuola a blitz concluso) erano state smarrite. Il tribunale ha deciso che, finché non verranno ritrovate le due bottiglie incendiarie, non ascolterà le testimonianze legate a queste e proseguirà con l'analisi di altro materiale e di altri testimoni. I media locali hanno riferito voci, non confermate ufficialmente, che vorrebbero le molotov distrutte a causa della loro pericolosità (anche se ovviamente erano state svuotate) su richiesta della procura. Nella successiva udienza, il 25 gennaio 2007, il Tribunale di Genova ha respinto l'istanza avanzata dai difensori - tra i quali spicca il nome di Alfredo Biondi, parlamentare di Forza Italia - degli agenti dei funzionari di Polizia imputati. L'istanza invocava l'annullamento di almeno parte del processo in corso contro i loro 29 assistiti - imputati di gravi reati consumati ai danni dei manifestanti, quali falso, lesioni e calunnia - mettendo in discussione la validità dell'intero procedimento. Respingendo la richiesta della difesa, il Presidente del Tribunale, Gabrio Barone, ha reso note le risultanze dell'indagine condotta dal questore Salvatore Presenti che, in una risposta scritta sollecitata dai Pubblici Ministeri Francesco Cardona-Albini ed Enrico Zucca, ha dato per certo che le molotov siano da considerare - se non addirittura distrutte - comunque irrimediabilmente perdute. La non recuperabilità materiale dei corpi di reato - custoditi in questura e in locali teoricamente accessibili per un certo periodo ad almeno uno degli imputati, il dirigente Digos Spartaco Mortola - non è stata tuttavia sufficiente a convincere la Corte ad accogliere le tesi difensive, che sono state rigettate spiegando come le due bottiglie molotov fossero ormai già incluse nei fascicoli del Processo durante il quale, in aula, un testimone aveva inoltre già effettuato dichiarazioni giurate sui movimenti delle stesse e come esse fossero state ampiamente referenziate da altri testimoni e consulenti tecnici che le avevano esaminate. Il presidente Barone ha inoltre stigmatizzato duramente il comportamento della Questura di Genova, evidenziando come sia impossibile smarrire o addirittura distruggere corpi di reato di importante valenza se non per dolo o per colpa, non escludendo provvedimenti contro i responsabili della loro custodia; a tale proposito il PM Zucca ha chiesto l'apertura di uno specifico procedimento giudiziario, ricordando come Mortola fosse in servizio presso la questura genovese proprio nel periodo, individuato da Presenti, nel quale le molotov sarebbero state distrutte. Lorenzo Guadagnucci, giornalista de Il Resto del Carlino malmenato e gravemente ferito durante l'assalto alla Diaz e parte lesa nel processo, ha dichiarato: "Questo episodio della sparizione delle bottiglie molotov è scandaloso perché è l'ultimo di una serie di boicottaggi operati dalla polizia di Stato contro il normale esercizio dell' azione giudiziaria"[72].

Eventi successivi

L'Arma dei Carabinieri pose Placanica in "congedo assoluto" perché considerato "permanentemente non idoneo al servizio militare in modo assoluto" e nel 2005 Placanica fece richiesta di essere reimpiegato in ruoli civili statali, in ragione della "infermità permanente residuatagli in conseguenza delle lesioni e dei traumi da lui riportati a causa della violentissima aggressione". Placanica si candiderà nelle elezioni comunali del maggio 2005 nella lista civica "Catanzaro con Sergio Abramo".

Nell'ottobre 2006 il gruppo di Rifondazione comunista al Senato decise di intitolare a Carlo Giuliani la sede del proprio ufficio di presidenza, suscitando la disapprovazione di esponenti del centro-destra.

Alcune dichiarazioni di Placanica

Nel novembre 2006 Placanica fu intervistato dal quotidiano Calabria Ora[73] [74] [75]. Nell'intervista confermò nuovamente di aver sparato in aria, per due volte, ma solo dopo aver constatato l'inerzia dei colleghi e dei poliziotti nell'intervenire per allontanare i manifestanti ("potevano intervenire perché c'erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno fatto niente. Quel momento è durato una vita") e dopo aver di conseguenza intimato ai manifestanti di allontanarsi.
Placanica riferì del clima di forte tensione della piazza ("i superiori ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci avrebbero tirato le sacche di sangue infetto. Ci dicevano di attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in guerra"), dei "festeggiamenti" che ricevette in caserma dai colleghi, che lo soprannominarono il killer salutandolo con il "benvenuto tra gli assassini" e che gli regalarono un basco del Tuscania deridendo la morte di Giuliani ("dicevano: "morte sua vita mia", cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone anche su Carlo Giuliani") e che lui, ancora sotto shock, rimase in disparte senza prendere parte a tali manifestazioni.
Nell'intervista Placanica sostenne anche di essersi ritrovato in "un ingranaggio più grande di me" e che sul G8 non sarebbe stata detta tutta la verità, confermando ad esempio l'ipotesi formulata da alcune inchieste indipendenti, secondo cui qualcuno oltraggiò il corpo ormai esanime di Giuliani colpendolo con un sasso alla testa, dopo che le forze dell'ordine avevano già circondata e resa inaccessibile l'area circostante.

In un'intervista rilasciata a GrNews.it il giorno dopo la pubblicazione dell'intervista su Calabria Ora, Placanica si disse d'accordo sulla necessità di istituire una commissione d'inchiesta per fare chiarezza sui fatti del G8[76].

Note

  1. Articolo da repubblica.it
  2. Articolo in proposito (EN)
  3. Articolo da repubblica.it
  4. da "Indymedia Italia"
  5. 5,0 5,1 Articolo di La Repubblica sul dossier preparatorio per il G8 della Questura di Genova
  6. Articolo su repubblica.it
  7. Allarmi bomba: Articolo su repubblica.it
  8. Pacco-bomba in caserma ferito un giovane carabiniere, da repubblica.it
  9. [http://www.repubblica.it/online/politica/gottosei/tg4/tg4.html Pacco-bomba al Tg4 ferita una segretaria, repubblica.it]
  10. Foto a testimonianza
  11. video del "Black Bloc" che parla con i carabinieri in via Tolemaide su youtube
  12. Black bloc, Ancora foto con carabinieri, da "il manifesto", 23 Luglio 2001
  13. Processo ai 25 no-global, XIII udienza - trascrizione Roberto Di Salvo, 8 giugno 2004
  14. Quei no global li avrei manganellati, articolo de "Il Secolo XIX, 2 giugno 2004
  15. La mappa di Piazza Giusti da Google Map
  16. G8, l'altra faccia degli scontri, articolo de "Il Secolo XIX, 5 maggio 2004; ["Per ore in balia dei black bloc"], articolo de "Il Corriere Mercantile", 5 maggio 2004; G8, il giallo dei saccheggi: "La polizia non fece nulla", articolo de "La Repubblica - Il Lavoro", 5 maggio 2004; G8: Processo No Global; testi, 4 ore in Balia di manifestanti, notizia dell'"ANSA", 4 maggio 2004, riportata da Indymedia
  17. G8 processo;teste, caricato corteo dopo lancio soli 3 sassi, notizia dell'"ANSA", 18 maggio 2004, riportata da Indymedia
  18. Filmato della carica dei Carabinieri in via Tolemaide, ospitato da Youtube
  19. Perché è morto Carlo Giuliani, ricostruzione degli scontri di venerdì 20 luglio, effettuata da "Diario"
  20. (riferimento su Google Maps)
  21. Impegnato all'estero già in Somalia come comandante di plotone responsabile del porto di Mogadiscio ed implicato, assieme al suo collega di reparto e superiore Giovanni Truglio, nello scandalo delle torture nel memoriale scritto dal maresciallo Francesco Aloi (inquadrato come Cappello nel Battaglione Tuscania) e poi nei contingenti MSU destinati al controllo del territorio e dell'ordine pubblico nell'ambito di missioni in zone di guerra prima dei fatti del G8 di Genova, il capitano Cappello, promosso maggiore, fu più tardi impegnato anche in Iraq ove scampò alla morte il 12 novembre 2003, sfiorato dalle esplosioni dell'Attentato di Nassiriya.
  22. [1]
  23. Come risulta dal memoriale di uno dei testimoni, citato nell'opposizione della Parte Lesa alla richiesta di archiviazione del procedimento aperto nei confronti di Mario Placanica, il quale avrebbe urlato: «vi ammazzo tutti, porci bastardi» ([2]).
  24. Dall'opposizione della Parte Lesa alla richiesta di archiviazione del procedimento aperto nei confronti di Mario Placanica ([3]).
  25. Alessandro Mantovani, "Omicidio Giuliani, spunta il perito che scrive troppo" ne il Manifesto del 19 marzo 2003.
  26. A questo proposito vedere il filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 19:05, che contiene la foto di Dylan Martinez in alta risoluzione ed ingrandita e dal minuto 24:06 con un ingrandimento di un filmato laterale che mostra la pistola tenuta in orizzontale mentre spara.
  27. A questo proposito vedere il filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 20:00.
  28. A questo proposito vedere il filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 19:25, con la foto scattata da Marco D'Auria in corrispondenza con il primo sparo.
  29. La distanza della telecamera dal Defender, secondo le consulenze tecniche legate al procedimento giudiziario è compresa dagli oltre trenta metri, secondo i consulenti del P.M., agli oltre 50 valutati dai consulenti di parte civile.
  30. [4]
  31. Matthews si è riconosciuto nella persona che indossa un caschetto e pesanti protezioni improvvisate ritratta nella fotografia visibile dietro il defender nel filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 26:00.
  32. RaiNews: G8. Un supertestimone a Repubblica: Giuliani era ancora vivo dopo che la jeep gli era passata sopra due volte.
  33. A tal proposito si veda il filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 17:40 (il comandante del reparto chiama rinforzi nei pressi, a voce), dal minuto 25:44, dal minuto 26:45, dal minuto 27:24 e dal minuto 27:31.
  34. A tal proposito si veda il filmato Quale verità per piazza Alimonda a partire dal minuto 18:08, dal minuto 26:00 e dal minuto 27:10.
  35. Intervista audio alla sorella di Carlo Giuliani. Altri brani della stessa intervista: Il Buio su Piazza Alimonda di Lello Voce.
  36. Associazione lombarda dei giornalisti - Il "prezzo" pagato a Genova dai giornalisti dell'informazione visiva
  37. L'orrore di Piazza Alimonda - controinchiesta con le foto inedite di Piazza Alimonda
  38. Piazza Manin: pacifici e manganellati, articolo de "Il Manifesto", del 21 luglio 2001
  39. Chiesto risarcimento per violenze G8 , articolo de "Il Secolo XIX", 10 marzo 2003
  40. 40,0 40,1 Volontaria con la testa rotta, articolo sul sito socialpress.it, del 21 luglio 2005
  41. Carica delle forze dell'ordine in piazza Manin, estratto dal film "Sequenze sul G8" di Silvia Savorelli
  42. Cronaca da Genova, articolo de "Il Manifesto", del 10 settembre 2001
  43. XIX udienza del processo ai 25 manifestanti per devastazione e saccheggio, testimonianza di Marco Preve, giornalista di "La Repubblica" e del dirigente della sala operativa Pasquale Zazzaro, settembre 2004
  44. Scajola: «Al G8 detti l'ordine di sparare», articolo del Corriere della Sera, 17 febbraio 2002
  45. 45,0 45,1 interrogatorio a Pasquale Guaglione riportato da Indymedia
  46. Scheda riassuntiva a cura del Comitato Verità e Giustizia per Genova sui fatti della scuola Diaz
  47. "Ho finto di essere morto continuavano a picchiarmi", articolo de "La Repubblica", 27 luglio 2001
  48. G-8 Protesters Say They Were Beaten, Deprived of Rights by Police in Italy, articolo del "The Wall Street Journal, 6 agosto 2001, riportato da Indymedia"
  49. Genoa protesters increasingly hopeful, articolo della BBC news, 14 agosto 2006
  50. Processo G8 di Genova: In aula il video dell'irruzione alla scuola Pascoli, articolo da "Nuova Cosenza"
  51. Filmato dell'irruzione nella Diaz, ospitato da Youtube
  52. «Alla Diaz ci hanno accolto le spranghe», articolo del "La Stampa"", 31 Luglio 2001, riportato da ecn.org
  53. GS-Diaz, nessun lancio di sassi, articolo de "Il Corriere Mercantile", del 15 marzo 2007
  54. 54,0 54,1 G8 sequestrato il video sulle false prove alla Diaz, articolo de "La Repubblica", 2 agosto 2002
  55. G8 un video verità sull'irruzione alla Diaz, articolo de "La Repubblica", 1 agosto 2002
  56. 56,0 56,1 "A Bolzaneto era la celere a pestare i prigionieri", intervista ad un ispettore dei Gom de La Repubblica pubblicata il 27 luglio 2001
  57. G8, la difesa di Sabella "Innocenti i miei uomini" articolo di La Repubblica del 29 luglio 2001
  58. Agenti pentiti: G8, a Bolzaneto ci fu violenza articolo de Il Secolo XIX del 21 gennaio 2004
  59. Il prezzo della verità, intervista all'ex infermiere penitenziario Marco Poggi su terre di mezzo
  60. Violenze al G8 "Ignorato il piano anti black bloc" articolo de Il Secolo XIX del 5 febbraio 2004
  61. Corriere mercantile del 6 settembre 2001
  62. "Placanica sparò per difesa", archiviato il caso Giuliani, 5 maggio 2003
  63. Il manifesto, 21 giugno 2006.
  64. In cerca delle molotov forse distrutte "per sbaglio", articolo del "Il Secolo XIX", 19 gennaio 2007
  65. G8, i superpoliziotti confessano "Alla Diaz errori e violenze", articolo de "La Repubblica", 7 gennaio 2003
  66. La vera storia del blitz alla Diaz, articolo de "Il Manifesto", 7 gennaio 2003, riportato da Indymedia
  67. Diaz - Blue Sky, approfondimento sulla perquisizione alla scuola Diaz a cura di Indymedia, del 7 dicembre 2004
  68. "Alla Diaz abbiamo sbagliato", articolo de "Il Secolo XIX", 1 ottobre 2003, riportato dal Comitato Verità e Giustizia
  69. Poliziotto-sindacalista indagato "La parola d'ordine era reprimere", articolo de "Il Secolo XIX", 10 marzo 2003
  70. G8: poliziotti indagati per piazza Manin, agenzia AGIS, 13 aprile 2004
  71. Chiesto rinvio a giudizio per 4 agenti di polizia
  72. Corriere della Sera: G8, il processo va. Anche senza molotov
  73. Articolo del Corriere della Sera sull'intervista di Placanica al quotidiano Calabria Ora
  74. Articolo de La Repubblica sull'intervista di Placanica al quotidiano Calabria Ora
  75. Il testo dell'intervista a Placanica su carta.org
  76. agenzia adnkronos su intervista a GrNews.it del 29 novembre 2006

Bibliografia

  • Carlo Gubitosa, Genova, Nome per nome. Le violenze, i responsabili, le ragioni. Inchiesta sui giorni e i fatti del G8, Ed. Berti/Altreconomia/Terre di Mezzo 2001 ISBN 88-88-42467-9 (Inchiesta completa sui fatti del G8, contiene molti estratti di atti e documenti ufficiali)
  • Giulietto Chiesa, G8/Genova, Ed. Einaudi, 2001 ISBN 88-06-16170-9 (testimonianza di un noto giornalista e parlamentare europeo presente a Genova nei giorni delle proteste)
  • Haidi e Giuliano Giuliani, Un anno senza Carlo, Baldini&Castoldi, 2002
  • Concita De Gregorio, Non lavate questo sangue, Laterza, 2001
  • C.Marradi - E.Ratto [a cura di], Da Seattle a Genova - Gli 8 non valgono una moltitudine, Fratelli Frilli Editori, 2001, ISBN 88-87923-15-9
  • R.Bisso - C.Marradi, Le quattro giornate di Genova - 19-22 luglio 2001, Fratelli Frilli Editori, 2001, ISBN 88-87923-16-7
  • Nichi Vendola, Lamento in morte di Carlo Giuliani, Fratelli Frilli Editori, 2001, ISBN 88-87923-17-5

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